sabato 16 febbraio 2013

Adam Zagajewski,
Cinque poesie.
Con una nota di Giorgio Linguaglossa.


Kierkegaard su Hegel


Kierkegaard diceva di Hegel: ricorda qualcuno
che erige un enorme castello, ma vive
in una semplice capanna, lì nei pressi.
Così l’intelligenza abita in una modesta
stanza del cranio, e quegli stati meravigliosi
che ci furono promessi sono ricoperti
di ragnatele, per ora dobbiamo accontentarci
di un’angusta cella, del canto del carcerato,
del buonumore del doganiere, del pugno del poliziotto.
Abitiamo nella nostalgia: Nei sogni si aprono
serrature e chiavistelli. Chi non ha trovato rifugio
in ciò che è vasto, cerca il piccolo. Dio è il seme
di papavero più piccolo al mondo.
Scoppia di grandezza.




Ricordi 

Sfoglia i tuoi ricordi
cuci per loro una coperta di stoffa.
Scosta le tende e cambia l'aria.
Sii per loro cordiale, leggero.
Questi ricordi sono tuoi.
Pensaci mentre nuoti
nel mare dei Sargassi della memoria
e l'erba marina crescendo ti cuce la bocca.
Questi ricordi sono tuoi,
non li dimenticherai fino alla fine.



Mistica per principianti


Il giorno era mite, la luce amica.
Quel tedesco sulla terrazza del caffè
teneva sulle ginocchia un libricino.
Riuscii a leggere il titolo:
Mistica per principianti.
All’improvviso compresi che le rondini
in ricognizione
con striduli richiami
sulle vie di Montepulciano
e i dialoghi sommessi degli intimiditi
viaggiatori dell'Europa Orientale detta Centrale,
e i bianchi aironi fermi – ieri, ier l’altro? –
nelle risaie come tante monache,
e il crepuscolo, lento e sistematico,
che cancellava i profili delle case medievali,
e gli olivi sulle basse colline,
esposti ai venti e agli incendi,
e la testa della Principessa ignota
e le vetrate delle chiese come ali di farfalla

cosparse del polline dei fiori,
e il piccolo usignolo che si esercitava nella recita
accanto all'autostrada,
e i viaggi, tutti i viaggi,
erano soltanto mistica per principianti,
un corso introduttivo, prolegomeni
di un esame rimandato
a più tardi.



Lava


E se Eraclito e Parmenide
avessero ragione contemporaneamente
e due mondi esistessero affiancati
uno tranquillo, l’altro folle; una freccia
scocca immemore, e l’altra indulgente
lo osserva; lo stesso flutto si frange e non si frange,
gli animali nascono e muoiono nello stesso istante,
le foglie di betulla giocano con il vento e al contempo
si struggono in una crudele fiamma rugginosa.
La lava uccide e serba, il cuore batte e viene colpito,
c’era la guerra, la guerra non c’era,
gli ebrei sono morti, vivono gli ebrei, le città bruciarono,
le città rimangono, l’amore avvizzisce, il bacio è eterno,
le ali dello sparviero devono essere brune,
tu sei sempre con me, anche se non ci siamo più,
le navi affondano, la sabbia canta e le nuvole
vagano come veli nuziali sfilacciati.

Tutto è perduto. Tanto incanto. I colli
reggono cauti lunghi stendardi boscosi,
il muschio sale sul campanile di pietra della chiesa
e con labbra minute timidamente loda il Settentrione.
Al crepuscolo i gelsomini brillano come lampade
folli stordite dalla propria luce.
Nel museo davanti a una tela scura
si stringono pupille feline. Tutto è finito.
I cavalieri galoppano su cavalli neri, il tiranno scrive
una sgrammaticata condanna a morte.
La giovinezza si dissolve nell’arco
di un giorno, i volti delle fanciulle si fanno
medaglioni, la disperazione volge in estasi
e i duri frutti delle stelle crescono nel cielo
come grappoli d’uva e la bellezza dura, tremula, immota
e Dio c’è e muore, la notte torna a noi
sul fare della sera, e l’alba è brizzolata di rugiada.


R. dicembre

Sorci letterari – dice R. – ecco chi siamo.
Ci incontriamo in coda davanti alle casse dei cinema economici.
Al tramonto, quando negli stagni verdi affondano pesanti soli
di broccato, usciamo dalla biblioteca arricchiti dall’opera di Kafka
- illuminati sorci in giubbotti militari, in cappotti
del potenziale esercito di un despota colto; polizia segreta
di un poeta che forse giungerà al potere in una provincia lontana.
Sorci con borse di studio, domande confidenziali, osservazioni sarcastiche,
topi dal pelo irto, dai baffi ispidi, pungenti.
Ci conoscono le grandi città, l’asfalto rovente, le dame di carità,
non ci hanno mai visto i deserti, l’oceano e la fitta giungla.
Benedettini di un’epoca atea, missionari di una facile disperazione,
siamo forse una forma transitoria in un lungo processo evolutivo,
il cui fine, l’indirizzo e il senso ancor a nessuno furono svelati.
e siamo ripagati con una monetina d’oro, priva di valore: la voluttà
di un attimo, quando la fiamma della metafora fonde due oggetti finora liberi,
quando l’astore scende in picchiata l’esattore si fa il segno della croce.


* Nota di Giorgio Linguaglossa


Adam Zagajewski (Leopoli, 21 giugno 1945) è un poeta, scrittore e saggista polacco. Residente a Parigi dal 1981 al 2002, poi trasferitosi a Cracovia, è insegnante di letteratura presso la University of Chicago. È noto soprattutto per il poema Try To Praise The Mutilated World, uscito a puntate sul periodico statunitense The New Yorker e divenuto celebre dopo gli attentati dell'11 settembre 2001, e per le sue pubblicazioni sul poeta connazionale Czesław Miłosz, Premio Nobel per la Letteratura nel 1980. Ha vinto il Neustadt International Prize for Literature nel 2004: è il secondo polacco, dopo proprio l'amato Miłosz, a vincere il premio conferito dall'università statunitense.
Poeta del modernismo polacco, Adam Zagajevski ama fare una poesia della prassi senza disdegnare l'impiego iterativo e percussivo della metafora e del simbolo; ovviamente, di un simbolo vuoto e privo di sfondo. Le sue poesie nascono sempre da un atto di riflessione narrante sul mondo, vogliono descrivere con chiarezza ciò che accade nel mondo, e anche ciò che non accade o ciò che potrebbe accadere e non è accaduto: impiega così un metodo pienamente tridimensionale, indica le vie di accesso al reale e accerchia il reale: la pluralità delle vie di accesso e la pluralità delle possibilità che entrano in gioco quando noi facciamo un atto di esperire il reale. Descrive e indica con chiarezza l'essere e il non essere, indica, con l'ausilio della metafora e della ripetizione/variazione, il sempre eguale e il sempre diverso, la stasi e il moto, la dialettica e l'opposizione inconciliabile. La lingua poetica si trova lì, al centro delle contraddizioni, è uno strumento che bisogna far suonare con il plettro di una lunga e faticosa assimilazione di «cose»; la lingua di Zagajevski è piena di «cose», trasborda di «cose»; il fiume delle «cose» trascina la lingua che parla attraverso gli attriti e gli scossoni che la corrente imprime alle «cose». E gli uomini, al pari delle «cose», vengono esposti alle dialettiche del reale, alla irrazionalità di ciò che è irrazionale e di ciò che è razionale. La poesia di Zagajevski è «piena» di reale, scoppia di reale. La storia è cronaca che diventa eternità, la poesia è cronaca che diventa eternità, ha la durezza dell'essere, la rugosità e l'asprezza dell'essere. Tutto è pieno, tutto è materia, anche la Lingua è materia che bisogna saper modellare e colpire con il martello: la poesia è scultura della materia e il poeta è lo storico di queste sculture. Le «cose», gli «oggetti» hanno una loro vita e la poesia non è altro che il nastro registratore che registra la vita degli «oggetti»: massima oggettività nella massima soggettività. Il poeta è colui che tiene un diario nel quale registra «la vita degli oggetti».
«Non sono uno storico, ma mi piacerebbe che la letteratura assumesse, consapevolmente e in tutta serietà, il ruolo di una cronaca storica. Non voglio che segua l'esempio degli storici contemporanei, per lo più pesci freddi che hanno passato la loro vita in archivi polverosi e scrivono una lingua burocratica brutta e inumana, una lingua di legno prosciugata di tutta la poesia, piatta come un pidocchio e grigia come il giornale quotidiano. Vorrei che tornasse a esempi più antichi, chissà, addirittura greci, all'ideale del poeta storico, una persona che ha visto e sperimentato direttamente quel che descrive, oppure ha attinto alla vivente tradizione orale della sua famiglia o della sua tribù, che non teme né il conflitto né i sentimenti, ma ha tuttavia a cuore la ricostruzione scrupolosa della vicenda che narra». (citato in John Lukacs, Democrazia e populismo, traduzione di Giovanni Ferrara degli Uberti, Longanesi, 2006, p. 179)
«Uno scrittore che tiene un diario lo usa per registrare ciò che sa; nelle poesia e nei racconti mette quello che non sa». (citato in Tommaso Giartosio, Perché non possiamo non dirci, Feltrinelli, 2004, p. 138)



10 commenti:

Anonimo ha detto...

Poesie che si fiondano nel reale, danno alla vita delle cose e dell'essere nella storia un significato universale e preciso. L'irreale attraversa ilreale con una forza ed una dolcezza che spingono il lettore a cercare a riflettere ma anche a stupirsi di quanto la forma possa diventare piacere e la storia così compresa diventi una nuova poesia. La nota di Linguaglossa è utile a prova che nella realtà , l'irrazionale può esistere in ogni momento senza limiti e senza pregiudizi per trasformarsi in storia , quella storia che si ripete e che resta sempre dentro di noi attraverso l'esistere delle cose e della spiritualità. Qualcosa di sacro che mi sorprende. Emilia Banfi

Mayoor ha detto...

E' dell'oscuro nulla che abbiamo davanti che si vorrebbe parlare, come per illuminarlo. Ma facendolo non possiamo fare altro che ripercorrere ciò che abbiamo conosciuto, forse perché è ciò che non è, il nulla, che illumina la strada a ritroso e dove siamo. Il nulla che ci precede avanzando, quindi il nulla che retrocede (l'Angelo necessario di Cacciari) non fa che mostrare il nostro smarrimento (individuale e sociale).
Funziona! queste poesie immettono filosofia in forma non concettuale grazie al pensiero visivo (trasborda di "cose", scrive Linguaglossa), che è forse la prima forma di pensiero, pre-moderna, quella che riempie di immagini la nostra memoria, non solo con parole, e con le immagini ci fa pensare. I pittori direbbero che si sconfina nel loro campo del pensiero visivo, i musicisti no perché pensano ascoltando, e nemmeno chi danza pensando con il corpo. Nella parola tutte le forme di pensiero possono riunirsi, ma solo dopo che si è visto, udito, toccato.

Anonimo ha detto...

Paolo Ottaviani

“Iovis omnia plena” aveva scritto Virgilio (Egloghe. III, v. 60). In ogni pur minima cosa s’agita uno spirito eterno. “La poesia di Zagajevski è piena di reale, scoppia di reale” scrive Linguaglossa commentando il poeta polacco. Non v’è nessuna contraddizione tra la pienezza dello spirito e la “rugosità” della materia. “La lava uccide e serba”. La materia è garanzia d’eternità. Solo la grande poesia può affermare questo e solo un critico illuminato, anch’esso poeta, può cogliere e risolvere questa contraddizione apparente e reale.

Unknown ha detto...

Sicuramente devo approfondire quest'autore, ringrazio quindi Linguaglossa e Abate per la proposta. Ciò che mi ha trasmesso a questa prima lettura è qualcosa che ha a che fare con le misure...forse mi avvicinerò o distanzierò dai discorsi fatti da Mayoor, ma ho la netta essenza di questa poesia nella misura in cui fa toccare, proprio quasi letteralmente, spazi che normalmente, a una mente troppo pragmatica o scientifica in un senso solo tecnico, sono negati. Lo spazio in cui entri con questo poeta è al contempo verticale e orizzontale, nonostante e grazie alla descrizione di ogni imperfezione che l'avvolge e che, della dura e cruda e realtà, colpisce ogni oggetto della stessa ( e suo invecchiamento compreso, rugiade brizzolate incluse)...Tuttavia i tempi che si percepiscono in questo spazio poetico sono quasi oltre il tempo perché forse( in altre parole ma simili a quanto dice Mayoor), nonostante siano diversi per ogni arte espressiva, sono tempi con_tratti dilatati in modo diverso...I tempi ( e duqneu gli spazi) di un componimento musicale sono di per sé "lenti" e apparentemente fatti da una sola musicalità senza tatto e senza colore... l'ascolto di una tela ,inclusa per prima quella della visione mondo, anche se si consuma apparentemente in una frazione di tempo centinaia d volte inferiore a quella sullo spartito, e decine di volte inferiori a quello sullo spartito poetico, implica quella riunione di apparati per riprodurla con quella "polizia segreta di un poeta che forse giungerà al potere in una provincia lontana".

franci ha detto...

scelta magnifica F. L.B

Anonimo ha detto...

dalla poesia di Zagajevskij possiamo imparare come a scuola il modo con cui si costruisce una poesia; innanzitutto le cose sono infilate (incastrate) nello spazio-tempo,sono strette, costipate,come ha bene detto Linguaglossa, e tutte insieme costruiscono un arco a sesto acuto. Non c'è spazio per il girotondo dell'io con le sue ubriacature pseudo liriche di molti poeti italiani che oggi vanno per la maggiore. Mi colpisce l'oggettività di queste poesie e, insieme, la grande potenza metaforica che scaturisce da questa «costruzione». È qualcosa di assolutamente unico. Addirittura superiore alla pur grandissima Szymborska. Complimenti per la scelta e il commento.

Laura Canciani

Anonimo ha detto...

"siamo forse una forma transitoria in un lungo processo evolutivo,
il cui fine, l’indirizzo e il senso ancor a nessuno furono svelati..."

Sembra che a parlare siano gli uomini-libro incontrati da Montag durante la sua fuga. Un passaggio epocale è certo all’origine di qualsiasi cambiamento, dove la strada più certa da seguire è il bordo della rotaia come fosse un nuovo orizzonte, oltre il quale non c’è altro se non il vuoto.
Un vuoto dove La scienza dei santi (Bergamo) diviene un’antifrastica (che termine difficile!)“mistica per principianti”,così come eterno non è l’amore ma il bacio.

Volendo trovare un aggettivo alla poesia di Zagajewski direi “seducente”,nella sua doppia valenza di sviare e condurre, etimologicamente intendendo.
Ma forse anche “inquietante”.

Giuseppina Di Leo

giorgio linguaglossa ha detto...

Cara Giuseppina Di Leo,

in uno dei suoi versi, scrive Zagajevskij: «la poesia vive nella contraddizione». Qui il termine «contraddizione» non è inteso nel senso prettamente pragmatico-ideologico in cui lo hanno inteso le finte e posticce post-avanguardie italiane degli anni Settanta e Novanta, ma indica un elemento interno alla costruzione delle frasi. Voglio dire che una cosa è la «costruzione» in narrativa e un'altra lo è nella poesia. Tenendo fermo questo distinguo, Zagajevskij procede nella «costruzione» nel solco della linea di scontro tra le opposte faglie tettoniche: la «costruzione» procede come una galleria sotto il Gran Sasso, tramite puntellature metaforiche che tengono a distanza le «faglie» che le costringono e le supportano. Zagajevskij intende la costruzione metaforica come qualcosa che si «oppone», «contro dice» le forze che si scatenano all'esterno della metafora. La meta fora è come una strettissima galleria che ci porta al di fuori della significazione colloquiale del linguaggio relazionale del quotidiano, che ci porta dentro una de-angolazione prospettica, una deviazione prospettica, una visione laterale, di scorcio. Cambia così tutta l'ottica della composizione perché cambia l'ottica della «costruzione» del poetico.
Zagajevskij si guarda bene dallo scrivere versi lineari consecutivi secondo il «metodo» di una poesia più facile, diciamo scontata, sì riconoscibile ma anche prevedibile. Il poeta polacco si muove all'interno di una ontologia del discorso poetico dello spaesante e dello straniamento, della distanza e delle forze contrapposte. Ecco il significato della «contraddizione»! Un senso molto più profondo e complesso di quello invalso nel concetto corrivo di «dire contro». Nel concetto di «contraddizione» di Zagajevskij c'è la complessità del prisma e la profondità della dimensione equorea.
Come ben detto da Giuseppina Di Leo la procedura di Zagajevskij si sviluppa per «antifrastica», cioè ciascuna proposizione metaforica è anche cinetica e ciascuna si muove in una direzione diversa da tutte le altre, il risultato di questo complesso meccanismo è un moto spaventosamente dispendioso non finalizzato alla significazione del linguaggio relazionale ma ad una significazione che si muove in un'altra dimensione. Il linguaggio poetico di Zagajevskij predilige l'antifrasi e la contraddizione interna. Ma anche la poesia di Transtromer, se non sbaglio, si muove in questa direzione.
In Italia non so chi potrei annoverare tra i poeti, giovani e vecchi, che si muova in questa direzione.

Anonimo ha detto...

Paolo Ottaviani

Colpisce solo del puntulissimo commento di Giorgio Linguaglossa all'intelligente chiosa di Giuseppina Di Leo il rigo finale: "In Italia non so chi potrei annoverare...". Un'improvvisa cecità causata da eccessiva esterofilia? Perché, pur senza far nomi, ce ne sarebbero e ce ne sono stati di poeti italiani che hanno costruito il loro poetare prediligendo "l'antifrasi e la contraddizione interna" e molti di essi, per giunta, amati e studiati dallo stesso Linguaglossa!

Anonimo ha detto...

Giorgio,
ti ringrazio della risposta.
Apprezzo Zagajevskij proprio per la visione "di scorcio", come tu dici, grazie alla quale la sua poesia giunge a trascendere la realtà e a non ridurla a mera registrazione del quotidiano.
La dimensione di vuoto, che tuttavia c’è nel poeta, è da me intesa in un senso tutt’altro che limitativo, ed è anzi condizione necessaria che consente a Zagajevskij di leggere nitidamente ciò che lo circonda e fa sì che egli guardi e si rapporti abbandonando il rapporto degli occhi con il proprio ‘io’.
Giungere a simili livelli, saper cioè guardare nitidamente il mondo che ci circonda andando ben oltre la percezione che ognuno di noi ha di esso, presuppone un lavoro continuo e costante di ‘sguardo e scrittura’; un percorso intenso che, passando da un’idea, ovvero dalla percezione ‘di appartenenza’ permette di giungere a una visione di distacco, o se vorremmo ‘laica’. E, ancora, significa sentire chiaramente come superato il concetto del mondo come materia da plasmare; implica cioè una non-appartenenza, sintomatico di chi sente (il poeta è colui che sente) non già la somma bensì la detrazione dei termini del rapporto tra io e noi; significa, ancora, avvicinarsi, ma con molta umiltà, alla stessa idea di conoscenza.
Il brano “R. dicembre” - assolutamente meraviglioso - trovo che sia esplicito in tal senso.
Sulle tue perplessità circa l'esistenza di poeti italiani del calibro di Zagajevskij e Transtrommer convengo con quanto dice Paolo Ottaviani, e come lui non mi sento di essere pessimista al riguardo.

Giuseppina Di Leo