domenica 24 febbraio 2013

Cesare Viviani,
Poesie.
Con una nota di Giorgio Linguaglossa.


da “Infinita fine” Einaudi, Milano, 2012



Ha avuto il coraggio di sporgersi dal trono
il monarca,
di sporgersi da un lato
tanto da assumere
una posizione ridicola, non so
se lo faceva per scoprire qualcosa
sulla fascia esterna del trono
o perché si era stancato del cerimoniale.
Poi nella festa parlarono tutti, nessuno taceva,
parlavano, parlavano,
parlavano anche
del percorso di torrenti e fiumi,
dai monti al mare.
Intanto bevevano, bevevano,
alcuni fino a stordirsi.




*

Noi siamo qui a distinguere
la farina e la polvere,
mentre il tempo silenzioso deteriora
le nostre ossa.

*

È l’immateriale che stabilisce
i tempi di deterioramento
della materia del corpo,
l’immateriale che a un certo punto
dice «basta».
L’immateriale è l’anima,
ma non quella della salvezza.


*

La bellezza sospende la condanna.
Basta guardare fuori.
Intanto la natura dice:
«Non ho mai fatto sforzi per la bellezza».


*

Ben più solidi gli oggetti
che colui che trapassa.
Ma chi trapassa diventa oggetto,
e acquista
in solidità e durata.

*

Cosa sia questa luce del giorno
per gli altri, per i miei vicini,
non posso sapere.
Non posso sapere
cosa sia
per gli altri, per la loro vita
l’aria che respiro.


*

La bellezza appariva buona,
ingannava,
ma era l’unico rimedio, istantaneo,
agli insulti del tempo.

*

E all’improvviso si fermò
tanto movimento di gente, occhiate,
spinte. Il venditore gridava
le qualità della merce,
insisteva, «venite!», con il passante,
e tutto rallentò all’improvviso
e si fermò.
era finita l’estate, era finita
la propensione a muoversi.


*
Di continuo il vento rovescia
le foglie, forzate a posizioni estreme,
pressate, tirate su e giù,
come noi inseguiti dai mesi,
che ci spingono, quelli aggressivi,
e poi tutti ci superano velocemente,
volano.


*

Il peggio è passato, mi dico,
mentre ci affidiamo al visibile,
mentre anche il candore più delicato
è parte dell’implacabile macchina del mondo.






Cesare Viviani è nato nel 1947 a Siena, dove studia al Liceo Classico “Piccolomini” insieme al poeta Mario Specchio, e poi si laurea in Giurisprudenza nel 1971 con una tesi sul ‘plagio’ (la soggezione psichica totale) in Medicina Legale. Dell’ambiente letterario, durante gli anni senesi, conosce Carlo Betocchi, Mario Luzi e Franco Fortini che insegnava all’Università di Siena. Nel 1972 si trasferisce a Milano dove svolge il lavoro di giornalista e poi di psicologo nelle istituzioni sanitarie pubbliche. Nel 1973 si afferma come poeta con il libro di esordio L’ostrabismo cara, edito da Feltrinelli. Nel 1984 si laurea in Psicopedagogia. Collabora per anni con recensioni e interventi di argomento psicologico e sociale ai quotidiani “Il Giorno”, “Corriere della Sera” e “Avvenire”.
Nel 1978 e 1979 organizza a Milano, con Tomaso Kemeny, due convegni sulla poesia italiana degli anni Settanta. Dal 1981 rivolge i suoi interessi di ricerca e di lavoro alla psicanalisi. Tuttora lavora come psicanalista. Dopo il 1973 ha pubblicato diversi libri di poesia. Ha scritto due saggi psicanalitici: Il sogno dell’interpretazione, (Costa & Nolan, 1989, 1991, 2006) e L’autonomia della psicanalisi, (Costa & Nolan, 2008). Ha pubblicato per la poesia: L’ostrabismo cara, Feltrinelli, Milano 1973; Piumana, Guanda, Milano 1977; L’amore delle parti, Mondadori, Milano 1981; Summulae (1966-1972), Scheiwiller, Milano 1983; Merisi, Mondadori, Milano 1986; Preghiera del nome, Mondadori, Milano 1990; L’opera lasciata sola, Mondadori, Milano 1993; Cori non io (1975-1977), Crocetti, Milano 1994; Una comunità degli animi, Mondadori, Milano 1997; Silenzio dell’universo, Einaudi, Torino 2000; Passanti, Mondadori, Milano 2002; La forma della vita, Einaudi, Torino 2005; Credere all’invisibile, Einaudi, Torino 2009; Infinita fine, Einaudi, Torino 2012; Poesie (1987-2002), Oscar Mondadori, Milano 2003 (antologia).

*Nota di Giorgio Linguaglossa


Cito dal mio libro in corso di stampa «Dopo il Novecento. Monitoraggio della poesia italiana contemporanea».
«Il discorso ondulatorio-suasorio del tipo della poesia del tardo Bertolucci de La camera da letto (1984), diventerà sempre più un problema. Il discorso poetico diventa il terreno del dispiegamento del «senso» come effetto di superficie, qualcosa che non si iscrive né nella sommità delle Origini né nelle altitudini della Coscienza né nella profondità dell’Inconscio, come quel quid che si presenta come superficiale nell’accezione di ciò che sta in superficie, che galleggia in superficie, ma non soltanto come segno o traccia di qualcosa di assente, o che è stato perduto o il prodotto di un’origine, un segno, un sintomo, una abreazione, ciò di cui il «senso» sarebbe effetto. Qualcosa che non si rapporta più alla totalità (perduta o da edificarsi), ma evento-effetto di qualcosa di singolare, di accadimentale, di slegato, di casuale, di fortuito, costitutivamente in rovina, in derelizione, in stato di frammento, relittuale. È quindi l’assenza di fondamento che produce il «senso», ed è quindi inutile oltre che insensato inneggiare una palinodia malinconica sulla fine dei fondamenti. È quindi l’accettazione della dimensione relittuale della  poiesis la posizione di partenza di questi poeti. L’età della lirica è diventata un lontano ricordo.
L’assenza, la frammentazione, l’interruzione, la singolarità, l’irriconoscibilità sono quindi non le cause dell’estinguersi del «senso», ma del suo sorgere. La poesia è adesso impegnata a rivelare la «perdita», l’«assenza», quel «vuoto di senso quella frattura», dirà Cesare Viviani, l’ «invisibile», l’«indicibile», la «crisi»:

la poesia è miracolo non tanto perché conserva l’energia nel tempo – lo stesso fuoco che risorge sulla pagina -, quanto perché rivela quel vuoto di senso, quella frattura, quell’evento imprevedibile e inspiegabile che è la struttura fondamentale dell’esistenza. La poesia, come ogni miracolo è la vita, mentre il linguaggio quotidiano è la distanza di difesa dal fuoco dell’esistenza.[1]  – {Subentra l’idea che la poesia non si forma} nella relazione con l’esterno, con il quotidiano, con il sociale, con il sacro. Ma tutte queste realtà se intese come leggibili sono magnifici bocconcini, ordinarie acquisizioni che non formano affatto e si trasformano solo in una piccola ma ingombrante ideologia. Solo in quanto illeggibili queste realtà sono formative. Insomma, detto in due parole: è la perdita che forma la scrittura poetica, non è mai l’acquisizione. (...) la poesia è scelta incompiuta, senza ritorno, insostituibile, immutabile: è la dimensione della mancanza, della perdita, così difficile da accettare per l’intelligenza dialettica, per l’intelletto critico, una mancanza, una perdita senza possibilità di intervento o rimedio, senza possibilità di negazione o rimozione.
L’indicibile non è un oggetto, descrivibile in positivo o in negativo, ma è un limite al dire, limite che è irrappresentabile perché la percezione, l’esperienza che lo fa percepibile, è anch’essa irrappresentabile. La percezione irrappresentabile del limite irrappresentabile è un’esperienza di fine. L’indicibile è un’esperienza di fine[2] »



[1] Cesare Viviani Il mondo non è uno spettacolo Il Saggiatore, Milano,1998 p. 79
[2] Cesare Viviani  La voce inimitabile il melangolo, Genova, 1990, p. 40, 117

11 commenti:

Anonimo ha detto...

da Rita Simonitto

Quando in quel teatro di rappresentazioni che è la mente , il ‘monarca’, ovvero chi (o che cosa, perchè potrebbe essere anche la storia personale o quella collettiva) è investito nel dare un senso alle cose, non si sa per quali ragioni, si sposta dal suo centro, la maschera stessa del potere sul reale perde i suoi equilibri.

Allora, come perle di una collana il cui filo si è spezzato, tutti i pensieri si sperdono a cascata (“parlavano, parlavano” […] “Bevevano, bevevano”).
Lo stesso versificare segue questo scollamento: poco importa se i contenuti siano carichi di suggestione (*La bellezza appariva buona*), perché anche ciò è destinato a finire con violenza:
*le foglie, forzate a posizioni estreme,/pressate, tirate su e giù,*;
* era finita/la propensione a muoversi.*; * L’immateriale è l’anima,/ ma non quella della salvezza.*
Quanto alla poesia, essa viene continuamente sollecitata dall’irrapresentabile. Il suo ‘oggetto del desiderio’ non è la rappresentazione della realtà percepibile con i sensi (fin lì ci si arriva, non occorre scomodare l’ars poetica) bensì il suo nascosto, la sua parte mancante che, pur nella mancanza, fa intuire la presenza. In una società dotata di un qualche ‘centro’, questo diventava più facile. In una società ‘s-centrata’ come quella di oggi le cose si fanno molto più problematiche e il rischio che si corre è proprio quello di precipitare dentro lo scollamento del reale * mentre ci affidiamo al visibile*.





Anonimo ha detto...

direi che nei suoi esiti migliori la poesia di Viviani si mostra di sguincio, di traverso, per le vie incidentali, laterali... lo straniamento e la irriconoscibilità sono le stelle polari di orientamento di questa poesia; oggettiva sì, ma anche indiretta e allusiva in alto modo; poesia modale, cioè che si mostra come modalizzazione e modellizzazione del modus, se così si può dire. Ma Viviani è giunto a questo stile dopo una lunghissima circumnavigazione che data dall'opera di esordio del 1974 "Ostrabismo cara", che, sia detto per inciso, si muoveva in tutt'altra direzione stilistica (e in un'altra civiltà poetica). La poesia di Viviani riesce ad agganciare e ad amalgamare la sciatteria del parlato con la formalizzazione della modalizzazione; e quando riesce in questi palleggi la poesia c'è. Leggendo questa poesia si ha l'impressione che ci stiamo allontanando dalla terra ferma a velocità sensibile, e non ce ne accorgiamo; direi che siamo su una zattera, e che lo stile di Viviani, anch'esso sia uno stile da «zattera»; voglio dire che è uno stile che è costretto a galleggiare sul «nulla», (o sul «pieno» dell'equoreo a seconda dei punti di vista). Direi che Viviani riesce più acuto e contundente quando lascia da parte le oasi del misticismo e del mistilinguismo per aderire a quella modalizzazione che lui sa fare così bene.
Nei suoi esiti migliori questa poesia regge, ma quando cade cade fragorosamente. È questo forse il suo limite più vistoso.
Laura Canciani

Anonimo ha detto...

Quello che più colpisce leggendo questi pensieri è la riduzione del linguaggio all'essenziale non vi sono effetti speciali e tuttavia questi frammenti, ti colpiscono velocemente, alla stessa velocità del tempo che passa inesorabile. Questa “NON POESIA” senza fronzoli in questa “infinita fine”, usa un linguaggio quasi comune per riportarci ad una riflessione primitiva senza usare esperimenti raffinati o archeologici. Saltano felicemente i dettami sulla forma e sull’estetica. Ha sicuramente una qualità, non soffre di arroganza, non vuole costruire sistemi ma fa riflettere sul corso del tempo e sulle ripercussioni che questa riflessione potrebbe avere sulla nostra antropologia. enzo giarmoleo

Mayoor ha detto...

A me sembra un'auto-intervista dove Viviani offre risposte a domande che non si leggono. Il poeta vate si esprime con l'aura da luoghi imprecisati della metafisica. Sembra che ai poeti non interessi la saggezza in se', conta più il suono che ha, la sua bellezza, l'estetica. Per questo ne ritaglia frammenti. Ai tempi di "Ostrabismo cara" c'era Balestrini che ritagliava dagli articoli della cronaca, ora Viviani prende da interviste immaginarie a se stesso. C'è compiacimento, ma nella continuità ideale con lo sperimentalismo che ha sorpassato le ricerche formali.

Anonimo ha detto...

sì, credo anch'io che il meglio della poesia di Viviani lo si trovi grazie al suo stile della povertà, della lingua di tutti i giorni (buona per tutti gli usi), in quel volgare che noi tutti usiamo in una fine infinita, una finalità senza fine o una infinita finalità; insomma qui c'è un fine senza finalità (già Kant l'aveva detto, mi pare). Insomma, questa «povertà» che indossa il saio dell'abito francescano, c'è tutto il meglio e tutti i limiti di questa poesia, qui sembra non esserci alcun pentagramma musicale...

A. F.

Anonimo ha detto...

Di Viviani apprezzo l'onestà intellettuale, la poesia e l'umanità.Grazie a Linguaglossa per aver riportato versi di colui che io considero il più grande poeta vivente. E grazie a Viviani per l'amicizia e la generosità. " E se solo dopo aver perso tutto/ fosse possibile vivere/ l'esperienza più intensa, più profonda?".

Luciano Nota

Anonimo ha detto...

@ Luciano Nota

scusatemi ma più leggo e rileggo la poesia di Cesare Viviani, più ho chiara la sensazione che si tratti di una poesia di rango minore. Fin dalla prima opera "Ostrabismo cara" del 1974 era manifesta la brillante intelligenza di Viviani di capire lo spirito dell'epoca che a quel tempo richiedeva di saper flirtare con il significante, e così fece. E lo fece tanto bene che fu subito definito un ottimo lavoro il suo. Ma era in realtà un lavoro di scuola. E anche noioso a rileggerlo oggi. E poi oggi chi leggerebbe quel testo? È illeggibile e noioso.

E passiamo a queste poesie. Mi sembrano come dei lenzuoli elastici che l'autore sposta dove vuole, e qui li allunga e qui li accorcia e qui li sposta... insomma Viviani fa con le frasi quello che vuole: posa tutte le frasi le une attaccate alle altre come vagoni di un tremo passeggeri, pulito e lucidato di fuori, ma se vai a guardare all'interno dei meccanismi delle sue fraseologie ti accorgi che quelle frasi dicono tutto e niente, ma non dicono nulla di significativo perché non c'è niente in quelle frasi che valga la pena di essere detto. Anche gli a-capo sono perfettamente di scuola, sono tutti giusti, cadono al punto giusto, ma sono anche tutti scontati: qui c'è la cesura e qui ce ne è un'altra: tutto previsto. E' una scrittura che non dice granché perché già prevista: dopo che hai letto 3 o 4 poesie hai capito tutto il libro.

Anche la migliore poesia, la prima, quella sul monarca che si sporge su un lato, ebbene, che cosa vuole dire? Nulla, ma non il nulla del vuoto ma il nulla secondo cui la poesia non dice nulla di significativo. E' una scrittura che vuole dare a intendere che non c'è nulla di significativo e di valevole da dire. E allora, mi chiedo io, semplice lettore, perché continuare a scrivere poesie? Perché disturbare il lettore se non lo si ritiene così intelligente da poter capire un testo di poesia?

Mi dispiace contraddire Luciano Nota, io non la penso come lui, io penso invece che Viviani sia un autore del tutto modesto, le sue fraseologie sono davvero piccole cosette se le raffrontiamo ai versi di un Tarkovskij o di Zagajevskij pubblicati su questo blog. So di dire delle cose spiacevoli, di andare contro corrente. So anche di riuscire antipatico. Ma così è.
Credo che i lettori siano d'accordo. Spero.

A. F.

Anonimo ha detto...

scusatemi, ho dimenticato di dire una cosa. Era importante.
Leggo sul giornale di oggi che il cardinale canadese Collins ieri mentre si dirigeva a grandi passi verso la sua auto, parcheggiata nei pressi, guardando il cielo nuvoloso così si è espresso ai giornalisti che gli chiedevano delle previsioni sull'assemblea cardinalizia. Lo cito perché sembra una poesia di Cesare Viviani:

«Oggi è un buon giorno
rispetto a ieri.
Non c'è pioggia,
certo il cielo non è ancora azzurro,
però almeno non diluvia».

Non è il modo di scrivere poesie di Cesare Viviani?

A F.

Anonimo ha detto...

@ A. F.

nell'ambito della poesia che si fa oggi (intendo in questi ultimi anni), cioè una poesia che percorre la logica linguistica della perifrasi e della parafrasi, quella di Cesare Viviani ritengo sia uno dei percorsi più seri e rispettabili.
Questo andava detto.
Detto questo, se andiamo a indagare sugli strumenti retorici e stilistici utilizzati da Viviani in questo tipo di poesia, non possiamo non rilevare tutti i limiti di questa impostazione di poetica: si è così vicini all'empiria dei linguaggi "naturali" che questo linguaggio poetico diventa indistinguibile da essi. E' questo il punto di maggiore vulnerabilità di questo tipo di poesia, che non fa uso di una vastissima gamma di figure retoriche. E' una poesia povera. Nel senso che la poesia diventa "povera". La poesia di Viviani si apre alla infinita serie di approssimazioni, cioè di soluzioni linguistiche approssimative e approssimate: in tal modo questo tipo di poesia mostra tutti i propri limiti: è possibile parlare genericamente di tutto e di tutti, è una poesia di matrice psicanalitica, che ha la sua sorgente e la sua origine nel lettino dello psicanalista.
Ma, ovviamente, c'è un'altra accezione-concezione di linguaggio poetico, si può fare una poesia diversa, completamente diversa. Ma qui siamo già fuori questione.

Luciana Sanguigni

enzo giarmoleo ha detto...

Non mi sembra un problema l'assenza di figure retoriche in una forma di linguaggio che rompe con la forma e assume il linguaggio del quotidiano. Il contrario sarebbe una vera contraddizione. La scelta di perifrasi e parafrasi, della prosopopea o di tutte le figure retoriche disponibili è scelta libera, ma perché una poesia senza l'uso di queste figure retoriche dovrebbe essere considerata povera?
Sono stato in libreria e ho visto su uno scaffale il libro di Viviani. Devo dire che la poesia breve che appare sulla copertina su sfondo bianco acquista leggendola maggiore bellezza.

Ho aperto il libro e a caso ho trovato questa poesia :

Proprio mentre l'infante ogni giorno
ci reclama, piange, grida,
noi siamo contenti perché siamo riusciti,
manovrando con l'elettronica,
a ottenere una funzione in più.

Anonimo ha detto...

"un linguaggio che rompe con la forma e assume il registro quotidiano" enzo