domenica 30 dicembre 2012

Giorgio Linguaglossa,
La rottamazione
della generazione perduta.


  
Antologia L’orma lieve – 
Antonio Alleva, Raymond André, Leandro Di Donato, Roberto Michilli 
Le Voci della Luna, 2012-12-22

Il problema della Lingua e del linguaggio poetico è altra cosa. Direi, per farla breve, che il linguaggio poetico è un «traduttore», un «traghettatore», un «riduttore» dei veri (reali) problemi in un'altra dimensione, che è quella della «sfera dell'arte» (se mi si passa l'espressione). E qui il problema si pone in un altro modo: che tipo di riduttore? Che tipo di traghettatore? Che tipo di traduttore? E per tradurre che cosa? E per chi?...  E qui i problemi si ampliano e si moltiplicano.

La poesia moderna parte dalla presa d’atto della caduta dell’aura e di ogni corona di alloro dalla fronte dei poeti. È una poesia di sopravvissuti, un puro gioco che si sostituisce al grande gioco di quella che fu un tempo lontano la poesia lirica del Novecento. La produzione poetica delle giovani generazioni è la liturgia di una tradizione scomparsa, epicedi di un lutto che portiamo al petto di una inestinguibile malinconia, ha un andamento da confessionale posticcio, da confessione, tra la filastrocca e la ballatetta, epifenomeno dell’io che si autoconserva mentre pronunzia la propria disparizione, traccia di rimandi impliciti e citazioni esplicite della tradizione.
Antonio Alleva, Raymond André, Leandro Di Donato, Roberto Michilli sono legittimi rappresentanti della «generazione degli anni Dieci», quella generazione che è cresciuta nella democrazia della stagnazione e nel susseguente demagogismo della recessione, ma non si accorgono che quella generazione «eclissata», perché economicamente invalida e culturalmente improvvida, è anche la generazione della stagnazione stilistica, morale e politica. Si tratta della prima generazione in crisi di identità stilistica in quanto attinta, stabilmente, dalla crisi economica, che adotta, stabilmente (nel senso di un erratismo), una molteplicità di direzioni tematiche e stilistiche che hanno in comune il pensiero di una rottamazione e di un dis-compattamento del discorso poetico.
Se ne erano visti gli effetti nella poesia degli anni Novanta, che non si pone più come «bacino di raccolta» delle esperienze stilistiche pregresse come ancora era avvenuto nel corso del Novecento, ma come «bacino di irrigazione», delta stilistico e tematico, ed anche delta linguistico, campo di esperienze stilistiche e tematiche. In questi autori si avverte l’estraneità al paradigma maggioritario (da un lato il binario dello sperimentalismo, dall’altro il binario dell’abbassamento al parlato piccolo-borghese). E il patto di autenticità con il lettore? C’è un pericolo: la «generazione degli anni Dieci» adotta un linguaggio surrogato della comunicazione mediatica, rischia di diventare una sub componente gergale dei linguaggi mediatici.  Adesso è tutto chiaro: la poesia la si fa con i surrogati e i succhi gastrici della comunicazione mediatica.
Non c’è dubbio che la «nuova poesia» della «generazione degli anni Dieci» nuoti nel vuoto, nell’enorme vuoto provocato dalla circolazione delle merci linguistiche e nell’enorme vuoto provocato dalla comparsa del mercato universale globale.
La «generazione degli anni Dieci», appare impegnata nella costruzione di un discorso poetico fondato sulla interrogazione dell’«inautenticità». E qui sorge un problema: è ancora possibile il discorso poetico fondato sull’«inautenticità»? È ancora possibile porre la questione di: quale poetica? Delle poetiche fondate sulla giustificazione del proposizionalismo come avveniva nel tardo Novecento? Si tratta di scegliere: quale proposizionalismo? Si tratta di scegliere: a) un discorso poetico che si regga sulla semplice giustificazione estetica delle proposizioni che le incatena le une alle altre secondo la gerarchia stabilita dalla «funzione» poetica?; b) quale discorso poetico per quale funzione poetica?; c) interrogazione di quale «inautenticità»?  Ma per questo obiettivo non occorre un nuovo linguaggio poetico? Ecco il cane che si morde la coda: è possibile un discorso poetico (dell’inautentico?, dell’autentico?) senza risolvere il problema di un nuovo linguaggio poetico? Il fatto che la «nuova poesia» ponga all’ordine del giorno la questione dell’«inautenticità»,  è sufficiente? Nutro dei dubbi, qui siamo ancora all’interno della logica del riformismo moderato del tardo Novecento, ma se non si affronta il problema di un nuovo linguaggio poetico la «nuova poesia» rischia di perdersi in diramazioni minoritarie ed epigoniche, in riformismi moderati.
È ormai chiaro a tutti che in pieno Dopo il Moderno (dopo che la post-modernità ha provocato l’inflazione e la stagnazione dei paradigmi stilistici dominanti), il discorso poetico non ha altra scelta, se vuole sopravvivere, che inoltrarsi verso il «futuro», il «vuoto», l’«ignoto» senza più la sicurezza dei parametri  tematici e stilistici consolidati. Il futuro che apre le porte alla poesia non dà certezze ma solo problemi aperti che attendono una soluzione. Su di essa grava il compito di sollevare una serie nutrita di domande. E non è un compito da poco.



17 commenti:

Erasmo ha detto...

Salve,
c'è un punto fondamentale che nella sua analisi ha messo in luce e che vorrei sottolineare: la poesia di surrogati.
Il legame con i media è ormai inevitabile, certe tecniche di comunicazione, sopratutto per chi come me è nato da meno di trent'anni, sono invadenti, ottundenti, sembrano quasi imprescindibili nell'atto di creazione di un discorso scritto o verbale. Ma di tale appartenenza, di tale linguaggio comune, siamo coscienti: quante volte tra coetanei ci si ritrova a farne uso come fosse un comune denominatore, un punto di convergenza. Dalla coscienza nascono la discussione e il dubbio: farne uso anche in una materia che sembra di tutt'altra stoffa com'è la poesia? Come rielaborarlo e prenderlo? che parti tagliare, quali tenere? Se non ne vogliamo produrre un surrogato come ottenere un equivalente parallelo ma da esso dipendente?
Secondo il mio punto di vista, del tutto discutibile, credo che la poesia debba oggi essere più democratica e meno populista, e mi riferisco a certi sentimentalismi, certe visioni interiori che sono ormai venute a noia e poco hanno da dire; ma innanzitutto deve essere onesta, non circondarsi dall'aura immaginaria che aleggia attorno alla poesia e alla sua lingua.
L'onestà, la sincerità prevedono il costruire poesia attorno a quanto di più vicino abbiamo, a quanto è nella nostra natura, ed è qui che rispunta inestirpabile il linguaggio mediatico. Si può fare poesia onesta ignorando l'idioma più altisonante dei nostri anni? Forse no o forse sì, ma solo essendo glossopoeti di una lingua egualmente efficace, egualmente percettibile.
È una difficoltà tremenda, ammettiamolo, ripartire da questa tabula rasa, dove nulla giustifica più nulla, dove nulla più ha senso di novità o di provocazione, nulla ha più senso di essere fatto o scritto. Ma tale nichilismo, tale dialettica dell'autentico prende forma di spauracchio invalicabile solo se ci si pone nella prospettiva storica e ci si carica sulle spalle l'intera storia poetica. Dal nichilismo si esce creando una nuova prospettiva.
Il vortice novecentista ha resettato il tempo e per un giovane di oggi Montale è vecchio quanto Omero, Ungaretti quanto Shakespeare. Siamo di nuovo nella condizione, ed è ora di ammetterlo, medievale in cui il passato era un tutt'uno, non aveva profondità e nelle rappresentazioni si vestiva Alessandro Magno con abiti contemporanei; la differenza fondamentale è che noi siamo coscienti di un appiattimento che è indotto, vuoi dal dissolvimento delle forme, vuoi dal mancare di uno scopo, di una funzione.
Tabula rasa vuol dire prendere il passato e metterlo intero in un unica scatola: così scopriremo che a porre interrogativi non è solo il poeta di oggi o di ieri, ma è anche il poeta di tre secoli fa con domande altrettanto valide e attuali. La nuova poesia sia la risposta e sia lo scopo.
Dunque, l'inautenticità porti a prendere le distanze giuste, dove l'unica strada percorribile, almeno in un primo momento, è lo smettere i richiami, i confronti: che il passato sia strumento e non responsabilità.

giorgio linguaglossa ha detto...

Erasmo scrive:

«Il vortice novecentista ha resettato il tempo e per un giovane di oggi Montale è vecchio quanto Omero, Ungaretti quanto Shakespeare. Siamo di nuovo nella condizione, ed è ora di ammetterlo, medievale in cui il passato era un tutt'uno, non aveva profondità e nelle rappresentazioni si vestiva Alessandro Magno con abiti contemporanei; la differenza fondamentale è che noi siamo coscienti di un appiattimento che è indotto, vuoi dal dissolvimento delle forme, vuoi dal mancare di uno scopo, di una funzione». Poi però Erasmo parla di poesia «onesta», e qui mi trovo in parziale disaccordo. La poesia è un'espressione culturale e, come tale, non può essere né onesta né disonesta, cioè non pertiene a queste categorie che sono categorie modali, cioè che esprimono una modalizzazione... la poesia pertiene alla fabbricazione di res, cioè appartiene a una dimensione ontologica che si nutre di Domande e cerca di dare delle Risposte per mezzo di «sostituti», di «traghettatori», di «traduttori»... Appunto, in mancanza di questi moltiplicatori non si ha propriamente «poesia». Quanto a proposito della dimensione «radura» della civiltà odierna, mi chiedo: ma la poesia non deve andare in contro tendenza?

Una autrice, Giuseppina Di Leo mi scrive:

«caro giorgio, ho letto ieri sera il tuo scritto, hai pienamente ragione nel
dire quello che scrivi,ma come si esce dell'empasse?
personalmente mi pongo il problema.
ci rifletterò ancora su».

Mia risposta:

«come si esce dall'impasse non lo so, non ritengo di avere le chiavi per aprire una porta sbarrata ma mi sembra che occorra almeno andare a cercarsele le chiavi e non improvvisare, come fanno tutti quelli delle nuove generazioni, di averle... la critica serve almeno a mettere in chiaro certe questioni. e non mi sembra poco».

Erasmo ha detto...

Con l'aggettivo onesta non intendevo fissare uno spartiacque, bensì chiarire che proprio perché «la poesia è espressione culturale» non può vestirsi e colorarsi di cose che non ci appartengono più e stanno lì come orpelli, il più delle volte a giustificare che quello che si sta scrivendo sia poesia.
Mi riferisco sopra ogni altra cosa alle forme, ai metri, tradizionali e anti-tradizionali, che a mio modo di vedere non dovrebbero rientrare in un progetto di poesia moderna. Sono forzature, biglietti da visita, segni atti a far dire «quello è un poeta!».
Essere poeta non è una lode, non lo è da molto, è ancora necessario richiamare la «vergogna» di Gozzano?
Circoli, riviste locali, spazi web, non pochi stanno lì a coltivare una poesia che ripete sé stessa, che gorgoglia quel verso vecchio e cisposo, così pesante che non si tiene nemmeno in piedi. E le lodi, senza un minimo di autocritica, si sprecano.

Applico l'onestà - quasi fosse un metodo - e parlo del mio caso: non scrivo da molto e non ho scritto molto, sopratutto non credo di aver scritto nulla di buono, o almeno di moderno. Mi è bastato guardarmi appena intorno, leggere qualcosa, ascoltare qualche critico e capire che anche le mie erano «filastrocche e ballatette» come lei le definisce. E allora eccomi col dubbio, col punto interrogativo tra le mani a sondare me e ciò che mi circonda, cerco il bandolo, il traghettatore giusto, ma la faccenda è ben ardua.
La difficoltà sta nel capire i propri errori, ma ancor prima è difficile capire chi prima di noi ha "sbagliato": non nego di conoscere ben poco la poesia contemporanea o comunque degli ultimi due decenni, ma da dove si parte? chi leggere?
Venendo meno l'autorità o comunque il ruolo della critica si sente la mancanza, azzardo la parola, di un canone o quanto meno di una capacità per chi oggi si avvicina alla poesia di discernere i grani grossi dai granelli.
Mi auguro io stesso che la radura diventi bosco e si possa parlare e discutere assieme di cosa e dove sia la poesia oggi, spazi come questi e pochi altri lo fanno guardando le cose in modo oggettivo e ponendosi tali imprescindibili interrogativi.

Mayoor ha detto...

Contrariamente a quanto mi sarei aspettato, non senza lieve timore, il messaggio di fine anno di Linguaglossa non verte sulla fine del dilettattismo poetico alla De Coubertin, definito come "rispettabilissimo" (post sulla poesia di Tagliavento), ma fa capire che questo dovrebbe essere il tempo delle esequie per il Novecento che se n'è andato. Anzi no, nessuna sepoltura, nessun cerimoniale perché attesterebbe la coscienza condivisa che la storia si sarebbe già inghiottita l'intero secolo. Il fatto è che mancano notizie certe sull'esistenza del cadavere, forse perché non si tratta di un vero e proprio cadavere quanto di una moltitudine di poetanti inascoltati, perché invisibili o perché decisamente assenti. Ma essere inghiottiti dalla storia significa essere nella memoria dati del nuovo secolo: inascoltati sì, ma volendo ancora ben leggibili o quantomeno consultabili. Compresi i tardivi. Quindi, per il fatto che la storia non è un tribunale, non si farebbe torto a nessuno.
Non so, ma a me vien da dire che guardare al o nel futuro sia questione per la critica. Forse ai poeti compete l'arco breve della contemporaneità, se poi qualcosa ne avanza per l'avvenire, benissimo. A modo loro furono contemporanei anche Dante e Leopardi, mi pare. Però vorrei dire qualcosa di fantascientifico sul linguaggio: anche se internet ha divelto i cancelli della conoscenza, sia quella con la maiuscola che quella, assai dubbia, che chiamiamo reciproca, va detto che questa può riversarsi solo all'occorrenza e solo in piccole dosi ( che non si esclude possano essere pilotate), che si contraddistinguono per la brevità di messaggi che tentano più l'efficacia comunicativa che l'adozione del linguaggio mediatico tout court. Adottando la brevità del fraseggio, in funzione della sua efficacia, molte cose andranno sacrificate, sia nel linguaggio comune che in quello poetico. Se accade nel linguaggio poetico ne risentiranno le scelte stilistiche perché, credo, molto probabilmente le prime a modificarsi saranno proprio le espressioni "della stagnazione", come le definisce Linguaglossa. E questo perché i linguaggi adottati non possono dirsi autentici, se non autentici-falsi. Ora, non avendo ancora a disposizione un nuovo-falsificabile, da adottare o da poter riprodurre, a meno di essere i più replicanti tra i replicanti ( vedi lo scimmiottamento del linguaggio delle chat), ci si dovrà per forza fermare all'assenza dell'esteriorità, sia ordinaria che straordinaria. Ne consegue, ed è ciò che mi premeva di dire, che bisognerà scavare dei pozzi, ciascuno cercando lo scorrimento del proprio universo interiore, che si esprimerà con il linguaggio che si avrà a disposizione, ma senza adozioni stilistiche, ne' vecchie ne' nuove. A mio modo di vedere sarebbe questo il patto di autenticità: con se stessi, prima che verso il lettore.
Tra gli autori onesti, il numero delle vittime sarà incalcolabile. Buon 2013.

Anonimo ha detto...

A Mayoor:

Penso alla tristezza che proverà, leggendoti, Giselda Pontesillì e mi dispiace. Emy

Mayoor ha detto...

Emy, è vero che io esagero (come quando scrivo che " internet ha divelto i cancelli della conoscenza", che detto così fa ridere), ma è anche vero che la battaglia tra i giganti, televisione e internet, sta scombinando il linguaggio quotidiano in uso, che forse non è già più quello televisivo perché il nuovo linguaggio deriva dall'uso della scrittura più che dal parlato. Sms, bolg, ecc. sono esempi di brevità (scrittura e lettura) miranti all'efficacia nell'immediato. Ciò che azzera il pensiero sta nell'aggregazione stilistica, e semantica, in tutte le forme in cui si presenta, e forse questo oggi vale anche per la poesia, almeno quando si fa maniera di se', che a ben vedere è molto spesso maniera d'altri. Gisella Pontesilli parla della necessità di un impegno filosofico, ma in tema di linguaggio la manipolazione non deriva del mezzo quanto dall'uso che ne facciamo. La televisione adotta un linguaggio a senso unico, imposto e condizionante, internet porta ad interagire. Il Novecento si chiude con il primato della televisione, e questo è ormai un dato storico, ma il duemila si apre con la diversità e la concorrenza dei mezzi interattivi dove è pensabile che conti, volendo anche in funzione dell'efficacia, la creatività.

Anonimo ha detto...

Pour mieux comprendre!
….“Se non si affronta il problema di un nuovo linguaggio poetico la «nuova poesia» rischia di perdersi in diramazioni minoritarie ed epigoniche, in riformismi moderati.”…. Ma è possibile affrontare il problema di un nuovo linguaggio poetico senza chiarissi le modalità del cambiamento. Chi deve porsi il problema, il singolo o l’insieme dei parlanti ? E come porsi il problema in modo autonomo slegati dalla realtà sociale o di pari passo ad una cultura che tende alla sostituzione della vecchia con nuove proposizioni? Una presa di coscienza dei soggetti parlanti, non un linguaggio senza società. Anche se si è coscienti che esistono forti individualità che riescono a dare un'impronta al cambiamento, il linguaggio non è di proprietà dei mass media, la proprietà privata non esiste nel linguaggio quindi la mutazione linguistica va di pari passo con processi di cambiamento della società magari già in atto che fanno mutare il linguaggio anche quello poetico. Enzo

Moltinpoesia ha detto...

Ennio Abate:


“Non c’è dubbio che la «nuova poesia» della «generazione degli anni Dieci» nuoti nel vuoto, nell’enorme vuoto provocato dalla circolazione delle merci linguistiche e nell’enorme vuoto provocato dalla comparsa del mercato universale globale. [...]È ormai chiaro a tutti che in pieno Dopo il Moderno (dopo che la post-modernità ha provocato l’inflazione e la stagnazione dei paradigmi stilistici dominanti), il discorso poetico non ha altra scelta, se vuole sopravvivere, che inoltrarsi verso il «futuro», il «vuoto», l’«ignoto» senza più la sicurezza dei parametri tematici e stilistici consolidati. Il futuro che apre le porte alla poesia non dà certezze ma solo problemi aperti che attendono una soluzione.” (Linguaglossa)

“Il legame con i media è ormai inevitabile, certe tecniche di comunicazione, sopratutto per chi come me è nato da meno di trent'anni, sono invadenti, ottundenti, sembrano quasi imprescindibili nell'atto di creazione di un discorso scritto o verbale.” (Erasmo)

"La televisione adotta un linguaggio a senso unico, imposto e condizionante, internet porta ad interagire. Il Novecento si chiude con il primato della televisione, e questo è ormai un dato storico, ma il duemila si apre con la diversità e la concorrenza dei mezzi interattivi dove è pensabile che conti, volendo anche in funzione dell'efficacia, la creatività." (Mayoor)

"Anche se si è coscienti che esistono forti individualità che riescono a dare un'impronta al cambiamento, il linguaggio non è di proprietà dei mass media, la proprietà privata non esiste nel linguaggio" (Enzo)

Mi pare che in queste vostre posizioni si possano cogliere alcune sfumature delle principali posizioni oggi possibili di fronte alla crisi del far poesia.
Non trovo in nessuna di esse il varco per una possibile uscita dalla crisi. E mi limito a delle obiezioni per tentare di approfondire e, se possibile, andare di più al sodo:

1. Davvero la “nuova poesia” ( o i poeti giovani) nuota nel vuoto? A me non pare che il mercato globale e la circolazione delle “merci linguistiche” sia un vuoto o produca un vuoto. Semmai un pieno di “comunicazione”, “un rumore di fondo” (almeno per chi è più legato alla cultura del libro e ad esso sa ancora sottrarsi), che riempie fin troppo i cervelli e li stimola in alcune direzioni (brevità, emotività, aproblematicità), cancellandone altre ( argomentazione, controllo dell’emotività, problematicità o dubbio).

2. È vero, come dice Erasmo, che il legame coi media è inevitabile soprattutto per i giovani. E che la televisione ha sostituito il libro “e questo è ormai un dato storico”. Ma rapporto inevitabile non significa automaticamente passivo. Se, diciamo così, il sapere dei media ha preso oggi il posto che aveva la Letteratura per le generazioni vecchie e può essere considerato la Tradizione per i giovani, perché dovrebbe venir meno o dovrebbe essere stata resa impossibile ogni dinamica critica? Forse, come dice Mayoor, i mezzi interattivi potrebbero (condizionale!) incoraggiarla.

3. Davvero il linguaggio non sta diventando “proprietà privata”? E i processi di privatizzazione e di riadattamento elitario o populistico dei linguaggi che predeterminano ogni discussione pubblica sui problemi “reali” e stabiliscono quali sono ammessi e quali no nei mass media, non li vediamo? Non vediamo che, se vogliamo affrontare una qualsiasi delle questioni sociali o politiche in cui siamo parte in causa, ci troviamo il fuoco di sbarramento del “verbo” pronunciato dai vari leader delle varie lobby “privatizzatrici” che ci impongono il LORO “bene comune”?





Anonimo ha detto...

Il linguaggio è nato per capirsi, per dialogare . L'interesse per la parola, ha voluto far nascere la poesia con il suo prezioso messaggio che obbliga a riflettere e a capire che siamo in un universo che ci potrebbe staccare da tutto ciò che toglie al "noi" il diritto all'ascolto, alla comprensione anche di quella importante parte del pensiero che è la riflessione. La velocità non è compagna della riflessione, ma le cose stanno cambiando cambieranno anche le menti? Penso proprio di sì, cambierà la poesia , ma non perchè l'avremo voluto ma perchè saremo costretti ci creeranno la necessità di farlo e noi lo faremo, come ci siamo adattati a tutto il resto, va bene così...di cosa mi meraviglio? Emy

Anonimo ha detto...



Un fiume di pensiero
spaccò la roccia
i frantumi brillavano
nel mare sulla pianura.

Qualcuno raccolse un sasso
ma non trovò il suo seguito.

Emy

giorgio linguaglossa ha detto...

Erasmo scrive:

«La difficoltà sta nel capire i propri errori, ma ancor prima è difficile capire chi prima di noi ha "sbagliato": non nego di conoscere ben poco la poesia contemporanea o comunque degli ultimi due decenni, ma da dove si parte? chi leggere?».
Mayoor scrive:

«questo dovrebbe essere il tempo delle esequie per il Novecento che se n'è andato. Anzi no, nessuna sepoltura, nessun cerimoniale perché attesterebbe la coscienza condivisa che la storia si sarebbe già inghiottita l'intero secolo. Il fatto è che mancano notizie certe sull'esistenza del cadavere, forse perché non si tratta di un vero e proprio cadavere quanto di una moltitudine di poetanti inascoltati»

Cari interlocutori, credo che ormai dobbiamo fare i conti non più con il «Sacro Capitalistico Impero» di fortiniana memoria ma con il «Sacro Mediatico Impero» del villaggio della comunicazione globale, il nuovo Moloch che forse ha le gambe di argilla? Che può essere afflosciato (come una mongolfiera) dalla puntura di spillo di una poesia? Ma è una illusione. In realtà, la poesia sopravvive a se stessa come un parassita sul corpo delle attività produttive. È diventata una attività parassitaria. Nelle attuali condizioni della odierna economia spirituale (e monetaria), il discorso poetico non può che perorare la propria radicale estraneità al Moloch.
Il conformismo, invece, è altametne produttivo:: perché il libero mercato ha bisogno di un pubblico assuefatto e di una cultura massmediatizzata.
È proprio della Media Sfera la convivenza contemporanea di tutte le dimensioni (alto, basso, sinistro, centro, destro, sublime e cloaca etc.), di coloro che guardano avanti, della cosiddetta avanguardia e di coloro che guardano indietro, della retroguardia. Il principio di confusione si nuttre di innumerevoli palcoscenici, moltiplica i palcoscenici e i gettoni di presenza: i libri diventano gettoni di presenza. In tal senso gli ultimi libri di Franco Buffoni ne sono un esempio ineguagliato: superficie x superficie = stile da superficie.

Moltinpoesia ha detto...

Ennio Abate a Giorgio Linguaglossa:

Lascio perdere la questione se la "comunicazione globale" sia pensabile senza l'estensione del capitalismo a livello mondiale (per me non lo è; e dunque mi pare un errore di analisi mettere tra parentesi un discorso sul Capitale e la visione marxiana che sul suo funzionamento ci ha detto verità "invecchiate" ma non superate certamente dall'ondata liberista ...), perché parlare della poesia come di un'"attività parassitaria" in generale?
Parassitaria sarà una certa poesia che accetta le briciole
o i vantaggi del sistema capitalistico, ma non tutta.
In ogni epoca di grossi sconvolgimenti si sono coagulate
minoranze che hanno resistito alle invasioni barbariche.
E poi non sarà certo la poesia a far afflosciare il Moloch
più o meno d'argilla.
Guardiamolo questo Moloch, studiamolo nella sua realtà invece di fermarci alla metafora e ci accorgeremo che esso è dilaniato al suo interno da scontri e non è neppure quel Sacro Capitalistico Impero che pareva dovesse imporsi unico e assoluto dopo il crollo del suo antagonista concorrente, l'Urss.
I poeti, per favore, guardino meglio...

Anonimo ha detto...

A Ennio:

Giustamente ci facciamo tante domande, poche sono le risposte. La povera gente,quella che non avrà più niente nel portafogli, darà un vera risposta, ma sarà violenta e non breve.Qualcuno comincerà a capire il danno la beffa e si dovrà risorgere, così è sempre stato. Lametafora, la poesia nascerà nuova e non senza sofferenza, così è sempre stato. Emy

Erasmo ha detto...

Non si può parlare di "invasioni barbariche" ora presenti, ora assenti, e neppure di invasione: la barbarie c'è sempre stata ed è necessaria all'essere umano, quanto lo è la poesia.
Sono entrambi organi dell'umanità e si potrebbe azzardare a dire che la poesia esiste perché esiste una barbarie che spazza via, che dimentica, mentre lei permane, viene trasmessa, racconta.
Il problema non sta né in un'invasione e né nell'incapacità di evasione, né nel numero della minoranza e nemmeno nell'imponenza del Moloch.
Non si dovrebbe costruire poesia "contro" qualcosa ma "per" qualcosa. Uno stato, una nazione, per progredire non costruisce armi o mura di difesa: appena queste saranno divelte o sorpassate non ci sarà nulla che impedirà l'invasore di occupare il suo territorio e far "dimenticare"; ci si dovrebbe occupare di rendere forte quello che c'è dentro le mura: la sua struttura sia solida, radicata, il popolo sia fiero di sé stesso, abbia tradizioni alla base e sfide ben visibili, aperte a tutti.
Che questa nazione sia la poesia, ha abbastanza sfide per restare viva e poco può il grande Moloch contro una simile tradizione. Non morirà, non di questo bisogna occuparsi.

Ritornando al principio di questa discussione è il linguaggio l'unica questione da affrontare: perché un poeta non sa più parlare ad una persona qualunque? e non ci si appelli alla barbarie quanto piuttosto si interroghino i propri versi.
È vero, la poesia è un'attività marginale e parassitaria, ma non senza la sua dignità. Magari lavorasse davvero come un parassita e si cibasse di ogni cosa e saprebbe vivere di ogni cosa, ogni argomento, ogni linguaggio. Deve combattere la ristrettezza, la vista opaca, il balbettio.
Uno degli scopi della poesia è ritrarre, ma facendo in modo che il ritratto lasci scoprire sempre nuove cose.
La moltiplicazione delle poesie e dei poeti (moltinpoesia non rappresenta questo?) forma anch'esso un linguaggio diramato in (cito Linguaglossa) «tutte le dimensioni (alto, basso, sinistro, centro, destro, sublime e cloaca etc.)».
Credo questo sia il pozzo dove attingere per un abbozzo di nuovo linguaggio: la condivisione e coesistenza di ogni linguaggio e ogni realtà, a cui aggiungo, secondo le mie idee già esposte, la contemporaneità tra presente e passato, moderno e tradizione.
Qualcuno storcerà il naso dicendo che è una via già tentata, qualcun' altro ci vedrà solo un gran caos; ma ci penseranno i versi a portare l'ordine, a organizzare una loro rappresentazione, non dimenticando che scrivere è selezionare.

Anonimo ha detto...


Ad Erasmo

Io ci vedo un grande pensiero , molta speranza e competenza.Grazie per aver dato al mio pessimismo una via di fuga. Emy

Erasmo ha detto...

Bisogna sempre trovare una scappatoia per continuare a scrivere poesia no? Sempre tentare un'altra strada. Grazie a lei per l'apprezzamento.

Anonimo ha detto...

mi meraviglia constatare che nessuno degli autori inclusi nella Antologia sia intervenuto in questa discussione almeno per farci conoscere il loro punto di vista. Ma, mi chiedo, hanno un punto di vista? Hanno una visione dei problemi che stanno oggi sul tappeto di chi vuole tentare di fare poesia? Eppure lo scritto di Linguaglossa mi sembra che sollevi tante e tali questioni da lasciare sgomenti. Mi chiedo: che cosa hanno da dire in proposito Antonio Alleva, Raymond André, Leandro Di Donato, Roberto Michilli (?)

Laura Canciani