mercoledì 26 dicembre 2012

Marco Onofrio,
Da "Disfunzioni".



Brano I – da “Fuga”

È una casa sommersa, a due piani.
Sfondata dall’interno come un pozzo,
stipata di vertigine abissale.
È un lago di sabbia e di sale.
È la forma di un palazzo in fondo al mare,
un oceano raccolto in un bicchiere.

Lagnosa di tubi che fischiano
maligni del fuoco che è all’interno.
Ferrigni riverberi di luce
incisi dentro al buio dell’eterno.
È la musica del tempo,
è l’ancestrale suono che si è spento.
È un ricordo che soggiorna e non si muove,
è un macigno di silenzio ch’è padrone.
Escrescenze filamentose allignano
di polvere le spore,
superfetanti fitte ragnatele.
All’angolo dei muri e dei cantoni,
nel mezzo del pattume accumulato,
funghiscono organismi cellulari
fioriscono amicizie vegetali
simbiosi innaturali
sospiri di misteri e parassiti
e ragni velenosi,
gli acari invisibili e virali,
e i vermi anelliformi e i protozoi.
E spugne di laniccia e rimasugli,
matasse di filacci e di capelli
intrecci di cavilli e segatura,
carcasse di pidocchi e spuntatura,
e nidi pullulanti di formiche
e villi palpitanti di calura
e tocchi putrescenti di vapori
e croste e spoglie mute epiteliari.
È il mal della natura,
la forma e la sostanza di bruttura:
è il pungere mortal della fattura.
Sono le stanze infette dell’estate:
è il corridoio assurdo senza fine.

Brano II – da “Roma esercito”

E poi l’appuntamento mai fissato:
aspettare, aspettare invano
e stupirsi che non viene la persona
immaginaria che si attende, ma
un poco sperare, anche, malgrado tutto
che qualcuno ci venga a prendere
esca poi dal vuoto e si presenti.
Oppure ricordare di qualche appuntamento
vagamente, confusamente, però
dubitare, e aspettar lo stesso.
Quando il silenzio è il suono del vuoto
il vuoto è il colore del silenzio.
E affiora l’interno del mondo.
Allora mi sgancio dalle cose e…
vedo le Bianche Eminenze.

Brano III – da “Roma esercito”

Cardinali, deputati, borgomastri,
finanzieri, turcomanni, ciambellani,
e prevosti, gabellieri, dignitari,
graduati, marescialli, caporali,
conestabili, balivi, cortigiane,
portaborse, parassiti e fannulloni:
tutti belli assisi a manducare.
Sono i potenti di successo,
gli affermati ipocriti e arroganti:
quelli dall’occhio lungo
aggressivo, cinico, vorace,
che l’hanno ucciso dentro,
con le loro mani e da parecchio,
il bambino che erano un tempo:
gli sverginati, quelli che gente onora
deferente, per paura e conto personale:
quelli che infine lo han trovato,
dopo tanto tempo a sgomitare
a trafficar con mani di bilancia,
un posticino al mondo da godere.
Bella la vita, eh?
E noi buoni, quaggiù,
a torcer le budella e a non fiatare.

“Armiamoci e partite”, prorompono improvvisi,
e poi grasse le risate a crepapelle
e fiumi di buon vino a festeggiare.

Per altra via, piuttosto
bisognerebbe intripparli di cibo:
dal bucio più nascosto e verecondo,
dal fondo dell’oscuro,
per una digestione all’incontrario.
Uscirebbe cacca dalla bocca
o il pabulo, mezzi a mezzi digerito
tornerebbe, poi, fatalmente al basso,
sospinto dalla forza digestiva? 
Giustappunto con la merda, ecco
io li vedrei contenti a pasteggiare;
io stesso gliela servirei di tutto punto,
in guanti di velluto,
calda di fetore e appena fatta,
plaf, col mestolo sul piatto di ciascuno
– un inchino reverente e un bel sorriso
(“i miei omaggi, signore”) –
siccome una porzion di zuppa inglese.
E poi, ancora, io passerei a pulire
i grugni sporchi
sbavati d’ingordigia immemoriale
beati di satolla compiacenza
gaudenti di bisboccia e carnevale:
gli netterei la faccia da maiale
col bell’asciugamano a fiorellini:
ma quello del bidet, naturalmente,
e vecchio poco poco almeno un mese…

Brano IV – da “Roma esercito”

Siamo ad un passo da un gigantesco abisso
aperto sull’immenso universale.
Sul bordo di un dirupo:
sotto è panorama aereo, anzi
satellitare. Si vede benissimo l’Italia
di mille anni or sono, scura
di selve e di foreste.
Ma… è un’isola!
… completamente circondata dalle acque…
come il nostro corpo quando nacque…
Ed ecco, c’è qualcuno che si lancia…
resta sospeso in aria, giusto il tempo di
pensare, per qualche misterioso
attimo di stallo… gira poi sull’asse verticale,
ride, saluta e…
giù che a piombo cade
come un grave di metallo verso il mare
precocissimo puntino che scompare
giuso, a precipizio.
Devo, voglio lanciarmi anch’io…
Non so se farlo o meno, però:
paura, speranza, indecisione
la dolce titubanza del giudizio 
e forza, forza non ce l’ho.
Lo faccio, l’ho fatto? Non so.
Sotto, intanto, è cambiato
a vista lo scenario.
La “facciata” di Roma
e la città posticcia che c’è dietro
(da via della Salita a Monte Mario,
dal Colosseo quadrato a quello antico
il bulbo di Don Bosco e di San Pietro,
oh dolcevita! A fork, please
– Do? – A fork, waiter…
for the pork, please…
– ‘Na pinza pe’ ‘sta faccia da sarciccia –
traslava er cameriere impomatato
profuso deferente in un inchino,
e ripigliava il canto:
“Quanto sei bella, Romaaa…”)
tramuta mano mano in… Nuova York!

Penso: se mi lancio, non posso più
farlo in tempo di giornata.
Come si risale fin quassù?


Brano V – da “Al privè”

Strompegone bullo e barracano
le froge impelagate nel susone
moro in quintavalle
al “Pettinari”
– calotta impomatata a brillantina –
vi accoglie sul portale
imbottito panno sopraffino
è un bel righetto er più
di quelli rari
sorriso paragulo e brigantino  
− le cicatrici in viso da cortello −
è fatto cor pennello: è un poperuolo
e ci ha lo stuolo delle ammiratrici
Rodolfo Valentino de noantri.

Saddùri di spemezie e lucisano
(Ruoppolo e Marcacci i buttafuori)
mutili geppini in caravelle
burlacchiano
cesibanti, rucidi.
Nervosamente fuma il principale
fra i denti masticando i suoi “mortacci”.



Brano VI – da “Impallato”

Sto lavorando al computero.
Il marchingegno stupido e infernale.
Gli occhi pallati che bruciano
infiammati e sono rossi (mi fan male),
a furia di guardare inutilmente.
Come l’uomo che addiviene al postmoderno,
dopo l’avvento della Grande Impresa
(nel sistema a rete più globale):
un minchione tutto il giorno al terminale
di uno schermo ostaggio e in fondo schiavo:
pagato per non pensare,
per digitare i tasti ed eseguire
comandi programmati e soluzioni,
caterve di sequenze e informazioni.
La mente stanca, soffiata, annuvolata,
sfiancata dal silenzio di quel niente.
Sepolta nella sabbia, agonizzante
impresa nella morsa del suo sabba.
Violata, nebulosa, alluvionata.
Sopiti richiami di rabbia,
tremolanti forme in gelatina.
I disegni mistici del tempo.
Le coincidenze, i nessi, le occasioni:
la verità che trama alle apparenze,
che ruba la misura alle presenze,
che parla piano piano ai suoi bambini.
I movimenti fermi del pensiero.
Sempre più pigro, sempre più banale.
Inetto e inutile, abissale.
La misura della più grande altezza:
la maggiore superficie.
Un innesto di parole cancellate,
abrase dal silenzio, censurate…


Brano VII – da “Impallato”

Son diventato un virus.
Dentro il computero stesso:
parte strutturale componente,
cip organizzato e intelligente.
Infinitesimo punto di silenzio,
percorro le autostrade di silicio
in fasci e nervi ottici integrati:
la luce mi trasporta e mi contiene:
è un sole che mi brucia nelle vene,
un nuovo Zoroastro da adorare:
è un suono che si spande e non proviene, è…
un disco che risorge tumefatto
verdastro di sapore ed arancione…
M’intrippo, m’impipo, m’inciucio
m’ammoglio e m’introietto:
come un cammello ricco in una cruna.
Disteso quasi immobile, assoluto,
nell’intervallo eterno del mio volo.
Stupefatto di non essere diverso, in fondo,
da quello che, io stesso, ero in precedenza.
Piovo e ripiovo dall’interno
rotolando come il fuoco in una fiamma
vorticante corpo di materia
ectoplasma fine di passione
ciglio d’alba-luna in dissolvenza
lembo di sottile firmamento
mare catafratto in sospensione…


Brano VIII – da “Respinto”

A fagiolo vennero gli uscieri, i caudatari
giannizzeri coi pattini a rotelle
bardati alabardieri e levantini
devoti ciambellani e bucanieri
gaglioffi turcomanni e mediatori,
a farmi guadagnare l’estrusione,
a riveder le stelle:
incontro mi son giunti, concertati,
in rimbalzanti cenni
(guizzo, lampo, sopracciglio)
– al volo avendomi “letto”
carpita l’altra luce dal mio sguardo
ottuso, opaco e in fondo stanco,
indegno di veder Gesia Messù
il suo pantocratore, la quintessenza dentro
l’alma ousìa, allotria nel suo cuore
a questo centro:
la congenita, innata estraneità
che mi relega in disparte, che mi esclude
da una funzionale integrazione
e mi vieta di esser parte dell’ambiente;
mi fa pesce fuor dell’acqua, già spanciato
di budella e spine e infarinato,
acconcio ben benino alla frittura:
così muto ed impacciato baccalà,
da non sapere mai
(e domandarsi inquieti)
quanto e come respirare
la realtà (nel suono delle forme
il sentimento, cuore delle cose
il fatto brutto) e dove infine
metterle, ‘ste mani,
che verrebbe da troncarsele di netto
se non ci sono tasche da infilare:
mi rende morto in cuore e nel midollo,
piombo le mie gambe da elefante
frolla la mia mano e sudaticcia
spessa la linguaccia agglutinata
bianca di farina e di poltiglia
e di cemento in pasta, sabbia in bocca…

Benevoli, in fondo m’han ringhiato:
così assurda e immotivata, la presenza,
che senz’altro trattarsi debba (è evidente)
d’un errore involontario e, dunque, veniale
proprio in quanto greve e marchionale,
scusabile diffalta e non flagizio
(che si perdona come il fallo di un bambino,
un dolce vizio).

Brano IX – da “Espulso”

“Ma non erano da ciò le proprie penne”…
E mi ritrovo indenne, gigante nano
sopra il comodino della stanza.
Suona chioccio nell’aria
un vuoto pompeggiare di parole
agghindate a festa e inefficaci:
è il solenne discorso di un Prof.,
esimio luminare: il Chiarissimo Super Repus
(questo, il singolare nome).
Pedestre affettazione!
Goffagine ambiziosa di coglione!
Ne ho interrotto il bell’eloquio,
col mio arrivo felpato e molleggiato.
Duole, il signorino?
Ma no, che tosto riprende:
sono solo il suo pretesto,
e non lo tange affatto il moscerino –
ci vuol ben altro per farlo insoddisfatto!


Brano X – da “Espulso”

Quand’ecco che prrr… orompe da se stessa
immantinente,
sua sponte meritevole e opportuna,
la tromba perniciosa del mio culo!
È un peto da competizione,
da record mondiale:
quasi cinque minuti!
Una bomba di potenza nucleare:
un ordigno disdicevole e letale!
E puzzolente, poi: concentrata,
broccolosa e putrescente! E sia.
Alla faccia del Prof.
e della sua saccente sicumera,
la sua immensa incalcolabile albagia
onde elargisce – ad ogni passo –
illuminanti saggi e attestazioni
cercate evoluzioni
palpando sulla lingua le emozioni
gustando alla papilla i rari suoni
beando di se stesso l’eminenza
vantando l’importanza
curando con dovizia d’attenzioni,
soffolto da un gestir sapiente e puro
e sempre inappuntabile e perfetto:
maestro d’eleganza e distinzioni
il fiore d’eccellenza
la punta di diamante
ai fasti letterari i sommi onori,
che manca quando è assente
che piscia dalle altezze sulla gente,
i poveri mortali: dico di lui, capite?
Il massimo esperto, in orbe al suo Paese,
dell’ardua disciplina che ‘l pregia fondatore
e ogni mese lo contempla innovatore:
“Caccolistica Applicata Superiore”
− delle scienze esatte la migliore!
Lui, dunque, l’augusto facitor di belle imprese:
il sommo dei dottori, il parlator cortese
il persuasore eletto, il divo autore
(che mai sia contraddetto!),
che mangia e gozzoviglia
s’impinza a crepapelle
non cale di famiglia
e paga mai le spese…
Lui, già, il re dei suoi somari
(scherani portaborse e baciapile)
che fiutano i suoi peti, gli assistenti
che sol pippando erba, e delibando verba,
la fibra più riposta al suo silenzio
– perché è gonfio di silenzio nella voce,
sì, ed è duro, nonostante lui lo creda,
che rimanga fermo ciò che dice –
tutti insieme puoi vederli a sgomitare,
ciascuno in trista gara, per gli sonar le pive
e reggere il suo sacco:
ciascuno sui colleghi a prevalere
per esser prediletto
e caro nell’interno alle sue grazie:
disonesti rei, consapevoli correi
d’aggravato furo e surrettizio
adusi a quel flagizio,
turlupinante smacco di guagnele
terrorismo ideologico e morale
stolto pregiudizio, vana presunzione
buio più profondo e immondo male:
sicché permane il vizio
eterno e imperituro
e resta il suo passato nel futuro
ché nulla lo corregge –
è diventato Legge naturale!

*Marco Onofrio è nato a Roma l’11 febbraio 1971. Laureato in Lettere
Moderne, Premio Internazionale “E. Montale”(1996), scrive poesia,
narrativa, saggistica e critica letteraria. Per la poesia ha
pubblicato i volumi “Squarci d’eliso”(2002), “Autologia” (2005),
“D’istruzioni” (2006), “Antebe. Romanzo d’amore in versi” (2007), “È
giorno” (2007),”Emporium. Poemetto di civile indignazione” (2008), “La
presenza di Giano” (2010), "Disfunzioni" (2011). Ha ottenuto premi e
riscontri critici a livello nazionale e internazionale. Web site:
www.marco-onofrio.it

7 commenti:

giorgio linguaglossa ha detto...

Marco Onofrio preferisce poltrire nel piano basso del linguaggio, adopra l'eloquio plebeo per sortirne pasticci inconsulti mescendolo sapientemente col vino dell'eloquio nobile della tradizione. In questo frangente la vis polemica a politica di Onofrio trova il modo di scodellare tutte le stoviglie stilistiche e scandagliare in tutti i repertori semantici e lessicali. Perché là dove c'è un serbatoio lessicale, sembra dirci Onofrio, c'è anche un combustibile ideologico (e semantico) che promana da quel serbatoio; giacché ogni semantica è legata a doppio filo col combustibile ideologico e iconologico. Anche qui c'è un punto fermo della poetica di Onofrio: una sorta di anarchismo senza anarchia o una anarchia senza anarchismo, una competizione di tutti contro tutti (poiché ogni competizione è sostanzialmetne ideologica e lessicale ad un tempo), giacché qui è la totalità ad essere indicata di abominio, è la ratio della ragione ad essere defenestrata quale ratio meramente proposizionale che milita per l'Ordine proposizionale (che altro non è che l'Ordine della Ragione). E così via in una competizione a 360 gradi contro tutte le posizioni acquisite e da acquisire. Lungi dal porsi come poesia civile, questa di Onofrio è la posizione di un incivile, di un impolitico avverso all'ordine della civiltà e del Buon Governo della seconda Repubblica finita in un buco nero senza fondo... e, forse, senza possibilità di sortirne fuori in qualche modo. È una poesia di Fine del tempo, di Fine della Storia, Fine dei conflitti, Fine della finta competizione parlamentare che si divide in Opposizione e Governo...

Anonimo ha detto...

Queste poesie fanno male. Sembrano fatte con gli incubi della gente maltrattata che, per questo, si trova a vivere nella pura; perché nell'inconscio prendono vita tutte le minacce, tutti i timori, i soprusi, le violenze, le mortificazioni, lo schifo, l'impotenza, la rabbia...
La poesia non dovrebbe tessere parole con il peggiore inconscio, non è terapeutico vomitare sulla gente, non aiuta, non è solidale, mette solo nei guai chi già vi si trova. Si dia una riguardata signor Onofrio, o se la faccia dare da uno psicanalista appena avrà incassato il prossimo premio letterario.
"Gli occhi pallati che bruciano
infiammati e sono rossi (mi fan male)"
Quel mi fan male, messo tra parentesi, lo scriva con più dovizia e verità.
mayoor

Anonimo ha detto...

Con il linguaggio - tramite il linguaggio - la poesia legittima la sua credibilità , a prescindere dalla visione che abbiamo di noi stessi e delle cose del mondo . Quando arriva a destinazione può suscitare crisi d'itterizia per i suoi contenuti ma consensi per il suo linguaggio e viceversa . Resta il fatto ( credo oggettivo ) che il linguaggio resta decisivo e dirimente -ripeto- sia quando ci troviamo di fronte al sibemolle di un D'Annunzio o ai soprassalti viscerali di una Assunta Finiguerra .
Se insorgono problemi di digestione , non ci si può fermare -credo- "all'aria che tira" in un testo , contestualizzandola in un personale orizzonte di attesa e in una propria fisiologica maniera di rapportarsi alla Storia e alla vita ; procedendo così a canonizzazioni o a crucifige . Credo si debba fare i conti fino in fondo con il linguaggio , gestendo possibilmente al meglio i problemi mesenterici mediati dall'ideologia , dall'estetica , dalla filosofia , dalla propria maniera di stare al mondo attraverso la scrittura in versi ; che fa quello che vuole e non è quasi mai quella che pensavamo un attimo fa .


leopoldo attolico -

Mayoor ha detto...

... cose notturne, che avrei cancellato potendo. Trovo giusto il richiamo arbitrale. Sono sicuro che per il buon linguaggio, per l'eloquio nobile, potrei stare con Onofrio, divertendomi, anche in un cacatoio.

Anonimo ha detto...

Gentile Mayoor, si propone Lei per psicoanalizzarmi? PRenoterei qualche doviziosa e veritiera seduta terapeutica, non appena incassato il PRossimo PRemio letterario e tirato lo sciacquone al cacatoio letterario. Grazie per i giudizi sommari e per la squisita educazione. Con nobile, compitissimo eloquio. Marco Onofrio

Anonimo ha detto...

Eppure s'avverte nello stile il richiamo slammer, di una poesia nata per l'oralità. Poesia che si è evoluta in questi anni puntando sempre più sulle qualità performative degli autori. Testi lunghi, recitati doverosamente a memoria, impongono un recitativo cadenzato che non consente interruzioni. Tutto questo mi è famigliare. Spiace per la frittata, ma ormai è cosa fatta.
mayoor

Anonimo ha detto...

Non sono "poesie", nel senso di liriche. Sono brani tratti da poemetti concepiti e composti - come giustamente nota Mayoor nell'ultimo post - per la dimensione orale e performativa. "Disfunzioni" (Edizioni della sera, 2011) è un percorso esoterico che si snoda attraverso le "stazioni" di 7 poemetti, tentando le possibilità eversive di una liberazione creativa dell'uomo. E' evidente che, per provare a raggiungere la luce, occorre immergersi nella tenebra che la presuppone! Antonio Rossoni