giovedì 10 gennaio 2013

Luca Benassi,
Poesie.



(da L’onore della polvere, Puntoacapo editrice, 2009)

Bisogna aspettarli al varco i salmoni
al collo di bottiglia della foce
spauriti, mentre accalcano l’acqua
bisogna tendere la rete dove
la superficie si increspa di pinne
le branchie annaspano quel desiderio
che riproduce il transito di nuove
generazioni. Allora è il momento
di calare la rete, di tendere
alla gola il laccio, l’arpione aguzzo.
All’uscita della metro noi siamo
salmoni ignari verso la mattanza.


(da il guado della neve, edizioni CFR, 2012)



Vietato abbandonarla
Mio figlio

Straniero nella terra dell’abbandono
in queste mura bianche
della casa dei nonni
straniero su di un letto d’alghe
sotto la torre presa dalla luna
nel letto, davanti alla piazza.

Salivamo la sera, salivamo alla memoria
di notte, dopo la birra, i sorrisi,
il bar, il racconto del naufragio, dopo l’amore
con il sapore delle madrepore
sulle labbra di torrone, nei seni di pecora
con i capelli di poseidonie lucide di sale.

Ho portato mia moglie al fiume
alla codula di luna, al Margine
l’ho portata al Supramonte
oltre la miniera del rame
lei che non sa di questo sangue
della gioia consumata nel
vento di grecale.

L’ho guardata negli occhi
nei seni e il grembo che portò mio figlio
le ho guardato le mani di lentischio
la radice ritorta, aggrappata alla pietra
del noi, al tempio del ventre
nero di sole, molle di vita.

Conosco quel suo passo lento
piegato di lato, come a scoprire
la verità dei ciottoli, a tenere
un tempo, un’essenza di pianto

Si è avvicinata al fiume
all’acqua verde che non conosce la storia
quando entro nudo in quello specchio
che mi rimanda un tempo senza
lei, di lama e corallo,
di mestruo senza dolore
di piacere rosso.

So cosa pensa quando posa la pupilla
sui solchi della mia schiena
sulle colline delle vertebre, oltre
l’architrave del petto,
quando il fiore delle dita
si schiude sull’azzurro delle vene.

So cosa pensa, la sera, quando mi regala
un abisso di tristezza
nella lentezza viola delle palpebre.

Lei è straniera fra queste rocce
bianche, mentre sbava
al muggire delle maschere, al suono dei passi
ritmati nel bronzo, incisi nel legno

Lei è straniera fra le mura
quando torniamo a casa
e attraversiamo il mare del noi

È straniera quando le conto le stelle della pelle
le costellazioni sulle scapole di madre.

Ti ho portato qui, straniera
nella terra dell’abbandono
al fiume, alla codula di luna
e tu sei femmina
sei acqua di vena, sei
fiore selvaggio, vento di maestrale.

Ti metto una mano sul ventre
come a cercare una porta
una spirale al centro del fuoco
un utero rosso di porfido

Tu sei lì, regina del bianco
signora del mare.

ci guarda nostro figlio
vietato abbandonarla, sussurra.





(inedito)


Velestovo, Macedonia, 2011

Questo è il confine
il luogo delle mie terre
dure, limpide come l’acqua del lago
“ guarda laggiù, era Italia, oltre quella collina, oltre quel ruscello
oltre l’acqua che lava il dolore” mi ha detto il ragazzo
che ha incisi negli occhi la storia ed il dolore
un’ordalia di tartarughe, di confini strappati ai confini

Questa è la terra delle acque
che gorgogliano nella notte
della poesia, acqua come un flauto
come tamburo, come otre
come belato di pecora, come il cane che abbaia
all’approssimarsi dell’alba
come una tazza di caffè bevuta
al confine del lago

Questa è la tua terra
quella che non c’è, curva dopo curva
piena di notte e di memoria
questa è la terra che non ho
lettera dopo lettera
che odora di funghi
e cannella.







(inedito)

Quando la mattina saliamo in macchina,
in fretta, per andare a scuola
mio figlio prende un disco di cartone
un sole segnato da lampi azzurri
di pennarello, come scaglie di alba
fra le sbarre del cancello.
Seduto silenzioso, quasi fosse già al banco
tiene tra le mani quel volante ritagliato
e mi osserva mettere la prima, partire
imita la sterzata fuori dal garage
con la lingua riproduce
l’intermittenza secca della freccia
mi guarda mentre spio nervoso l’automobile
che mi pressa a destra, prossima al semaforo.

Mio figlio fa come me, stringe con le manine
la sua carta, sa che tra poco
gli ordinerò di scendere, svelto, senza
dargli il tempo di mettere
le quattro frecce su quel volante immaginario.

È lì in silenzio, stupito mentre
impreco a chi mi ruba il diritto
al primo posto nel parcheggio
della scuola.




* Luca Benassi è nato a Roma nel 1976 dove vive e lavora. Ha pubblicato quattro raccolte poetiche. Ha tradotto “De Weg” del poeta fiammingo Germain Droogenbroodt (“Il Cammino”, 2002). È nella redazione di “Punto Almanacco della poesia italiana”. Ha pubblicato la raccolta di saggi critici “Rivi strozzati poeti italiani negli anni duemila” (2010). Insieme a Manuel Cohen e Salvatore Ritrovato dirige la collana Percorsi della Puntoacapo editrice.

38 commenti:

Anonimo ha detto...

Luca Benassi, che è un caro amico, sa le parole di questo tempo che ci trova spaesati anche dentro il cuore degli affetti. Questi suoi testi sono dolci e strazianti, i versi sono corpi dentro la corrente, ogni parola la bracciata che serve per cercare di salvarsi.
Un carissimo saluto. Fabio Franzin

Mayoor ha detto...

Chi tace non acconsente. Penso talvolta che questa sia la regola adottata da chi suole commentare su questo come su altri blog, ma potrei sbagliarmi. Diversamente dai critici (e non tutti), i poeti quando leggono si fanno per l'appunto semplici lettori. E' il bello del blog-antologia che si fa e si disfà quotidianamente. Non me ne voglia quindi Benassi se dico che queste sue poesie non mi sono piaciute. E' il parere di un lettore, quindi conta poco. Mi sono sembrate poesie dei buoni sentimenti, in qualche modo accostabili ai testi della country music americana: musica così così, testi stilisticamente poco considerevoli, sui quali però umanamente non si avrebbe da ridire. Il linguaggio ha qualche fiacca scorciatoia, ma secondo me non basta stare nell'affettività per poter dire con sicurezza che siamo oltre la prosa di un diarismo sentimentale. Cordiali saluti.

giorgio linguaglossa ha detto...

Luca Benassi è un amico, un giovane di sicuro valore, ha talento, è un valido critico, un'ottima cultura poetica e non, è una persona a modo... insomma, ha tutte le carte in regola per poter riuscire a solelvarsi dalla massa indistinta dei poetanti che sgomitano e sgomitano. Detto questo, non posso che convenire con quanto rimarcato da Mayoor sul "diarismo sentimentale" di questa poesia, sulla "poesia dei buoni sentimenti" (sempre Mayoor), sul privato (che meglio sarebbe restasse privato)... insomma, ci sono cose buone, anzi, molto buone come l'inizio della prima poesia poi sciupato dal ritorno dell'io e dal finale con l'analogia nel diminuendo del «privato». È che con tutto questo eccesso di «privato» dei media di oggi i giovani hanno perduto il bandolo della matassa di ciò che è privato e deve rimanere nel privato e di ciò che è pubblico e che può essere affidato alla pagina scritta. Benassi non fa eccezione, mescola le carte, non ha chiaro il distinguo. Io mi sentirei di consigliare Benassi di essere meno «buonista» e più cattivo, asettico riflessivo, parziale e tendenzioso e meno generalista. Meno discorso autoriflessivo più metafore, più allegorie. Potrebbe fare il salto di qualità, ha le carte in regola per farlo, ma forse gli manca un pizzico di convinzione, di autorevolezza, di volontà...

Anonimo ha detto...

E' vero ciò che dice Linguaglossa, l'eccesso di privato , per il quale spesso (riguardo i miei scritti) ho avuto critiche negative, si sente molto,ma la poesia di Benassi è di valore e si prende tutta la mia emozione. Grazie. Emy, una che cerca di fare poesia.

Anonimo ha detto...

Le ultime due strofe dell'inedito per me straordinarie, mi sembrano degne di attenzione. Quel silenzio è quanto mai eloquente e descrive ciò che qualche volta è difficile da spiegare. Mi ricorda alcuni momenti di quel mondo, quel modo di scrivere di Raymond Carver che ingiustamente viene definito minimalista. enzo giarmoleo

Anonimo ha detto...

Diciamo che in questi ultimi anni siamo diventati tutti un po' più cinici disincantati scettici e incattiviti . Le negatività che ci somministrano questi nostri tempi beceri tenderebbero a giustificarci ampiamente ; con conseguenti ricadute sugli umori non esattamente idilliaci che ci occupano le meningi quando ci accostiamo alla poesia leggendola o scrivendola .
Sono cambiati gli approcci e le aspettative .
Incontrando il "buonismo" di Benassi - che non esorbita , che non mi sembra affatto sovraesposto - può insorgere addirittura una sensazione di fastidio mediata dalla frizione tra l'innocenza adulta e consapevole di certi contenuti e gli umori di cui sopra . Mi sembra più oggettivo accogliere la calibrata temperie di Benassi come una risorsa che non risarcisce di nulla e non salva nessuno , ma ha una sua ragione di esistere come atto di opposizione alla miseria dei tempi ; opposizione nonostante tutto se dio vuole .

leopoldo attolico -

Anonimo ha detto...

Mi trovo molto in sintonia con le parole di Leopoldo Attolico.
Nelle poesie che ho letto di Luca Benassi e che mi sono piaciute ,trovo un'attenzione e una particolare profondità nell'osservare la realtà,il suo mondo e di restituirlo in poesia con modalità originali e sincere.
Fra i testi presentati preferisco il secondo musicale e allusivo ,misterioso e..con una inaspettata chiusa.
Maria Maddalena Monti

Moltinpoesia ha detto...

Ennio Abate a Leopoldo Attolico:

Non confonderei il cinismo, il disincanto, la cattiveria con la critica. Questa ha (quando è critica; e cioè non umoralità, travestimento di pulsioni sadiche non elaborate a sufficienza) un valore pubblico e costruttivo che manca alle parole del cinico, del disincantato, dell'incattivito.
Il "buonismo" di Benassi o il "crepuscolarismo" di Franzin - mi permetto ancora l'etichettatura approssimativa e la riduzione a questi due casi che abbiamo avuto sotto osservazione in questi giorni, ma si potrebbe estendere l’esame a tanti altri casi (compresa la poesia cosiddetta “civile” o “politica”) - sono davvero "atto di opposizione alla miseria dei tempi"?
Pongo la questione in termini apertissimi, indipendentemente dalle mie propensioni personali o private (che sotto certi aspetti potrebbero essere anch'esse "buoniste" o "crepuscolari").
Per dichiarare un certa poesia o la poesia in generale "atto di opposizione alla miseria dei tempi" bisogna accertarlo, portare prove. Anche solo per convincere se stessi della validità di ciò che si pensa. (Perché, si sa, che mai una verità ha una evidenza incontrovertibile per tutti...).
Dico queste cose perché temo che le nostre “verifiche dei poteri” applicate alle nostre poesie o alla poesia non siano severe e rigorose come dovrebbero esserlo. Chiudiamo spesso un occhio o tutti e due. Vorrei essere convinto che questi atti (anche miei) di opposizione alla miseria dei tempi ci siano davvero. Ma non lo sono (convinto) affatto. Anche perché una poesia che davvero si opponga alla miseria dei tempi non nasce “in privato” (anche se può nascere in solitudine). Anche perché, se già ci fosse, un’opposizione analoga si dovrebbe vedere anche in altri campi (sociali, politici, culturali). Voi vedete qualcosa del genere in giro, in Italia? Io no. Perciò insisto a chiedere più critica (intelligente, argomentata, coraggiosa). Esagero, ma la critica è il machete che serve a districarsi dal groviglio di liane che ci impediscono di aprirci il varco per uscire dalla boscaglia e andare a vedere cosa c’è lì fuori...( e non è detto che ci sia il sol dell’avvenire…!).

Mayoor ha detto...

Se guardassimo all'umanità poetante come ad una specie da proteggere, allora la critica, anche quella degna di ogni lettore, dovrebbe svolgere tutt'al più una funzione di restauro, benefica e complimentosa? Perché tanta insicurezza?

Roberto Bertoldo ha detto...

Invece Benassi non è un mio amico (mi riferisco alla correttissima premessa di Franzin), anche se nel tempo due o tre contatti epistolari ci sono stati. Intervengo solo per due motivi: 1. Perché non me l’ha chiesto (e non sopporto quelli che appena pubblicano una poesia scrivono a tutti chiedendo di intervenire con un commento). 2. Perché una volta tanto non sono d’accordo con Mayoor. Bene, ora mi spiego, senza tuttavia fare il critico (non è necessario). Non si può dire al poeta come deve scrivere e quali contenuti valgano, tendenza di Linguaglossa e di Ennio, tendenza che capisco se si fa storia della poesia a posteriori, non se si fa critica testuale. La prima poesia la trovo perfetta, per ritmo e per trama allegorica. E poi, dov’è il ritorno all’io nella prima poesia, come dice Linguaglossa? La forma è impersonale e poi diviene ‘noi’. La seconda poesia ha tenuta nonostante la lunghezza. Non vado nei particolari, ma è evidente la maestria del poeta, ‘maestria’ che sarebbe solo bravura se non fosse per la pregnanza, pur intima, dei versi. Qualche remora ce l’ho riguardo la terza e la quarta poesia, ma sono poesie inedite. La terza poesia (seconda e terza strofa) mi rimanda ad un D’Annunzio (comparazione seriale, anafora) rivisitato da Ungaretti. Sono sensazioni, non giudizi. La quarta mi rimanda, come tonalità, a Umberto Fiori, ma senza quelle sfumature simboliche che riscattano Fiori dal minimalismo. Però sono testi inediti, l’autoselezione finale di solito è severa con i testi. Credo che un poeta debba essere valutato solo per i testi editi, anche quando può sbagliare a mettere in pubblico degli inediti, in quanto il poeta per essere critico di se stesso deve allontanarsi dalle emozioni che l’hanno guidato nella composizione. Ripeto, però: è ovvio che c’è spazio per il giudizio di gusto, ma al di là di esso non è possibile dire che i primi due testi, quelli editi, sono “stilisticamente poco considerevoli”. Per il resto, mi convince l’osservazione di Attolico e trovo che la critica oggi, come la politica, stia diventando sempre più infidamente autoritaria.

Mayoor ha detto...

E' vero, c'è differenza tra le prime e i due inediti. Tra loro si forma la curva di un racconto, magari non voluta, che fa tirare le somme.

Moltinpoesia ha detto...

Ennio Abate a Roberto Bertoldo:

Caro Roberto,
benvenuto nella discussione, però un’obiezione.
Scrivi:« Non si può dire al poeta come deve scrivere e quali contenuti valgano, tendenza di Linguaglossa e di Ennio, tendenza che capisco se si fa storia della poesia a posteriori, non se si fa critica testuale».
Ma davvero io e Giorgio su questo blog o altrove stiamo facendo questo? È poi possibile farlo oggi in questa condizione che io chiamo dei “moltinpoesia” (altri in altri modi)? Non ti pare che siamo *costretti* ad un pluralismo, che avrà pure i suoi vantaggi (rispetto al passato coi canoni e i maestri), ma ha anche molti svantaggi (quelli di sempre: salamelecchi, silenzi diplomatici, cortigianerie di vario tipo + una grande confusione di idee, di pratiche, di derive non so quanto piacevoli…)? O tu vedi solo i vantaggi di questa situazione, che a me pare ambigua, contraddittoria e anche confusionale? E perché svalutare ( almeno questo colgo) la «storia della poesia»? Non c’è la necessità di fare di tanto in tanto dei bilanci, delle “verifiche dei poteri”? Dici che «la critica oggi, come la politica, [sta] diventando sempre più infidamente autoritaria». Ma a chi ti riferisci?

Non voglio fare il furbo. Non credo di nascondere un’anima autoritaria. Non voglio neppure presentarmi *semplicemente* come uno che “pone soltanto problemi” (cosa apparentemente più innocua o più simpatica di chi oltre a porli i problemi tenta anche di dare qualche risposta). Ammetto dunque (Giorgio dirà meglio per sé) che porre dei problemi agli altri poeti, dire come la penso su Tizio o Caio, non fermarmi alla critica testuale e tentare di confrontare testo e contesto (soprattutto storico, politico per me), insistere su certi temi o contenuti, richiedere una critica non compiacente o semplicemente plaudente o (adesso) anche “cinguettante”, sia più che un auspicio, una esigenza , una *tendenza*, come tu dici.
Converrai che non c’è nulla di male. Anche perché quello che faremmo io e Giorgio, lo fai tu pure e lo fanno tutti gli altri. Tutti abbiamo delle *tendenze” (o degli *immaginari di partenza*).
In modi o grintosi o decisi o placidi o orientali o timidi o simpatici o antipatici tutti siano alla ricerca di un “qualcosa” che è anche un “di più”, un “valore”. E segnaliamo agli altri quello che per noi vale. Siamo anche in conflitto sotterraneo, credo. E sarebbe bene chiarire i termini del conflitto o le differenze, invece di scandalizzarsi o chetare le acque appena qualcuno vi getta un sasso.
Perciò discutiamone, se possibile…


Roberto Bertoldo ha detto...

Caro Ennio,
esiste il testo (poesia), esiste il macrotesto (libro o silloge) ed esiste il contesto. Se si riportano testi di macrotesti differenti, muta ancor di più il contesto. A questo punto non è corretto, a mio avviso, fare valutazioni extratestuali. Io ho cercato, anche se non è facile e non ci sono riuscito del tutto, di attenermi, pur qui superficialmente, al testo di Benassi. Già attenendosi al testo non è possibile avere una comprensione totale di ciò che esso esprime, figuriamoci di ciò che vuole esprimere. Se si propone al poeta una via o delle correzioni si presume di sapere come indirizzarlo dove si presume volesse andare. Troppa presupposizione. Ciò significa autoritarietà. La vostra è in buona fede, ma nel momento in cui si acquisisce autorevolezza, ovvero quando la critica diviene ufficiale, aderisce all’ufficialità ideologica e assume, nel nostro attuale contesto, tutte le caratteristiche della mentalità odierna.
La storia della poesia la condivido, i bilanci sono utili, forse necessari, ma sempre più mi vado convincendo che non sia possibile riguardo il contemporaneo, e non solo per gli svantaggi che tu delinei molto bene, ma proprio perché la critica militante assume ipotesi teoriche come verità e tematiche come necessità. Io apprezzo Linguaglossa per il suo sforzo di ricapitolare gli ultimi 30, 40, 50 anni di poesia; non riesco più a seguirlo nella strada didattica che ha assunto, non perché non sia una prospettiva intelligente, ma perché non serve al poeta l’intelligenza del critico e i poeti che si adeguano ai dettati teorici non sono poeti, ma rientrano appunto nel novero dei cortigiani. Allora cosa volete ottenere con la didattica? Dei cortigiani?
Guarda che io non mi sottraggo a queste colpe, le ho commesse anch’io in passato. Ma adesso, proprio grazie ad internet che ci ha permesso una visione più ampia di come opera il giudizio critico, ho notato non solo il proliferare di salamelecchi, ecc., ma soprattutto un fatto ben più pericoloso anche per chi si sottrae alla mondanità e frivolezza letteraria: i giudizi di valore fondati sull’ignoranza dell’opera dell’autore.
Fa parte dell’essere umano semplificarsi la vita, redimere la complessità. L’esito di questa nostra tendenza rappresenta dunque l’utile, come quello dei bilanci, il “forse necessario” per la chiarezza, ma presenta anche il pericolo di giudizi sussiegosi. Sono sempre stato dell’idea che la pagliuzza che vediamo negli occhi degli altri non solo non debba impedirci di vedere la trave nei nostri, ma che debba anche spingerci a togliere da essi la stessa pagliuzza. E la nostra pagliuzza oggi, nel migliore dei casi, rischia di essere l’assunzione del giudizio critico in assenza di una severa critica del giudizio.

Un caro saluto,
Roberto Bertoldo

Moltinpoesia ha detto...

Ennio Abate a Roberto Bertoldo:

Credo di dover insistere nelle mie «valutazioni extratestuali», saltando quasi a più pari, per ora, il testo di Benassi. A me interessa il problema del “che fare” come poeti e come critici oggi, in uesta situazione “confusionale”.
Ho fatto tempo fa una proposta di ricerca (più o meno quella delineata in «Per una poesia esodante» leggibile in E-book su Poesia 2.0 e qui nel blog a puntate) caduta nel vuoto.
Scrivendola avevo cercato di tener conto quasi ossessivamente dei rischi estremi di spontaneità ( o “naturalità”) e di autorialità (o «autoritarietà» come tu dici o , diciamolo alla vecchia maniera: di autoritarismo), che mi pare serpeggino (soprattutto i secondi) in questi tuoi interventi.
Preciso che non mi ritrovo nei panni del maestro o del didatta. Mi sento nella condizione dell’«esodante», che quella funzione, sotto certi aspetti indispensabile, se l’assume senza avallo o mandato preventivo e chiaro di autorità o istituzioni riconosciute e, dunque, nella confusione, nell’emergenza. Per quanto autorevolezza in tale situazione si possa raggiungere, si sa in partenza che il proprio poetare e criticare non diventerà mai «ufficiale», non avrà il riconoscimento dei “poteri vigenti”. È una scommessa. Quella dell’«esodante», se vuoi, è un’autorevolezza conquistata e da conquistare ogni volta e sempre sul campo. Somiglia perciò solo in superficie all’autorevolezza di chi parla da una cattedra universitaria, da una rubrica di giornale, da una trasmissione televisiva, ecc. E confonderla con quella è pericoloso, quasi un oltraggio. In termini ancora più chiari, nel discutere di un testo o di un problema di poetica, i rapporti di forza, che ci sono sempre - anche fra me e te o fra me e Linguaglossa o altri- sono più paritari e più facilmente contestabili. A scapito anche della possibile cooperazione o del chiarimento dei reali termini di una contesa. Perché il mio/nostro potere d’influire, persuadere, consigliare, bacchettare è più o meno allo stesso livello. Non mi pare, perciò, che la mia critica (esodante più che militante…), come tu dici, possa assumere «ipotesi teoriche come verità e tematiche come necessità».
E tuttavia, in questa condizione «esodante» (precaria, povera, più libera, ma anche con più rischi …), - e forse su questo che divergiamo - secondo me bisogna pur tentare bilanci storici sulla poesia, teorizzare (cioè delineare criteri d’orientamento), dare giudizi di valore sui testi che si producono.

[continua]

Moltinpoesia ha detto...

Ennio Abate (continua):

La cosa può apparire contraddittoria: quasi uno pretendesse di fondare una sorta di “università esodante” o di “università dei moltinpoesia” (una volta si tentavano le “università popolari”) e svolgere in condizioni - ripeto - proibitive e traballanti quelle funzioni “magistrali”, svolte con agio e supporti d’ogni tipo dalle vere e proprie organizzazioni accademiche o aziendali della cultura. Ma a me pare fondamentale non rinunciare a quella funzione. E proprio per tenere a bada i rischi da te indicati: non solo la moltiplicazione dei salamelecchi, ma le letture frettolose e « i giudizi di valore fondati sull’ignoranza dell’opera dell’autore» (oltre che -aggiungerei - l’indifferenza rispetto a quello che succede attorno a noi…).
Se, perciò, accettassimo il tuo criterio che «non serve al poeta l’intelligenza del critico», tutto questo lavoro sarebbe vano, superfluo o persino dannoso. I poeti che si ponessero problemi di teoria letteraria, di storia della poesia, di valutazione critica dei testi (propri e altrui) più rigorosa, perderebbero del tempo prezioso; e si sentirebbero o verrebbero visti come dei gregari «che si adeguano ai dettati teorici».
Anzi tu sei più drastico, perché dici, che ciò facendo, «non sono poeti». E parlando di tue «colpe» commesse in passato, mi pare di capire che sei oggi per un divorzio tra ricerca poetica e critica, mentre io punterei ad un’alleanza (esodante!) tra una buona ricerca poetica e una buona critica.
Chi di noi due si semplifica la vita e si redime dalla complessità?

[Fine]

Mayoor ha detto...

Cederei volentieri al desiderio di considerare il blog alla stregua di un bar letterario, magari messo di fianco ad un altro sportivo, tale da favorire un clima di provincialismo dove i giudizi sarebbero all'ordine del giorno; ma invertendo l'ipocrisia del giudizio acritico dei complimentosi con un'altra, altrettanto acritica, dove si commenta per il gusto di farlo. Che cambierebbe? Sappiamo tutti che poi il gioco si svolge in solitudine, esattamente come accadrebbe al bar di fianco dove si sa di non stare sul prato di un campo di calcio. Il contesto non giustifica le scelte svilenti, d'accordo, ma trovo eccessivo sostenere che così facendo si aderirebbe alla negatività insita nella mentalità odierna, perché quest'ultima non la si conosce. Anzi, è proprio su questa mentalità e sul linguaggio che ne scaturisce che si sta discutendo, qui sì con feroce assiduità. E' per via di questa ricerca nel contemporaneo che ci si appassiona. Sia che si tratti di editi o di inediti, il punto sta nel fatto che sono scritti oggi, e l'oggi è un punto interrogativo per tutti.
Il giudizio di valore mi sembra quindi che non abbia, in questo contesto, i connotati tradizionali della valutazione estetica, ma sia subordinato alla ricerca interpretativa del sottofondo. Questo, a mio modo di vedere, sarebbe il vizio che lo accompagna.

Anonimo ha detto...


AL BLOG

Leggere il Blog è una possibilità libera a tutti, Con la piccola differenza che nessuno si permette di giudicare le critiche dei giudici di valore, ci mancherebbe altro! Vogliamo portare il Blog sulla strada esclusiva della critica di valore ? Ok allora ditelo chiaramente! Io posso dire solo ciò che penso e che prova leggendo poesia... gli scritti che non mi piacciono e che spesso non conosco il perchè preferisco non commentarli (forse anche per mancanza di coraggio) e spero di essere libera di poterlo fare, non sono un critico, ma leggo sempre con grande interesse tutto ciò che appare sul Blog. "La negatività insita nella mentalità moderna" è davvero da prendere in considerazione, non certo non ascoltando i pareri di tutti.Abbiamo comunque ottimi maestri , spero possano insegnare qualcosa a tutti ma prorpio a tutti, in fondo i critici esistono anche per questo. Ora qualcuno mi dirà che voglio salvare capra e cavoli ma non è così, il mio cinguettio non è di primavera. Emy

Moltinpoesia ha detto...

Ennio Abate:

"Vogliamo portare il Blog sulla strada esclusiva della critica di valore ? Ok allora ditelo chiaramente! Io posso dire solo ciò che penso e che prova leggendo poesia..." (Emy)

La faccenda è che la critica di valore c'è sempre stata e continua ad esserci in qualsisi post o commento. La faccio io, Bertoldo, Linguaglossa, Mayoor, Cornacchia ed altri commentatori; e la fai pure tu quando dici *solo* ciò che pensi o che provi leggendo poesia.
Saranno differenti i gradi di elaborazione, la brevità o la lunghezza dell'esposizione, ecc. Ma critica di valore è. Cioè esposizione, insieme ai dati "oggettivi", delle proprie preferenze, convinzioni profonde, antipatie o simpatie. E sta sia nel tuo
cinguettare che nel mio brontolare.

giorgio linguaglossa ha detto...

«La pagliuzza nel tuo occhio è la migliore lente di ingrandimento» (Adorno) e «L'arte è magia liberata dalla menzogna di essere verità» (Adorno).
Per parte mia, molto modestamente, dico: l'arte è magia liberata dalla menzogna di essere Valore, e la critica deve essere liberata dalla menzogna di essere giudizio di Valore. E poi, che cos'è il «valore»? In termini economicistici è il rapporto che si ha tra il prezzo di una merce e il suo valore di scambio. Il Valore è qui il differenziale tra altri due prodotti. Ma le cose non stanno così in termini meramente estetici, qui il «valore» è un concetto che non può essere riferito a quello di «prezzo» (legato al capitale fisso e al salario) e nemmeno a quello di valore d'uso o di scambio, qui la differenza che passa tra valore e dis-valore è meramente estetica (direi, se mi si passa il termine: spirituale, ovvero ha a che fare col Simbolo, è di carattere simbolico). È quindi solo in ambito estetico che il concetto di «valore estetico» può essere trattato. Ciò che vale per il valore estetico non vale per il valore etico o politico. Questo a me sembra chiaro. Quando io affermo che un'opera d'arte tende verso il generalismo, cioè vuole essere degustata da tutti, piacere a tutti, qui muovo ad un tempo una critica interna ed esterna all'estetico di un'opera. La critica è sempre interna-esterna all'estetico. La critica è sempre parziale perché muove da un punto di vista contro altri punti di vista; ma è una parzialità positiva perché senza di essa non si può arrivare alla oggettività (che non è altro che il prodotto di molteplici punti di vista). E poi, quand'anche si abbia un Giudizio Storico, esso non è mai fermo e fisso nel tempo ma muta con il mutare delle condizioni storiche e della capacità ricettiva del tempo. Il nodo è dialettico. Il giudizio di valore quindi è un giudizio dialettico che comprende anche e soprattutto la propria soppressione, disparizione.
Se io dico che una donna (o un quadro è bello) esprimo un giudizio di valore che è valido solo per me. E non per altri. Tutti noi esprimiamo in un solo giorno, andando a passeggio per la città, una miriade di giudizi di valore inconsapevolmente. ma sono giudizi di valore legati ad atti della vita quotidiana. Ma quando ci si sposta nella sfera estetica ecco che il giudizio di valore diventa una cosa molto più complicata e dialettica (e consapevole perché va argomentata), ma nella vita quotidiana non abbiamo bisogno di argomentare alcunché, lo esprimiamo e basta (altrimenti la vita quotidiana sarebbe un inferno!).
Negare la possibilità (legittimità) di un giudizio sull'arte contemporanea significa negare implicitamente che sia possibile dare un giudizio dell'arte del passato (recente e remoto), e poi si porrebbe un problema: dove fissare il punto temporale che distingue l'arte contemporanea da quella del passato recente? etc. etc.

Anonimo ha detto...

Anche il critico è un artista e la sua arte risiede nella sua mente libera da condizionamenti, così come per ogni artista. Difficile raggiungere una grande critica se si hanno sempre i soliti modelli o peggio, le solite idee che non stravolgono un pensare solidificato e persino difficile da scalfire. I veri artisti stanno in ombra, presi solo dalla loro espressività, fino a quando qualcuno s'incamminerà per cercarli anche lontano molto lontano da se stesso. emy

Anonimo ha detto...

In replica ad Ennio del 12 u.s. ore 11,00 -

Continuo a pensare che se l'arte non prende posizione quando l'ingiustizia e la negatività, i malesseri e i veleni , ad ogni livello , si manifestano , significa che ai poeti le cose stanno bene così come sono e , di conseguenza , sono "conniventi" con i vulnus di cui sopra . Significa che la loro sensibilità è la semplice manifestazione di un sistema , non l'energia che vuole rinnovarlo . Significa che sono espressione di una cultura stratificata e ingessata , non una novità culturale ; chiusi dentro il loro tempo e fuori dalla Storia . Esattamente il contrario di quanto esperiscono la temperie antagonista di Franzin e - più sfumato ma evidente - il "buonismo" di Benassi .
Poi intervengono - legittimamente e doverosamente - tutte le riserve di cui parla Ennio , tutte il relativismo , tutto il sacrosanto gioco di rimandi teorici filosofici ermeneutici , tutti i distinguo che possono e devono mettere in discussione qualsiasi "verità"o specifico espressivo . Ma la poesia se funziona "arriva" e basta , le riserve mentali vengono dopo .
Questa entusiasmante contemporaneità ( italiana inispecie ) credo si meriti dalla poesia i riscontri degli autori di cui sopra , a cui mi sembra giusto rivolgere il nostro apprezzamento emancipato da sviolinate amicali , come giustamente ci ricorda Roberto Bertoldo .

leopoldo attolico -

Mayoor ha detto...

a Attolico:

Santa pazienza! rilegga le poesie di Benassi e mi dica se ci trova qualcosa di quanto ha qui affermato : "Continuo a pensare che se l'arte non prende posizione quando l'ingiustizia e la negatività, i malesseri e i veleni , ad ogni livello , si manifestano , significa che ai poeti le cose stanno bene così come sono". Sfumatamente magari sì, sfumatamente eh? E poi semplificare le accuse ai poeti "irritati" (e a tutti quanti) dicendo "Ma la poesia se funziona "arriva" e basta". E se si irritano è perché sarebbero conniventi? ma come si fa a non irritarsi per queste uscite, su!

Moltinpoesia ha detto...


Ennio Abate a Leopoldo Attolico:

Caro Leopoldo, tu parli di «temperie antagonista di Franzin» e un «atto di opposizione alla miseria dei tempi» lo trovi anche nel cosiddetto “buonismo” di Benassi. Io, nel mio precedente commento a te indirizzato, mettendo nel mazzo tutta la poesia che oggi si fa per non personalizzare antipaticamente il discorso su questi due autori che rispetto, avevo chiesto di documentarlo («Per dichiarare un certa poesia o la poesia in generale "atto di opposizione alla miseria dei tempi" bisogna accertarlo, portare prove». E credo di averlo chiesto presentando i miei dubbi («Dico queste cose perché temo che le nostre “verifiche dei poteri” applicate alle nostre poesie o alla poesia non siano severe e rigorose come dovrebbero esserlo. Chiudiamo spesso un occhio o tutti e due. Vorrei essere convinto che questi atti (anche miei) di opposizione alla miseria dei tempi ci siano davvero»).
È antipatico insistere, ma lo devo fare. Altrimenti o usiamo le parole ‘antagonismo’ o ‘opposizione’ intendendo cose diverse o qualsiasi poesia è *di per sé* antagonista e oppositiva.
Se il “crepuscolarismo” di Franzin o il “buonismo” di Benassi ( ripeto: etichette discutibili e correggibili ma che uso per approssimazione) sono esempi di antagonismo e/o di opposizione
cos’era, tanto per fare un esempio di poeta antagonista e d’opposizione, Pasolini?
Come vedi i conti non tornano.

Anonimo ha detto...

In risposta a Mayoor ed Ennio :

Non possedendo gli strumenti del critico di ruolo ( sic ! ), posso solo esprimermi con note di lettura che non possono certo pervenire al rigore analitico , alla severità , all'accertamento , al "portare le prove" di tutto e del contrario di tutto che giustamente auspica Ennio : l'esercizio del dubbio teorizzato - con merito - da Gianfranco Contini ai suoi tempi .Trovo congeniale , stante i miei limiti , soffermarmi su quei testi che trovano immediata gratificazione estetica e intellettuale , senza mediazioni di un corollario critico o di note a piè di pagina ; testi capaci di esperire linguisticamente equilibrio tra Spirito e Ragione , o quantomeno di avvicinarvisi ; e valorizzando il sentimento per quello che merita , senza scadere nel sentimentalismo .
In Franzin e Benassi vedo ( ho creduto in buonafede di vedere ) della positività , l'apertura intellettuale per referenti che meritavano di essere valorizzati ; quindi concretezza che " arriva ", che funziona anche presso il fruitore non addetto ai lavori .
Quanto al mio dire che " c'è molto cinismo in giro , desertificazione del gusto , della percezione , scetticismo , disincanto , mi riferivo ad una situazione generale storica / antropologica nell'ambiente letterario italiano , a un dato di fatto di appiattimento su un malinteso senso del pudore che penalizza il sentimento di cui sopra , che non è espressione delle Dame di San Vincenzo , ma spesso coraggio di vivere e di scrivere ( v. Franzin ) .
Unica "perla" incontrata a suo tempo su questo Blog fu quella che riguardava Giorgia Stecher , liquidata come borghesuccia che si trastulla con le foto di famiglia ecc. .
Cito questo caso isolato giusto perché può fare da pendant al mio intervento dell'11 u.s. .
Dimenticavo Pasolini . Se era la cattiva coscienza del degrado dei suoi tempi , figuriamoci oggi ; sarebbe incappato in qualche editto bulgaro come Biagi & Co. E certo
Franzin e Benassi non gli sarebbero estranei , pur con tutti i loro limiti .
Chiudo con un auspicio di intenti : proviamo a prendere le misure ad una poesia per quello che è ( che pensiamo che rappresenti )e non per quello che vorremmo che sia .

Poscritto -
Credo proprio che in una conversazione a quattr'occhi - pardon , a sei occhi - ci saremmo già capiti da un pezzo , ma a livello virtuale siamo ancora tra il probabile e il possibile . Pazienza , noi la buona volontà ce la mettiamo .
Un caro saluto !

leopoldo attolico -

Anonimo ha detto...

A Leopoldo Attolico:


Chiedo un pane morbido

quello che piace ai vecchi

ai bambini e a me


da spezzare con loro come

se fosse un grande dono

di quelli che si fanno a Natale

ma il poeta non ascolta il poeta

chiede al sapere la sua onestà

ed io che mi dicon poeta

bacio i suoi piedi e le sue mani

niente altro gli chiedo

se non di arrivare a domani

per scrivere un giorno

una sola ora

con un po’ di quel pane

ancora fra le mani .

Emilia Banfi



Moltinpoesia ha detto...

Ennio Abate a Leopoldo:

Grazie innanzitutto per l'amabilità della tua replica. Secondo me, le note di lettura vanno benissimo.
Ma la divergenza di giudizio tra noi non mi pare dovuta a dislivello di “rigore analitico”. Non è che io abbia fatto un'analisi dei testi di Franzin o di Benassi più approfondita della tua. Credo ci sia tra noi una diversa percezione e un diverso atteggiamento verso il clima culturale generale. Proprio perché esso è così cinico, scettico, disincantato, a me una poesia che contenga sentimenti non certo edulcorati e ipocriti, ma vissuti o vivibili solo in ambito privato, familiare, circoscritto comunque, si presenta inerme, come ignara di un mondo che non la prevede, ma anzi non la vuole ed è pronto a calpestarla. Io da una parte vorrei difendere poesie come quelle di Franzin, Benassi e altri/e dallo sguardo maligno di quelli che sento nemici; e dall'altra mi sento di rimproverare un po' i suoi autori soprattutto per la loro (almeno a me così pare) cecità o sottovalutazione della pericolosità (per tutti) di questo clima generale. Prendere allora la poesia “per quello che é”, per la “concretezza che ha” per il suo “equilibrio tra Spirito e Ragione” mi risulta impossibile. Non per presunzione. Non perché ambisco a una Perfezione Ideale e a quella intenda richiamare gli altri. Ma perché credo che un certo modo di poetare non fa i conti con la realtà di cinismo, scetticismo, disincanto (e peggio ancora: di distruzione, di assassinio organizzato, di menzogna). Si limita, cioè, a esprimere la sua purezza, la sua bontà, la sua piccola felicità, la sua vera malinconia, il suo dolore.

[Continua]

Moltinpoesia ha detto...

Ennio Abate (continua):

Ma in essa non ci sento l'orrore della storia (che, ad esempio, un po' traspare nella poesia “Senza titolo” di Grandinetti, che pur ho criticato sotto alcuni aspetti). E quell'orrore va fatto sentire anche se si parlasse soltanto di fiori, di nuvole, di cielo. È questo un compito per la poesia, per ogni poeta? Glielo assegno io? Salendo su quale cattedra? Sì, credo sia un compito. No, non ho autorità io per assegnarlo a nessuno. Io lo sento. Una poesia che non si misuri con questo orrore non mi interessa o m'interessa poco. Ci sento il rischio, come ho detto, della consolazione ( Fortini parlava di “vino dei servi”). E confesso di sentirmi a disagio accorgendomi che altri non sentono come me. Non sono certo di essermi spiegato. Non importa. Proverò a farlo in altre occasioni ancora. Ma non dipende dal mezzo virtuale con cui comunichiamo. Credo che anche in una conversazione faccia a faccia il solo pensiero che, mentre noi parliamo, altri ammazzano e prevaricano, dovrebbe turbare la conversazione. Con ciò – ripeto per chiarirlo a me stesso – non mi va distinguere tra una poesia *com'è* e una poesia *come dovrebbe essere* (o come io vorrei che fosse). Perché non so proprio come dovrebbe essere oggi una poesia che fosse capace di caricarsi dell'orrore della storia che stiamo vivendo. So che, interrogandoci più criticamente sulla poesia che già si fa individualmente, come singoli, si potrebbero gettare le basi per farne una che stia più addosso alla realtà che muta e ci muta.

[Fine]

Anonimo ha detto...

Uscire dal pantano, dal malessere, dal terrore , ma dobbiamo purtroppo lattarci dentro, la lotta non basta,serve saper che ancora esiste un modo migliore per vivere, un mondo da desiderare e bisogna che qualcuno ne parli, la poesia può fare molto in questo senso. A un funatore accanito, gli dobbiamo spiegare cosa lo aspetta il giorno in cui smetterà di fumare, salute,forza, benessere, ma se noi gli chiediamo di lottare contro questa sua voglia o di battersi contro la vendita delle sigarette, non farebbe un solo sforzo e fumerebbe di più . Con questo non voglio dire che i poeti non debbano stare dentro la realtà che ci muta, tanti poeti cercano di farlo, ognuno (ed è giusto così) a suo modo. Constatare e lottare, non vuol dire dimenticare tutto ciò che desideriamo e che vogliamo per noi e per chi verrà dopo di noi. Amore, saggezza,giustizia, bontà,umiltà,spiritualità,bellezza intesa come onestà e gioia, sembrano ormai avere poco significato, chi glielo ridarà? I poeti? Io rispondo Sì. Emy

Moltinpoesia ha detto...

Ennio Abate a Emy:

"Amore, saggezza,giustizia, bontà,umiltà,spiritualità,bellezza intesa come onestà e gioia, sembrano ormai avere poco significato, chi glielo ridarà? I poeti? Io rispondo Sì" (Emy).

C'è un po' di confusione tra poeti e preti. (Te lo dice un abate!)

Anonimo ha detto...

Finchè ci saranno persone che pensano che le suddette qualità possano essere considerate roba da preti, nulla cambierà. Emy

Roberto Bertoldo ha detto...

Cari Ennio e Giorgio,
scusate per il ritardo della risposta.
In primo luogo, non ho mai detto che le valutazioni extratestuali siano scorrette in genere, ritengo lo siano quando riguardano uno o pochi testi. Ho infatti detto: “esiste il testo (poesia), esiste il macrotesto (libro o silloge) ed esiste il contesto. Se si riportano testi di macrotesti differenti [come è stato nel caso di Benassi (ndr)], muta ancora di più il contesto [la cui precisione è necessaria al giudizio – mi sia concesso – abatiano (ndr)]. A questo punto non è corretto, a mio avviso, fare valutazioni extratestuali”. Sottolineo “a questo punto”, ossia quando si riportano testi di macrotesti differenti, in quanto i macrotesti non sono visibili, sono fuori dalla possibilità di valutazione. Così leggendo molti sonetti di Foscolo, senza conoscere l’Ortis o i Sepolcri, si può incorrere nell’errore di giudicare l’autore lontano dai temi politici del suo tempo (lasciamo perdere che in altre opere assuma questi temi come maniera, qui Foscolo è solo un esempio). Poiché la critica militante di solito si applica sui contemporanei, il pericolo di certi giudizi avventati, nel bene e nel male, è sempre dietro l’angolo. Come dicevo, internet li agevola, per ché favorisce il passaparola di giudizi di valore, o ripudi, privi di fondamento. Certe esaltazioni, fomentate da lettori di basso profilo, sono all’ordine del giorno e il lavoro di recupero che compie Linguaglossa oggi è reso ancora più ostico da questo bailamme mediatico.
L’analisi di Linguaglossa, che permette – lo dico en passant – di rilevare gli spunti tecnici originali di Foscolo, è però più adatta al microtesto e francamente, per il problema mediatico, non vedo come possa ampliarsi al macrotesto se non rinunciando ad una veduta d’insieme della poesia italiana. Una veduta che sarebbe, tuttavia, necessariamente superficiale; per non esserlo, non può dipendere da un solo critico, ma dall’insieme di critici che si susseguono nel tempo: questa è la differenza essenziale tra giudizio militante e giudizio storico, quindi negare la possibilità (dicevo la correttezza) del primo non significa negare implicitamente, come dice Giorgio, la possibilità del secondo. Riguardo quindi al giudizio sui contemporanei, pensiamo se in questo momento ci fossero in Italia dieci Leopardi; non è una boutade, secondo me ci sono, oggi è molto più facile che ci siano. Ebbene, per provare a scoprirli, anzi a scoprirne solo 3, ci vorrebbe una vita, per di più dedicata solo alla critica. Uno studioso di Leopardi, infatti, deve dedicare l’intera vita alle opere di questo autore ormai fondamentale per dire di averlo capito abbastanza bene. Pensate ad Adorno, così ben citato da Linguaglossa: a premessa di un libro che trattava di Husserl, si scusa di non aver letto tutte le opere di questo autore e di non averlo capito bene. E Husserl era già noto e storicizzato, figuriamoci quali difficoltà possa incontrare un critico che affronta, pur diligentemente, un autore sconosciuto ai più.

[Continua]

Roberto Bertoldo ha detto...

In secondo luogo, non ho mai detto che sono per un divorzio tra “ricerca poetica e critica” (e poi perché “ricerca poetica”? Diciamo tra “poesia e critica”) in uno stesso autore (anzi è oggi necessaria), io mi riferivo ai consigli di scrittura di Linguaglossa: l’intelligenza di lui critico non serve al poeta esaminato, altrimenti il poeta rinuncia a comunicare ciò che sente o pensa a favore di una mediazione tra quanto vorrebbe comunicare e quanto, in base agli insegnamenti di Linguaglossa, dovrebbe esprimere (il modo di espressione racchiude il contenuto, se essi non sono dipendenti viene a mancare lo stile e quindi il poeta). Ogni poesia, di qualsiasi autore, presenta aspetti discutibili, specialmente se vista dall’esterno, ma la poesia sorge dall’intelletto e nelle emozioni dell’autore, circa le quali nessuna empatia riesce gnoseologicamente possibile.
Io capisco che il poeta impegnato, come Abate, e il poeta critico, come Linguaglossa, tendano ad un giudizio anche extratestuale e anche propositivo, tuttavia il primo tipo di giudizio non lo ritengo corretto se rapportato a uno o a pochi testi, soprattutto se di differenti macrotesti, e il secondo non lo ritengo utile al poeta. Mentre entrambi i giudizi divengono fondamentali in una ricostruzione storica della letteratura, anche se sono naturalmente limitati, in particolare quando analizzano autori contemporanei. Poi, certamente, il titanismo è d’uopo, ma sempre condito da relativismo e scetticismo, e mi pare che Linguaglossa concordi con quest’ultimo aspetto.
Però proprio il giudizio dialettico richiede da parte di chi valuta una preparazione seria e una conoscenza approfondita che se non risolve il relativismo, generico e storicistico, ne riduce l’aleatorietà. Questa preparazione e questa conoscenza rendono meno relativistico il giudizio sull’arte del passato di quello sull’arte del presente (c’è quindi differenza di plausibilità). Oltretutto, riguardo la letteratura contemporanea, vittima delle valutazioni più grossolane, l’estrema relatività appartiene a chi ancora confonde il proprio giudizio di gusto con un giudizio di valore.
Un caro saluto,
Roberto Bertoldo

giorgio linguaglossa ha detto...

caro Roberto Bertoldo,

io non mi sono mai permesso di dare dei «consigli di lettura» a nessuno, né ritengo, la mia argomentazione critica sia «didattica», ma certo cerco sempre di spiegare all'autore qual è la «distanza» tra il mio e il suo punto di vista e di fare opere. Materialisticamente ritengo di poter definire la mia critica una «analitica della verità senza verità» e una «ontologia del Presente» insieme.

Il problema di fare Critica del Presente o del Contemporaneo è appunto quello di misurare le reciproche «distanze». Quando dico a Benassi che la sua poesia ha dei chiari cedimenti ogni qual volta inserisce nelle sue poesie scorci di «privato», e lo metto in guardia da questo pericolo, faccio ciò in pieno diritto, così come con pieno diritto Benassi (o Franzin o chi per lui) può ignorare saggiamente qualunque mio (o di altri) «consiglio» di poesia. Se poi gli autori vogliono sentire soltanto genemiadi generaliste e compiacenti sul proprio lavoro, beh c'è n'è così tanta in giro di questa roba che, credo, non c'è alcun bisogno di fare dei duplicati. Mi piacerebbe invece conoscere il giudizio di Benassi su quanto si è detto in questo dibattito... Se esprimo (o ho espresso) una valutazione sulla poesia di B. è perché conosco l'intera opera poetica dell'autore, ed è da lì che parto per dare una indicazione (perché la critica deve anche essere capace di offrire delle indicazioni di direzione), la critica deve saper indicare più che «condannare»; o meglio dovrebbe prima indicare e poi, semmai, criticare.

Prendo invece le distanze dal tuo concetto di impossibilità di fare una critica del contemporaneo. Io sono di diverso avviso. Ritengo che si debba dire sempre quello che si pensa su un «oggetto» che qualcuno ci pone sotto gli occhi; questo ritengo sia fare critica del contemporaneo. E mi chiedo: Perché c'è chi dice che non è possibile fare critica del contemporaneo? Chi l'ha detto? Perché l'ha detto una volta Croce? E perché la si dovrebbe impiegare per il Passato e non per il Contemporaneo? Dove dovremmo posizionare il Confine tra il Passato e il Presente?
Io ritengo che se adottiamo il punto di vista di chi considera la «critica» come una modalità di esercitazione intellettuale su di un «oggetto», ci avvicineremo se non alla verità almeno al buon senso. Io ritengo che la critica del Presente sia utile, anzi, indispensabile per una convivenza civile di una città democratica, e in tal senso la esercito e cerco di affinarla... pur sapendo che essa è parziale perché legata inevitabilmente al mio «punto di vista». Ma è appunto questa la sua ricchezza. Perché mutando il mio (nostro) «punto di vista» con il Tempo e il contraddittorio muta di continuo di conseguenza anche la mia (nostra) elaborazione intellettuale.

Ennio Abate ha detto...

 
A Roberto Bertoldo:
 
«Riguardo quindi al giudizio sui contemporanei, pensiamo se in questo momento ci fossero in Italia dieci Leopardi; non è una boutade, secondo me ci sono, oggi è molto più facile che ci siano. Ebbene, per provare a scoprirli, anzi a scoprirne solo 3, ci vorrebbe una vita, per di più dedicata solo alla critica.» (Bertoldo).
Ammiro la serietà del tuo approccio ai testi e condivido la critica alle  letture impressionistiche e superficiali. Ma trovo la tua posizione inadeguata al problema che questo blog pone: come essere moltinpoesia. Viviamo in una società dove i saperi-potere - quelli che cioè permettono di imprimere alla cultura di un’epoca un segno distintivo, a seconda delle ideologie  in essa presenti: oggi soprattutto quelle liberali e democratiche, in misura residuale quelle socialiste e  anarchiche (lascio da parte le comuniste per il loro declino, irreversibile o reversibile non si sa…) -, pur essendo più diffusi in tutti gli strati sociali, sono pur sempre concentrati “in alto”,  in istituzioni gerarchiche magari decrepite  o in crisi. Ciò significa per me che  ciascuno di noi è sottoposto a spinte contrastanti: o in senso elitario o populista. Da qui  la tentazione di estremizzare. Specie oggi che ogni mediazione (dialettica, si diceva una volta) appare davvero scomoda e in certi casi è impossibile.
Questo pistolotto per dire che la tua ipotesi-guida di scoprire i 3 o 4 Leopardi mi pare proseguire  coerentemente (ma con un tantino di rigidità) una tradizione élitaria rispettabile che però circoscrive a priori e fin troppo il suo campo d’indagine. Io ne sento il fascino, ma non mi sono mai rassegnato (o deciso) a farla mia. Come non mi sono mai rassegnato (o deciso) a far mia quella che di solito in opposizione estrema ad essa, e cioè la tradizione anarchico-populista. Non essendoci più oggi un forte pensiero della mediazione dialettica, mi vedo costretto  a far la spola fra posizioni elitarie e posizioni anarco-populiste, faticando parecchio – lo confesso - a non diventare “schizofrenico”. Eppure a me pare assodato che non si possa oggi ignorare di essere in una folla, in una società di massa. E che non bisogna sprezzarla e mirare soltanto a distinguersene. Bisogna tentare di  osservarla e conoscerla nel suo insieme, epr come realmente è ( o riusciamo a vederla...). E credo che si debba anche essere disponibili a cogliere anche le occasioni di dialogo spicciolo o di  contatto superficiale che si possono presentare. Non mi va d’ignorarle. Non mi va di dedicare il  mio tempo (certamente prezioso quanto quello di altri…) solo ad alcuni e solo con quelli approfondire il rapporto. Se Adorno,  filosofo serissimo,  a premessa del suo libro su Husserl si scusava di non aver letto tutte le sue opere, ciascuno di noi – estremizzo un po' - si dovrebbe scusare di non leggere i testi dei *molti* poeti, contemporanei e no. Certo non possiamo aprirci a tutti. (Pessoa mi ha incuriosito, ma non convinto...). E aprendoci ai molti (o almeno ad una cerchia più ampia di quelle frequentate dai Grandi Intellettuali Tradizionali), i nostri giudizi  non saranno sempre approfonditi  o risulteranno anche sbagliati. E con questo? Chi impedisce di correggerli, affinarli, perfezionarli? O impedisce a quelli accanto a noi o che verranno dopo di farlo? (Anche nel caso di Franzin e Benassi, di cui qui abbiamo parlato, le eventuali «valutazioni extratestuali» errate, perché non potrebbero essere riviste?…).
[continua]

Ennio Abate ha detto...

(continua):

Perché operazioni (affacciate come ipotesi e non come verità indiscutibili…), tipiche di qualsiasi ricerca, dovrebbero essere possibili soltanto in un campo ristretto e specialistico?  E perché diffidare tanto della “critica militante” che si applica sui contemporanei, fossero pure di secondo piano o “minori”? Certo, « il pericolo di certi giudizi avventati, nel bene e nel male, è sempre dietro l’angolo» e Internet  li incoraggerà anche. Eppure la possibilità di correggerli esiste. A me pare importante questa maggiore apertura di sguardo (che non significa cedimento: ci può essere rigore anche nell'occuparsi di più poeti che di uno o due e non si è detto chesi debba diventare una catena di montaggio...). Semmai ho notato  spesso che chi ha un’impostazione più elitaria  evita di correggere, lascia correre, non “si sporca le mani” fino ad entrare in dialogo con gli “erranti” o avventati o superficiali. Spesso è tempo sprecato, è vero.  Ma non sempre.
Per ultimo: penso che anche un buon giudizio storico risulterà migliore se i critici militanti fossero di più e più attivi. Come minimo fornirebbero agli storici della poesia un materiale più ampio su cui svolgere I loro ragionamenti.

[Fine]

Roberto Bertoldo ha detto...

Caro Giorgio,
niente da dire sul diritto di critica, ci mancherebbe. La questione è un’altra. La ripeto, riguardo al nostro dialogo: 1. Io non ho parlato di tuoi “consigli di lettura”, ma di tuoi consigli di scrittura (ti cito: “Io mi sentirei di consigliare Benassi di essere meno «buonista» e più cattivo, asettico riflessivo, parziale e tendenzioso e meno generalista. Meno discorso autoriflessivo più metafore, più allegorie. Potrebbe fare il salto di qualità”). Tutta la tua autorevole e ragguardevole critica verte su preconcetti, stimabilissimi, ma che se dalla teoria passano alla pratica, tua o di chi consigli, divengono didattica. 2. Non parlo di impossibilità di fare critica del contemporaneo, dicevo semplicemente che manca alla critica contemporanea, anche alla più avveduta come la tua, la possibilità di analisi e di convergenza dei giudizi propri e altrui che possano darle una validità storica, come per la critica del passato, pur sempre relativa ma molto meno di quella necessariamente militante, soprattutto se uno s’accolla, come fai tu, l’imperfettibile ancorché entusiasmante compito di storicizzare non alcuni autori ma la poesia contemporanea italiana. Il giudizio sul passato, parlo ovviamente di giudizio serio e documentato come il tuo, ha la possibilità di essere ponderato e dialettico non solo nelle proprie analisi ma anche con quelle compiute da chi ci ha preceduto: s’avvale dunque di una dialettica storica a cui la critica sul contemporaneo non può appoggiarsi, se non per mezzo di deboli, per quanto utili, paragoni.
Ciò non significa che non si possa cogliere nel segno, vedi Francesco De Sanctis. Ma oggi, dicevo, il tuo compito è ancora più difficile, perché internet ha assecondato tutti i vizi clientelari degli scrittori. Liberarsi da questi vizi ha richiesto quelle spallate che tu giustamente hai dato e dai, e richiede anche l’ampliamento critico di Abate, ma attacchi generalizzati come quelli che hai cominciato a fare (per esempio: “nessun poeta italiano da Satura in giù è degno di stare allo stesso livello di un Tranströmer”), pur sulla base di un’idea di poesia sicuramente interessante, a mio avviso non è giustificato e richiederebbe una conoscenza impossibile; si rischia di mettersi sul medesimo piano di coloro che, in un blog o nell’altro, dicono “questo è il più grande poeta italiano”. Per poter capire un poeta, prima ancora che giudicarlo, bisognerebbe conoscerlo a fondo e leggerlo con umiltà, dedizione, ‘pienezza’, compito impossibile ancor più se si devono istituire dei paragoni per la storicizzazione. Io conosco a fondo, o quasi, solo tre poeti italiani contemporanei, tra quelli che hanno al loro attivo una produzione ormai compiuta, e mi riferisco a De Palchi, Pennati e Ruffato. Se qualche dubbio si può avere circa Ruffato e il suo sperimentalismo nonostante la potenza de “I bocete”, non me la sento di giudicare Pennati e soprattutto De Palchi inferiori a Tranströmer. Ma chissà quanti poeti meglio di lui non ho neppure mai letto. E poi sai, ho parlato di De Palchi, Pennati e Ruffato, che sono solo poeti. Pensa se dovessi trovarmi di fronte ad un attuale Pasolini o, come dicevo, Leopardi. Certo, si può giudicare per istinto, che la frequentazione di letture di autori la cui grandezza è dialetticamente e storicamente confermata ha affinato, ma senza una dialettica diacronica il giudizio, nonostante una eventuale e benvenuta dialettica sincronica, è ancora troppo relativo per poter fare scuola (nella successiva risposta ad Abate chiarisco quest’ultimo assunto).
Un caro saluto,
Roberto

Roberto Bertoldo ha detto...

Caro Ennio Abate,
sí, senz’altro ci sono operazioni critiche ‘aperte’ che sono apprezzabilissime, ma interessarsi ai Leopardi anziché ai Sinisgalli non significa essere elitari, sarebbe come dire che è più elitario chi si interessa di scienza e non di divulgazione scientifica. Sono convinto che una battaglia contro il nichilismo e la fenomenologia, come quella che sto facendo da anni, non sia elitaria, visto i danni che queste mentalità hanno causato anche alla pagnotta e agli affetti. Ma questo che tu acutamente tratti è un aspetto dipendente da una diversa impostazione della nostra battaglia, la tua più politica la mia più filosofica quella di Giorgio più estetica, naturalmente tutte con la loro intima complementarità. Tu sei un Ortis ormai maturo, io un Werther dimesso, ma ciò per cui lavoriamo ci accomuna, nonostante il diverso punto d’osservazione, e credo che nessuno di noi lo faccia per distinguersi, ci sono ancora persone, per fortuna, che aderiscono ostinatamente, dal basso della loro piccola attività, all’illusoria pretesa di salvare qualcosetta del mondo.
La questione ora più pressante credo sia quella del giudizio militante. Un giudizio di chi ha qualche pur minima credibilità agisce, su coloro che hanno poco spirito critico, in modo decisivo. Nei campi non di nostra competenza siamo tutti attratti da ciò che è più riposante e quindi più banale. Così io, insieme al 99% delle persone, mi appassiono a film mediocri; come il 99% delle persone, mi commuovo alle musiche più orecchiabili; come il 99% delle persone, ammiro i quadri più astuti e come l’1% degli esseri umani amo la profondità della vera letteratura. Questo credo sia un dato di fatto: amiamo ciò che siamo in grado di capire o sentire. Purtroppo molte persone non si accontentano del piacere che trovano nei loro limiti, come se io pretendessi di dire che il film “Vento di passioni” è un capolavoro perché mi piace. Ci vuole umiltà sempre, ma direttamente proporzionale alla propria ignoranza. E ancora peggio sarebbe se io giudicassi il valore di un film da quanto ne dice il Morandini. Sarebbe sbagliato perché non ho gli strumenti per confrontarmi con i critici blasonati. Ecco che ora internet amplia certi giudizi, non tanto quelli di chi come me non è addentro all’arte in questione, ma di chi ci è dentro per aver acquisito una credibilità non giustificata dal suo impegno e dalla sua preparazione. E coloro che sviluppano giudizi di valore semplicemente dal proprio gusto o che assumono opinioni in modo acritico non sono solo i lettori comuni ma soprattutto gli studiosi delle accademie, gli arrivisti, i critici dilettanti che leggono le quarte di copertina se non solo il nome dell’autore o che seguono la massa, ecc. Allora, e questo ci riguarda un po’ tutti poiché siamo tutti limitati perlomeno nelle conoscenze, non importa che il giudizio sia rivedibile se è superficiale, non importa che qualcuno possa correggerlo, è come quando si pubblica sul giornale una notizia diffamante: che ci sia la ritrattazione non attenua più di tanto i danni che ha essa determinato.
Qui iniziano le tue ragioni. Le motivazioni della mia diffidenza verso la critica militante le ho già date nei precedenti interventi. Il concetto meno evidente è che solo una critica dialettica può controllare i danni della critica sui contemporanei, ma come dicevo a Linguaglossa questa dialettica può essere tutt’al più sincronica ed è comunque più debole della dialettica diacronica. Tale sincronia di analisi, però, può davvero, come dici tu, essere rafforzata, e di molto, dall’apporto di più critici militanti, questo è sí il diadema dei moltinpoesia. Tuttavia la sua brillantezza richiede un impegno e una pulizia etica che spesso i contemporanei, avidi corrotti opportunisti, riescono ad avere solo nei riguardi degli autori del passato.
Un caro saluto,
Roberto Bertoldo

giorgio linguaglossa ha detto...

Caro Roberto Bertoldo,

come non c'è bisogno di conoscere tutta l'opera di un autore per esprimere una valutazione su un romanzo o una poesia, così non c'è bisogno di conoscere tutta la moda di Versace quando compriamo una cravatta di Versace perché ci piace. Il giudizio critico (di gusto) su una cravatta (la compro perché mi piace e la metto sulla camicia), non è diverso dal giudizio critico su una poesia (la leggo e la rileggo perché mi piace, e quindi compro il libro di poesia). Noi tutti facciamo della critica del gusto militante in ogni istante della nostra esistenza quando passando davanti a una vetrina ammiriamo (o disapproviamo) la merce colà esposta. La critica del gusto sfocia inevitabilmente nel giudizio sul Bello, e quindi, implicitamente, in critica dell'oggetto. L'unica differenza tra una persona e l'altra è che magari la prima ha una particolare competenza (accumulata in decenni di studi) in un particolare campo (la storia delle cravatte come la storia della poesia). Ed è in base a questa competenza (conoscenza) accumulata che una persona X può dire "che da Satura in giù non c'è nessun poeta italiano ragguagliabile a Transtromer"; è un giudizio lecito, penso. Come è lecito anche il giudizio contrario. In un blog democratico (come in un contesto più ampio come la vita nazionale), deve essere perfettamente lecito a ciascuno poter esprimere liberamente il proprio giudizio critico. È un ottimo esercizio per la palestra della libertà di espressione.

E poi, caro Roberto, tu sai benissimo che oggi gli unici critici militanti che «valgono» sono quelli che gestiscono gli Uffici Stampa di Einaudi, Mondadori, Garzanti, Guanda. Sono loro che includendo o escludendo un autore o un'opera dai rispettivi cataloghi esprimono (indirettamente e implicitamente) un giudizio critico (senza neanche il bisogno di scrivere quattro righe di valutazione critica).

Se tu nutri (giustamente) della «diffidenza verso la critica militante», io nutro analoga diffidenza verso la critica in genere anche e soprattutto verso quella (sedicente) non militante.