giovedì 28 febbraio 2013

DISCUSSIONE
Come leggere e interpretare la poesia.
Due opinioni a confronto.


Riprendo da qui un commento di Giorgio Linguaglossa e rispondo alle sue tesi. [E.A.]

* Linguaglossa ad Abate

Caro Ennio Abate,
quando dico che dobbiamo leggere e interpretare la poesia tenendoci a distanza da categorie dell'economia come rapporti di produzione e forze produttive e economicistiche come salario e capitale, non intendevo certo fare ritorno a Croce al concetto di poesia=lirica pura; dico soltanto che dobbiamo leggere la poesia come un particolare genere, come dire, una particolare forma di linguaggio, ed è soltanto applicando le categorie del linguaggio che noi possiamo entrare dentro la serratura della poesia e dentro la cassaforte del Moderno. Non occorre la dinamite per far saltare il Moderno ma basta una poesia per cambiare le carte in tavola di ciò che si intende (comunemente e convenzionalmente) per poesia. I «conflitti» in poesia devono potersi rintracciare all'interno del suo dispositivo estetico e poetico, questo voglio dire, e non all'esterno. I conflitti esistono nella forma poetica come «traccia», orma mnestica; e, a volta sono invisibili ad intere epoche. Voglio dire che tanto più alta è la formalizzazione dei testi quanto più in profondità scendono i «conflitti». Insomma, il discorso è complesso e poliedrico e andrebbe inquadrato da differenti punti di vista ermeneutici.

La poesia apre l'impensato al pensiero, frattura l'impensato, ma dice l'impensato tramite le categorie del linguaggio, e quindi è una attività altamente razionale-fantastica. La logica è la grammatica profonda del linguaggio, al di là della sua grammatica concettuale che ne è la sintassi. La metaforologia è quella branca dell'ermeneutica che studia le peculiarità delle metafore. Il linguaggio, qualsiasi linguaggio umano è metaforico e simbolico, e soltanto in ultima istanza e in ordine cronologico-storico è un fatto comunicazionale. La comunicazione è la coda del linguaggio metaforico.


***
* Abate a Linguaglossa

Caro Giorgio Linguaglossa,
credo di non poter condividere la concezione, che intravvedo nelle tue parole, di una poesia che, per così dire, apra, per via metaforica e simbolica, un (per me indefinito) «impensato».
Certo quello della poesia è «una particolare forma di linguaggio» non riducibile a «un fatto comunicazionale». In altri termini, non risponde alle esigenze pratiche del linguaggio comune, quotidiano. Ma linguaggio resta. E di conseguenza - questo mi pare lo sbocco del tuo discorso - non capisco perché dovrebbe rompere i ponti con quello della comunicazione. Né capisco davvero cosa tu intenda dire con la frase: « è soltanto applicando le categorie del linguaggio che noi possiamo entrare dentro la serratura della poesia».
Vuol dire forse che il linguaggio della poesia si capisce solo ricorrendo a categorie linguistiche, come facevano gli strutturalisti negli anni Sessanta?  O che una poesia (un testo) va indagata solo come sistema di  parole  in sé slegato da  quei sistemi di parole (o saperi) di ordine diverso da quello linguistico-letterario, come possono essere  i saperi economici, scientifici, storico-politici, ecc.?
Propendo per il sì, se metto in fila le  riserve che hai espresso nei commenti precedenti  nei confronti di Fortini («Fortini prendeva un abbaglio gigantesco quando riduceva lo spazio per la poesia in quella sottilissima fenditura tra Lavoro e Capitale. Non è questo il modo giusto per porre il problema, che esiste, ma non in questi termini») e il suggerimento-intimazione di sapore vagamente  antimarxista: «dobbiamo leggere e interpretare la poesia tenendoci a distanza da categorie dell'economia come rapporti di produzione e forze produttive e economicistiche come salario e capitale».

Leggendoti, mi è tornato in mente un saggio di Fortini intitolato Opus servile (in Saggi ed epigrammi, pp. 1641-1652, Mondadori, Milano 2003) e sono andato a rileggermelo.
Sì, dice quasi  il contrario di quanto tu sostieni. Senti:

«[…] correlazioni, riscontri, figure metriche, forme significative e figure del discorso letterario, insomma tutti i livelli del cosidetto testo, da quello fonematico a quello ideologico-culturale, sono comprensibili e apprezzabili non solo grazie al loro comporsi in sistema e struttura, ma anche per la relazione e interazione che ognuno di questi elementi stabilisce con qualcosa che testo non è, ossia con quel che chiamiamo “realtà”» (p.1641)

Fortini, dopo aver premesso che «il mondo non è un discorso e la cosa non è una parola» p.1641), ci tiene proprio a sottolineare che «si dà dunque un extratesto o, diciamo, un contesto» e cioè «un “ingenuo” al-di-fuori della poesia e del discorso». Potrei dire: guarda fuori dal testo, non si limita ad applicare esclusivamente «le categorie del linguaggio», come tu proponi.
Poi definisce il termine ‘contesto’: cioè «l’insieme delle circostanze nelle quali il discorso letterario si dà. Oppure, come scriveva anni fa van Dijk, l’insieme delle condizioni, azioni e funzioni, psicologiche, sociologiche, storiche e antropologiche dei testi letterari»(p. 1642).
Respingendo ogni cesura o taglio o rottura tra testo e contesto, egli vuole tenere d’occhio da una parte «l’insieme delle pressioni, delle forze, degli indici, dei vettori che dall’esterno, ossia dal contesto, muovono nel tempo e nel lavoro dell’autore determinando il suo testo» e dall’altra «l’insieme delle pressioni, delle forze, degli indici e dei vettori che dal testo partono per agire verso l’esterno ossia verso il contesto, costituito dai cosiddetti fruitori, dai lettori e ascoltatori di oggi e di domani; e dalle loro attese» (p.1642).

E qui, a proposito di «attese» dei lettori, mi pare che egli  non escluda niente. Neppure quelle attese  - oggi davvero rare - che tendessero a leggere e interpretare la poesia anche partendo da «categorie dell’economia» o da categorie di matrice marxiana, quali rapporti di produzione, forze produttive, salario, capitale, ecc. Che tu invece vuoi - e  ancora non capisco il perché - del tutto espungere.

Ora, su questo, una pausa. Non è che in passato, specie quando era di moda l’applicazione di queste categorie più o meno marxiane o marxiste  in letteratura o in poesia, esse non abbiano prodotto equivoci, danni e interpretazioni rozze. Il che potrebbe giustificare la tua diffidenza.
Ma fu proprio il marxista critico (cioè il critico del marxismo più piatto e scolastico) Franco Fortini il più avvertito di certi rischi e il più ostile agli eccessi del «volgardeterminismo» e del «sociologismo» (p. 1642), che inducevano taluni a sostenere che «nella “cosa” ovvero nel testo non ci sarebbe nulla di più di quanto ci sarebbe stato nelle “cause” ovvero nel contesto» (p.1642). Ed a contrastare ogni facile «messa in parallelo della serie letteraria e di quella sociostorica» (p. 1643). O, detto in altri termini, a condannare, nell’interpretazione della letteratura o della poesia, l’uso meccanicistico e piatto  non solo di categorie dell’economia ma anche di sociologia o di storia tout court.
E in questo scritto lo dice con chiarezza estrema:

«in ogni vera poesia e in ogni grande narrazione sono contenuti elementi che a partire dalla forma verbale del testo mirano a toccare o implicare ambiti extratestuali diversi da quelli che hanno concorso alla sua nascita. Dove “vero” e “grande” stanno a significare precisamente tale aggiunta o diversità, tale venire da un’area più lontana e meno visibile e anche un andare più lontano ossia verso qualcosa di non ancora visibile» (p.1643)

Vuol dire allora, per usare la tua espressione, che «la poesia apre l'impensato al pensiero»?
Non mi pare. Questo tuo «impensato» a Fortini (ma un po’ pure a me) farebbe venire in mente la hegeliana cattiva infinità. E poi resta una differenza sostanziale. Tu dici che «il linguaggio, qualsiasi linguaggio umano è metaforico e simbolico, e soltanto in ultima istanza e in ordine cronologico-storico è un fatto comunicazionale», per cui la comunicazione (l’istanza comunicativa,  basilare per me del linguaggio) si ridurrebbe a semplice «coda del linguaggio metaforico», arrivando così ad enfatizzare (più del dovuto secondo me) il linguaggio metaforico e a svalutare (in poesia) quello comunicativo. Non credo che Fortini avrebbe approvato questa opzione signorile,  questo troppo disinvolto aggiramento della «tensione fra stato signorile e servile e fra “poesia” e “prosa» (p. 1651) ["prosa" sta nel lessico fortiniano per linguaggio comunicativo, nota mia].

Sempre in  questo scritto, infatti, con un complesso di ragionamenti, in cui fa riferimento da una parte a Jakobson e dall’altra alla Fenomenologia dello Spirito di Hegel  e alla dialettica del padrone e del servo, che qui non è conveniente riportare e neppure riassumere, Fortini insiste proprio su un fatto da te trascurato: che «le scritture letterarie appaiono continuamente divise fra una identità “poetica” - che sempre muove verso compiutezza e inviolabilità e, al limite, si fa ecolalia e estasi - e una identità “prosastica” che è ininterrotta esplorazione ed elaborazione dell’incòndito e del non ancora avvenuto e dunque sfida e ricerca» (p. 1649).
E precisa:

«Di solito, per tradizione neoplatonica, si associa il poiéin alla libertà  e il prattein alla necessità; qui [nel saggio che sta scrivendo, nota mia] si vuole invece che ogni lavoro, anche quello “poetico”, sia nell’ordine della necessità e servile e che neppure gli uccelli cantino in “libertà”» (p. 1650).

Egli non s’illude, dunque, sulle astratte potenzialità della poesia. Non  crede neppure che, come tu sostieni, «basta una poesia per cambiare le carte in tavola di ciò che si intende (comunemente e convenzionalmente) per poesia». Non mette da parte la storia, perché  sa che «la stratificazione e l’irrigidimento culturali che preesistono e presiedono a quel che diciamo “testo” si sono prodotti per accumulazione e selezione attraverso lunghi e lunghissimi cicli nel modo di produrre e riprodurre la vita» (p. 1651). E accetta di chiamare «inconscio» quello che tu chiami «impensato». Lo vede però qui, nella società:

«l’inconscio è società dimenticata e di quella società dimenticata (o, per meglio dire, tradotta e mascherata nei termini attuali della società presente) il rapporto padrone-servo [noi potremmo dire dominatori-dominati, nota mia] è momento capitale. Il sui riflesso è visibile nelle correnti ideologie dell’arte e della letteratura, e soprattutto nella favola della poesia come momento signorile dello spirito» (p.1652).

E, allora,posso concordare col  passo in cui dici: 

«I «conflitti» in poesia devono potersi rintracciare all'interno del suo dispositivo estetico e poetico, questo voglio dire, e non all'esterno. I conflitti esistono nella forma poetica come «traccia», orma mnestica; e, a volta sono invisibili ad intere epoche. Voglio dire che tanto più alta è la formalizzazione dei testi quanto più in profondità scendono i «conflitti».

Ma il compito del lettore e del critico della poesia a me pare  inizi proprio qui. Egli, più che “godersi la poesia” che ha inabissato,  attraverso la «formalizzazione», i conflitti, deve - per intenderla a fondo, per capire la sua funzione  ambigua (di occultamento di quei conflitti eppure di riproposizione ad un altro livello più “vero” e “grande”… rileggere sopra il passo citato di p. 1643) - rintracciarli proprio nel testo, nella poesia:

«Perché non tornare a chiederci se i vari gradi delle figure di discorso e di ritmo […], e insomma tutto l’intreccio di “prosa” e di “poesia” in cui viviamo. Non abbia le sue radici - e i suoi fiori - anche in quello che mezzo secolo fa Bertolt Brecht ebbe a chiamare «il secco, “ignobile” lessico / della economia dialettica»» (p.1652).

Certo di questi tempi parrebbe un’indicazione assurda, inattuale e fuori tempo massimo. Ma io non riesco a buttare via una visione così acuta, profonda e critica della poesia.

15 commenti:

Mayoor ha detto...

Il problema interpretativo del testo appartiene al critico quanto al lettore, ma per chi fa-poesia gli stessi problemi sono principalmente di tipo espressivo. Ed è cosa assai diversa in quanto tutte le valutazioni non appartengono al prima o al poi, ma convergono nel farsi del testo. Il contesto e la comunicazione vanno nella direzione del destinatario, ma vengono adottati liberamente dall'autore. Se si mette in dubbio questa sua libertà le direzioni diventano direttive e nessuno sarebbe più libero, ne' dal contesto (a cui apparterrebbero tutte le motivazioni), ne' dal comunicare (in quanto si nega che il linguaggio possa svincolarsi dal collettivo, ma ne farebbe parte o ne sarebbe un derivato). In questo modo si finisce col togliere la poesia al poeta, e al lettore la possibilità di partecipare al farsi (della lettura). Il poeta si occupa d'altro, e questo altro è innumerevole quanto lo sono tutte le singole poesie, ancor più di quanti siano gli autori. Entrare in questo altro è come trovarsi in miniera, in uno scavo archeologico o dentro la psiche di un extraterrestre. Passando lungo strade conosciute nessuno entrerà nell'incerto, nell'ignoto. E la forma non garantisce nulla. Se i metodi della lettura e dell'interpretazione differiscono dai metodi della scrittura ci troveremo innanzi ad un triplice testo. E tutti avranno ragione. D'altra parte se le opere fossero davvero concluse sarebbero morte.

Anonimo ha detto...

La libertà di cui parla - a ragione - Lucio è quella che a suo tempo ha fatto grande un Vittorio Sereni , malgrado il bombardamento ideologico di Fortini che non l'ha mollato per tutta la vita . Ma la libertà non si impara , si possiede , e non sta a sentire nessuno ( pur tenendo conto criticamente delle teorizzazioni altrui ) . Se questa libertà è sorretta dal talento produce poesia "degna di questo nome" , perché personale e riconoscibile . Avviene rarissimamente .

leopoldo attolico -

Ennio Abate ha detto...

A Leopoldo Attolico:

Vedi che nell'amicizia/inimicizia tra Sereni e Fortini la libertà che entrava in gioco non era soltanto quella "sorretta dal talento [...] personale e riconoscibile".
Sereni “godeva” della libertà del medio borghese legato alla Direzione della Mondadori e Fortini della libertà del piccolo borghese, ex PSI, ex olivettiano, consulente einaudiano, ecc.
E in queste due loro libertà entravano anche le precedenti libertà, quelle “godute” in gioventù: in Sereni quella del vitalismo fascista che lo portò a partecipare attivamente alla guerra;
in Fortini quella del giovane Lattes, che vide il padre umiliato e imprigionato dai fascisti e dovette cambiare il suo cognome.
Stiamo attenti a riempire di contenuti reali il concetto (vuoto e astratto) di libertà, se ne vogliamo capire il senso.
E poi quel "bombardamento ideologico" sarà stato reciproco e non unilaterale. Non è che l'ideologia in Sereni non agisse (in modi magari velati) ed è imputabile solo a Fortini. L'ideologia si respira semplicemente vivendo in un dato periodo. Non è che la scegli soltanto. Te la ritrovi senza pensarci anche nei polmoni da scrittore.

Anonimo ha detto...

Capisco e condivido i necessari "distinguo".
Grazie a te .

leopoldo -

giorgio linguaglossa ha detto...

Cari interlocutori del Blog,
quando si parla di Moderno dobbiamo utilizzare le categorie critiche del Moderno, quando si parla di «dispositivo estetico» occorre far riferimento alle categorie di quello che sta dentro il «dispositivo». Questa è correttezza metodologica e storica. Se noi applichiamo a un «dispositivo» categorie che non appartengono a quel «dispositivo», noi facciamo un errore di lettura e di metodo (che si converte in errore di interpretazione).
Certo, io personalmente, pur con tutte le ferraglie del suo marxismo della terza internazionale e post, io preferisco di gran lunga Fortini a Sereni. Sereni è l'inventore del riformismo moderato della poesia italiana, Fortini è un poeta che tenta una poesia che sia dettata da un nuovo dispositivo estetico, pur all'interno dei rapporti di produzione e di forze stilistiche della poesia italiana della sua epoca. Il distinguo è fondamentale, se no noi non capiamo il perché il «riformismo moderato» di sereni è prevalso e quello «nuovo» di Fortini è fallito.
Nella contrapposizione Sereni-Fortini si cela la contrapposizione tra due indirizzi della poesia it. a venire: quello che va verso la piccola borghesia (poi Ceto Medio Mediatico) e quello che «salta» (o vuole saltare) l'ostacolo rappresentato dalla piccola borghesia in fase di consolidamento della propria presenza politica nel paese.
Quando io dico che le categorie di Salario e di Capitale non possono applicarsi alla poesia non faccio un discorso, come dice Abate, «velatamente antimarxista», dico semplicemetne che quella applicazione di quelle categorie al dispositivo estetico della poesia è cosa errata. Quelle sono categorie che debbono restare sullo «sfondo» della storia economica della società it., sono categorie utili alla sociologia della cultura ma non alla interpretazione critica dei testi.
E poi, non è un caso che alla guida della Mondadori ci fosse un Sereni e non un Fortini (di spessore tanto più grande). Sereni era consustanziale con la politica di riformismo moderato della Mondadori dell'epoca. E adesso le cose stanno ancora peggio, secondo me, perché alla poesia it. è venuta a mancare in questi ultimi decenni una visione «riformatrice» della questione poesia; anzi, si ritien da parte di alcuni dirigenti editoriali che la poesia it. goda di ottima salute, la qual cosa è assai infingarda e fasulla, a meno che essi non si riferiscano che a se stessi... la qual cosa rende la cosa perfettamente comprensibile.
Insomma, caro Abate, manca, oggi, nella poesia italiana un fenomeno analogo a quello che nella comunità (intendo il movimento a 5 stelle) si chiama il grillismo...

giorgio linguaglossa ha detto...

...esplorare «la strada sconnessa» dei linguaggi poetici del Dopo il Moderno indica una sfida alla complessità. Come non c’è più una struttura stabile dell’essere così non ci può essere una ontologia immutabile del linguaggio poetico (tantomeno una ontologia del quotidiano); Maffìa accetta il rischio del «mutamento», anzi, ne fa il vero motore del discorso poetico.
Walter Benjamin ne L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, ha posto con estrema chiarezza il problema-base dell’arte nel Moderno: lo sviluppo della tecnica è in relazione di cecità con la «vista». «Nel paese della tecnica – scrive Benjamin – la vista della realtà immediata è diventata una chimera». E questo tipo di relazione tra nuova qualità tecnologica del processo produttivo e capacità di riproducibilità (tecnica) del prodotto, costituisce la cellula germinale e la radice «materiale» di processi generali, anche di quelli astratti e «qualitativi» propri dell’arte. La «riproduzione di massa» delle opere d’arte starebbe in relazione di inferenza con il «carattere di feticcio» dell’arte, con la produzione delle opere d’arte così come delle «funzioni umane». Alla «natura» corrisponderebbe una «seconda natura», che sempre più si distingue dalla prima, che si autogenera dal proprio grembo; questa «seconda natura» è l’emanzipierte Technik, autoemancipatasi dal controllo sociale, negli stessi termini con cui una volta si presentava la «Natura». Così, l’esperienza, ritraendosi dal lavoro manuale, si prepara ad abbandonare la dimora consueta e il sub-jectum (nel senso letterale del termine: ciò che è posto sotto) diventa invisibile, un attore anonimo di una scena che si produce altrove. Nel ciclo produttivo del Moderno si è compiuto un definitivo distacco tra la singola funzione lavorativa e la visione del prodotto finito, tanto più visibile diventa questo momento quanto più invisibile diventa la connessione d’accecamento del soggetto di fronte all’oggetto: il destino della poesia dell’«immediatezza» e della «visibilità» è già segnato, è un destino di di-sparizione dello sguardo, al quale subentra la «cecità». Con la circolazione del prodotto come merce, l’impoverimento dell’esperienza vissuta varca la soglia della produzione e si diffonde, come un morbo, fino a colpire anche quell’attività che chiamiamo produzione artistica. Il «reale» così si sottrae, progressivamente, in una progressiva escalation, alla visione dell’«io», si dà in frammenti e in frantumi. Mentre proprio quella immediatezza e quella visione scompaiono, progressivamente, dalla percezione dell’«io», è lo sguardo dell’«io» che si sottrae alla riconoscibilità. Così la deperibilità dell’immediatezza e della visione dell’«io», contraddistingue anche la sfera dell’oggetto. Il risultato di ciò nella prassi artistica sarebbe la disparizione dell’esperienza auratica dall’arte. Nell’epoca della riproducibilità di tutti gli stili, lo stile precipita nel buco senza fondo della stilizzazione; di qui alla poesia-commento del minimalismo il passo è breve: si può commentare tutto, quindi tutto è poesia. La poesia diventa una merce da ipermarket della cultura mass-mediatizzata.

Anonimo ha detto...

Tra le cartografie della poesia italiana del Novecento, ve n’è una che gode di un prestigio particolare, perché è stata stilata da Gianfranco Contini. La caratteristica essenziale di questa mappa è di essere incentrata su Montale e sulla linea per così dire “elegiaca” che culmina nella sua poesia. Nel segno di questa “lunga fedeltà” all’amico, la mappa si articola attraverso silenzi ed esclusioni (valga per tutti, il silenzio su Penna e Caproni, significativamente assenti dallo Schedario del 1978), emarginazioni (esemplare la stroncatura di Campana e la riduzione “lombarda” di Rebora) e, infine, esplicite graduatorie, in cui la pietra di paragone è, ancora una volta, l’autore degli Ossi di seppia. Una di queste graduatorie riguarda appunto Zanzotto, che la prefazione a Galateo in bosco rubrica senza riserve come “il più importante poeta italiano dopo Montale” (...) Riprendendo un cenno di Montale, che, nella recensione a La Beltà, aveva parlato di “pre-espressione che precede la parola articolata”, di “sinonimi in filastrocca” e “parole che si raggruppano per sole affinità foniche”, la poesia di Zanzotto viene definita nello Schedario nei termini privativi e generici di “smarrimento dell’identità razionale” delle parole, di “balbuzie ed evocazione fonica pura”; quanto alla silhouette “affabile poeta ctonio”, che conclude la prefazione, essa è, nel migliore dei casi, una caricatura. (...)
L’identificazione di una linea elegiaca dominante nella poesia italiana del Novecento, che ha il suo culmine in Montale, è opera di Contini. Di questa paziente strategia, che si svolge coerentemente in una serie di saggi e articoli dal 1933 al 1985, l’esecuzione sommaria di Campana, il ridimensionamento “lombardo” di Rebora e l’ostinato silenzio su Caproni e Penna sono i corollari tattici. In questo implacabile esercizio di fedeltà, il critico non faceva che seguire e portare all’estremo un suggerimento dell’amico, che proprio in Riviere, la poesia che chiude gli Ossi, aveva compendiato nell’impossibilità di “cangiare in inno l’elegia” la lezione – e il limite – della sua poetica. Di qui la conseguenza tratta da Contini: se la poesia di Montale implicava la rinuncia dell’inno, bastava espungere dalla tradizione del Novecento ogni componente innica (o, comunque, antielegiaca) perché quella rinuncia non apparisse più come un limite, ma segnasse l’isoglossa al di là della quale la poesia scadeva in idioma marginale o estraneo vernacolo (...) Contro la riduzione strategica di Contini converrà riprendere l’opposizione proposta da Mengaldo, tra una linea “orfico-sapienziale” (che da Campana conduce a Luzi e a Zanzotto) e una linea cosiddetta “esistenziale”, nella polarità fra una tendenza innica e una tendenza elegiaca, salvo a verificare che esse non si danno mai in assoluta separazione.*

*Giorgio Agamben "Categorie italiane", Laterza, 2010 pp. 96-114

Unknown ha detto...

"....Insomma, caro Abate, manca, oggi, nella poesia italiana un fenomeno analogo a quello che nella comunità (intendo il movimento a 5 stelle) si chiama il grillismo..."


se poesia, e sottoinsieme "poesia.it", è valore o altra forma capitale, non riducibile a semplice rischio/ investimento/merce/forza lavoro..scambio, allora parlare e riparlare di "cetomediomediatico" per poi auspicarsi che alla poesia attuale italiana arrivi la "primavera" grillina, significa non avere potuto, voluto andare fino in fondo all'analisi di come cosa perche sarebbe proprio di questo magma liquido composto anche e soprattutto il "segmento" pentastellato..l'uomo preformattato, sia come scrittore che come lettore(imprenditore, lavoratore, consumatore), l'uomo massa massicciamente presente in quanto TRASVERSALE (come da società mafiosa, dalla quale esportate le relazioni) è il punto di forza anche di ciò che sembra dire "tutti a casa", ma che in realtà non arriva, a un determinato punto della storia, per ridare est-etica laddove i precedenti hanno la grande responsabilità di averla scardinata...piu semplicemnte il nuovo "vanno marchi" grillo parlante poetico arriverebbe, come attualmente sul piano antropologico-politico, per procedere al definitivo immiserimento/svuotamento ma spacciandolo come chissa quale decrescita...la decrescita poetica felice


la domanda sul piano poetico è quindi, a proposito dei mitici "valori" ( che poi si riducono a voto di pancia, tanto come gli affezionati duri e puri del pd e del pdl)se si possa "tatticamente"( e io dico machiavellicamente) appoggiare un eventuale movimento poetico pentastellato sul calcolo che questo, populista o meno che sia, posssa servire a scardinare i paradigmi di una classe dirigente poetica e relativa classe liquida medio mediatica che avrebbe distrutto i buoni e vecchi valori...io dico no e per dirlo mi bastano due argomenti: 1 aver visto altri movimenti precedenti nati per fare reality sull'antiberlusconismo riflesso del tutto identico al berlusconismo; 2 aver cercato di studiare cosa si nasconde (quali potentissime oligarchie politiche culturali economiche finanziarie) dietro le finte rivoluzioni quale anche la primavera (araba ed ora) italiana.

cio ovviamente non esclude la gravissima responsabilità di tutti coloro che, dall'alto del loro ruolo intellettuale politico partitico dirigente, potevano sapere che questa sarebbe stata la definitiva infinita fine.

Ennio Abate ha detto...

A Giorgio Linguaglossa:

1.
Non capisco bene cosa tu intenda per «ferraglie» del marxismo della Terza Internazionale. Forse Zdanov, il “realismo socialista”. Ma in questo caso sei davvero frettoloso e un po’ superficiale se lo attribuisci a Fortini, che l’ha sempre teoricamente e praticamente osteggiato. Basta rileggersi «Verifica dei poteri».

2.
Scrivi:« quando si parla di Moderno dobbiamo utilizzare le categorie critiche del Moderno, quando si parla di «dispositivo estetico» occorre far riferimento alle categorie di quello che sta dentro il «dispositivo». Oppure: « Quando io dico che le categorie di Salario e di Capitale non possono applicarsi alla poesia non faccio un discorso, come dice Abate, «velatamente antimarxista», dico semplicemente che quella applicazione di quelle categorie al dispositivo estetico della poesia è cosa errata. Quelle sono categorie che debbono restare sullo «sfondo» della storia economica della società it., sono categorie utili alla sociologia della cultura ma non alla interpretazione critica dei testi».

Ebbene, a me non pare che un critico letterario, quando applica i suoi concetti per leggere e interpretare i testi li tragga esclusivamente dai testi o dalla loro lettura. Ce li ha già, più o meno elaborati. Fa cioè comunque riferimento a una visione extra-testuale (implicita o esplicita).
«Nulla al di fuori del testo» (Derrida) è stata la regola aurea della interpretazione dei testi degli strutturalisti e dei post-strutturalisti. E Gadamer ha detto:«l’essere che può venir compreso è il linguaggio» (in AA.VV. «Bentornata realtà. Il nuovo realismo in discussione», pag. 142, Einaudi 2012).
Per altri invece si accede ai testi e li si interpreta anche usando gli strumenti della sociologia della cultura o la critica all’ideologia di matrice marxiana. Certo lo si può fare in modi rozzi o in modi sbagliati. E ci sono vari scalini per passare dai concetti al testo esaminato. Non sempre o per principio questa applicazione è errata, come mi pare tu tenda a dire.

3.
«Nel paese della tecnica – scrive Benjamin – la vista della realtà immediata è diventata una chimera».
A me pare oggi un comodo luogo comune. La realtà «immediata» non esaurisce la “realtà”. Benjamin viene troppo spesso usato per abbandonare la ricerca sulla “realtà” (che ad es. le scienze invece continuano a perseguire). Per fortuna questa “fuga dalla realtà” comincia ad essere sempre più decisamente rimessa in discussione. Lo prova proprio il dibattito sul realismo documentato nel libro che ho citato: AA.VV. «Bentornata realtà. Il nuovo realismo in discussione», Einaudi 2012).
Sarebbe bene leggerlo e discuterne anche su questo blog.
Posso concordare sul fatto che il “reale” è sfuggente e in particolare proprio l’«io» fatica ad afferrarlo. Ma a me pare che tu sia troppo precipitoso nel disfartene o nel ritenere che il problema sia ormai superato.

giorgio linguaglossa ha detto...

caro Ennio,
...diciamo che l'atto critico è, per eccellenza, un atto divisorio; chi critica divide, separa, suddivide, per poi riconglomerare in una nuova unità i singoli pezzi di «reale» che ha diviso. Quindi, io considero l'atto critico come un «attraversamento» di un «campo» (nel senso della fisica quantistica).

Il «testo» è simile a un «campo» di esperienze configurate per la lettura e, quindi, per altre esperienze secondarie. L'atto critico, quando è critico, crea quindi un'altra «realtà». Ma la «realtà» è qualcosa che incontra la connessione d'accecamento. La «cecità» è connaturata con il campo di esperienze che definiamo estetico, e non potrebbe essere altrimenti. Ma, visto che Luperini ha dichiarato di voler tornare al «reale», sarebbe bene anche che chi proclama col megafono «Bentornata Realtà», si degni anche di spiegarci che cosa intende per «realtà».
Io invece penso molto semplicemente che parlare di «reale» senza tenere presente l'altro polo della discordia, cioè la «cecità» di chi intende «dichiarare» il «reale», sia un atto di ingenuità filosofica.

Innanzitutto il «reale» va visto fuori dall'ordine proposizionale, al fuori delle categorie della sinonimia e della parafrasi che imperversano oggi nelle scritture poetiche di scuola; la poesia di Cacciatore è la formalizzazione della parafrasi infinita, la tautologia infinita. Che «reale» c'è nella poesia di Cacciatore? È ovvio che poi bisogna scendere dalla nuvole dell'astrazione per vedere di che cosa si parla, che cosa c'è dietro il paravento di certe categorie critiche.

E poi restare attaccato a certe categorie come quella di «reale» è come restare attaccato al tram del desiderio... ma il «reale» corre, muta, diventa «altro»,diventa irriconoscibile, irrappresentabile, indicibile; il «reale» parla, quasi parla, resta muto e cieco, diventa in-visibile. In linea di diritto e di fatto il concetto di «reale» è qualcosa di sfuggente (c'è e non c'è), e di solito viene sbandierato da coloro che vogliono apparire come gli unici detentori del «reale», che lo utilizzano come un vessillo o uno stendardo. Ma noi non siamo così ingenui e sprovveduti da credere che quello che «loro» sbandierano come «reale» sia il «reale» per davvero. Direi che bisogna sempre andare a vedere che cos'è che c'è dietro quella bella parolina (il «reale»), bisogna vedere che cosa designa e che cos'è l'oggetto designato.

E allora l'atto critico non può che essere un «attraversamento» di un «campo» di esperienze linguistiche formalizzate. Che però non coincide con altri attraversamenti di altri lettori critici. E si entra in tensione. E occorre un altro «attraversamento».

giorgio linguaglossa ha detto...

...trascrivo qui l'incipit di un pezzo che avevo scritto come prefazione per un autore che poi ha deciso di non metterlo, forse perché non suonavo il piffero alla sua poesia come oggi è prassi. Comunque, lì affrontavo problemi generali del nostro tempo che mi pare possa essere utile leggere:

«Nell’epoca del declino delle «Grandi narrazioni» è avvenuta la moltiplicazione delle narrazioni in una miriade di racconti miniaturizzati. La «Grande narrazione» si è risolta in una «plurinarrazione», nella narrazione di universi parallattici, tangenziali, paralleli, sghembi. Ha senso chiederci che cosa sia avvenuto del mondo dell’affettività privata, della rammemorazione, del vissuto, e che cosa ne è della categoria primo novecentesca di «rivivibilità» che è stata svuotata dall’avvento della società del presente «attualizzato», dell’eterno presente che ha sostituito l’eterno ritorno di nietzschiana memoria? La modalità, il modus che nella poesia del pre-moderno aveva a che fare con il «soggetto trascendentale», che poi altro non era che il soggetto poetico, è stata sostituita dalla pluralità dei soggetti empirici e dall’egoità dell’attualità liquida. Se ancora in Hölderlin e in Leopardi soggetto trascendentale e soggetto empirico coincidevano, noi oggi possiamo prendere atto che abbiamo accertato con evidenza assoluta che il «soggetto puro», in altri termini, il «soggetto trascendentale» che aveva ancora «coscienza di sé», ha
compiuto oggimai la sua traiettoria storica e concettuale ed ha esaurito la sua funzione.
Riagganciandosi ad Heidegger Vattimo ha parlato di «ontologia del declino», vista come una possibilità aperta che l’io ha di soggiornare e navigare nel mare delle possibilità aperte dalla presa d’atto della fine dei fondamenti e della rovina del senso, del declino della concezione di un’opera d’arte perennemente
immutabile. Della fine della possibilità di un «viaggio» della conoscenza attraverso il «mondo». Vattimo indica, prima di tutto il declino del soggetto, il quale non può più pretendere ad alcuna pretesa di autenticità di contro all’esistentivo in autentico; in seconda istanza «l’inautenticità è la non-verità che necessariamente accompagna e “fonda” la verità come apertura. Che l’esserci si trovi sempre-già originariamente nell’inautenticità (come sosteneva lo Heidegger di Sein und Zeit) significa, per la
prospettiva ontologica successiva, che la verità sorge e si apre sempre, soltanto, in un ambito di nonverità, di epoché, di sospensione e nascondimento».

Oggi che il futurismo è stato superato dalla stragrande velocità di composizione del «reale» mi sembra fuori luogo perorare il bizantinico termine di «reale» come passe partout e manichino spaventapasseri buono per tutti gli usi.
Ogni volta che torna la «realtà» io tocco d'istinto ferro, avverto che qualcuno mi vuole intimorire e menare per il naso.E non ci sto. Mi dispiace. E poi, che cos'è la «realtà», questa balena bianca che più bianca non si può? E perché «bentornata»?
Io so che la sostanza del mio partafogli è magra e che quella di altri furbi è grassa e vegeta e che la «mia» realtà è ben misera a confronto di quella di altri. E allora, come la mettiamo?

Ennio Abate ha detto...

A Giorgio Linguaglossa:

Io non ho sposato le tesi presenti in"Bentornata realtà", sto leggendo il libro.
Mi pongo sempre il compito di accettare, respingere o scegliere alcuni spunti di un dibattito *andando a vedere*; e non per sentito dire o regolandomi esclusivamente sul nome degli autori e sull'idea che di essi mi sono fatta.
Tornerò presto sull'argomento a lettura finita e magari con un post esplicitamente dedicato al tema e proprio partendo dalla tua domanda finale.

Anonimo ha detto...

05.03.2013
da Rita Simonitto

Mi trovo in difficoltà nell’entrare in questa discussione nel senso di far dialogare le tre anime rappresentate dalle posizioni del critico (Linguaglossa, in primis), di quelle del lettore-critico-poeta (Ennio, ad esempio) e quelle mie di interessata alla poesia e scrivente-versi.
Proverò cercando di focalizzarmi sui temi che mi sembrano centrali: uno riguarda ‘il dispositivo’ mentre l’altro riguarda il soggetto (non solo inteso come sub-jectum) e la sua relazione con la realtà; e il nesso con la poesia.

Linguaglossa sostiene: *quando si parla di Moderno dobbiamo utilizzare le categorie critiche del Moderno, quando si parla di «dispositivo estetico» occorre far riferimento alle categorie di quello che sta dentro il «dispositivo». Questa è correttezza metodologica e storica. Se noi applichiamo a un «dispositivo» categorie che non appartengono a quel «dispositivo», noi facciamo un errore di lettura e di metodo (che si converte in errore di interpretazione)*.
Pertanto le “categorie dell’economia” o quelle di *matrice marxiana, quali rapporti di produzione, forze produttive, salario, capitale, ecc.* (Ennio), secondo Linguaglossa *debbono restare sullo «sfondo» della storia economica della società it., sono categorie utili alla sociologia della cultura ma non alla interpretazione critica dei testi*, e da cui, quindi, la poesia dovrebbe tenersi a distanza..

Sono perfettamente d’accordo che vengano rispettati i dispositivi interni che sono specifici di ogni campo del sapere. Certamente questo rispetto può essere più facile per le scienze cosiddette esatte e invece più problematico per quanto concerne le opere artistiche in quanto esse hanno a che fare con la totalità dell’esperienza dell’essere umano dove il testo ed il contesto sono comprensibilmente imbricati. In ogni caso, volenti o nolenti, queste categorie sono già ‘dentro’, fanno parte dell’esperienza di chi parla, scrive o fa ricerca.

Ad esempio, Linguaglossa, in altro commento, segnala che:
* Nel ciclo produttivo del Moderno si è compiuto un definitivo distacco tra la singola funzione lavorativa e la visione del prodotto finito, tanto più visibile diventa questo momento quanto più invisibile diventa la connessione d’accecamento del soggetto di fronte all’oggetto: il destino della poesia dell’«immediatezza» e della «visibilità» è già segnato, è un destino di di-sparizione dello sguardo, al quale subentra la «cecità». Con la circolazione del prodotto come merce, l’impoverimento dell’esperienza vissuta varca la soglia della produzione e si diffonde, come un morbo, fino a colpire anche quell’attività che chiamiamo produzione artistica.*
Egli, nel parlare di tutto ciò, rende esplicito il concetto di “alienazione” che si declina nei vari registri, economico, sociologico e psicologico e, infine artistico. E, senza alcun dubbio, in ognuno di questi registri il concetto di alienazione ha una valenza ‘specifica’, con i suoi specifici codici, e pertanto, non è trasferibile tout court dall’uno all’altro, se non per via di metafora o, per dirla meglio, per via di rappresentazioni fondate sul ‘come se’.
Eppure nel suo discorso viene dato uno statuto di realtà e di generalizzazione ad UNA ‘particolarità’ del Moderno quando si afferma che * si è compiuto un DEFINITIVO DISTACCO tra la singola funzione lavorativa e la visione del prodotto finito*.
Questo passaggio denuncia il trabocchetto dentro il quale l’altro concetto onnicomprensivo della globalizzazione ci fa cadere a piè pari!
Perchè, per alcuni (indovinate chi?) questo distacco è profondo (o definitivo), mentre per altri (indovinate chi?) le cose non stanno proprio così!
Quello che diciamo ce lo diciamo per rappresentarci uno strato di realtà, non tutta la realtà, onde permetterci, attraverso questa rappresentazione di continuare a formulare ipotesi interpretative.
[continua]


Anonimo ha detto...

[continua]
«Nel paese della tecnica – scrive Benjamin – la vista della realtà immediata è diventata una chimera».
Ma questo non accade solo nel paese della tecnica, perché fior di filosofia nei secoli passati si è scontrata interrogandosi sul significato della ‘percezione’ della realtà.
Oppure: *Il «reale» così si sottrae, progressivamente, in una progressiva escalation, alla visione dell’«io», si dà in frammenti e in frantumi*.
Il “reale” non ‘sottrae’ nulla, né si ‘sottrae’; si limita a ‘fare il suo lavoro’, di essere quello che, in un particolare momento storico, ‘è’, dando a questo ‘essere’ una accezione né immanente né trascendente bensì ‘storica’.
Nella nostra esperienza infantile il mondo viene percepito attraverso un continuo processo di frammentazione e di sintesi ma c’è qualcuno (una figura genitoriale) che ci aiuta a portare avanti questo processo di elaborazione, di composizione e di senso.
Se un bambino viene invece mantenuto in uno stato di ‘caos’ e viene persuaso che così ‘veramente’ stanno le cose, viene a mancare la seconda parte del processo.
Quando si afferma *come non c’è più una struttura stabile dell’essere, così non ci può essere una ontologia immutabile del linguaggio poetico…* sembra che quel “non esserci più” faccia presupporre che prima, un tempo addietro, questa “struttura stabile” ci fosse per davvero e non si trattasse invece di una ‘costruzione ipotetica’ funzionale al periodo storico in cui essa veniva formulata.

Allora il problema che si pone non è quello di espungere queste categorie ma di vedere che ruolo giocano all’interno della configurazione culturale del momento di cui si sta parlando, configurazione culturale di cui lo scrittore fa parte.
Pertanto va bene la richiesta di *tenuta a distanza* solo a condizione che il tenere a distanza eviti di far collassare queste categorie dentro il discorso, ovvero ‘renderle reali’, ‘cosificarle’.
Né più né meno di come si dovrebbe evitare di fare anche per le categorie di ‘Moderno’, ‘Novecento’, ecc. come se si trattasse appunto di ‘cose’ anziché di relazioni. (Per Marx, invece, il ‘Capitale’ stesso non è una ‘cosa’, ma un sistema di relazioni).
E’ fin troppo facile sostenere che viviamo in una società in cui il soggetto si è disperso (società liquida), mentre dobbiamo essere in grado di individuare anche le differenze. Come afferma Ennio nella sua risposta ad Attolico: *Stiamo attenti a riempire di contenuti reali il concetto (vuoto e astratto) di libertà, se ne vogliamo capire il senso*).
Altrimenti rischiamo davvero, ma davvero-davvero, di trasformarci in massa di manovra, dove ogni briciola di pensiero è bandita e, come diceva Kierkegaard “ colui che… non ha opinioni di sorta, accoglierà l’opinione stessa della maggioranza e non altra, ovvero, nel caso sia di spirito battagliero, l’opinione della minoranza…”.

Quanto alla poesia, partiamo dalla affermazione *la poesia è una particolare forma di linguaggio*.
Se rimango dentro questa affermazione devo supporre che ci debba essere più o meno implicita una tendenza comunicativa rispondente grosso modo alle domande: chi parla, a chi, perché e come.
Il linguaggio orale, o scritto (poi esistono anche altre forme espressive), è una particolare forma di connessione espressiva che, nel caso dell’essere umano, veicola particolari ‘stati’, ‘condizioni’, mettendo in relazione un emittente con un ricevente e viceversa.
Sarebbe implicita quindi una intenzionalità e l’aspettativa che questa abbia successo. E, proprio in virtù di ciò, le capacità metaforico-simboliche rappresentano, in ordine cronologico-storico, l’auspicabile conquista di un processo sofisticato (e non certo facile) di pensiero che è in grado di trasformare la cosa-grezza esperita in rappresentazione.

[continua]



Anonimo ha detto...

[continua]
Ma, per effettuare questa ‘comunicazione’, non disponiamo già del linguaggio corrente? Non abbiamo la prosa? Perché ricorrere a quella particolare forma linguistica che è la poesia?
Immagino che ciò abbia a che fare con delle caratteristiche specifiche del suo apparato linguistico e che poggiano sui cardini dell’immagine e del ritmo, modalità che vanno a toccare le parti esperenziali più profonde della nostra mente e quindi più facilmente ‘emozionabili’. Quanto alle parole utilizzate, esse vengono dotate di un’aura speciale, carica di significati ambigui che possono rappresentare più aspetti della stessa realtà.
Perché è vero che *la poesia apre l'impensato al pensiero, frattura l'impensato, ma dice l'impensato tramite le categorie del linguaggio, e quindi è una attività altamente razionale-fantastica*.
E fin qui, grosso modo, ci siamo se rimaniamo dentro l’ipotesi ‘comunicativa’.

Ma potrei anche affermare che la poesia sia soltanto un “oggetto linguistico” che ha valore di per sé a prescindere da qualunque relazione comunicativa e da qualsiasi contesto relazionale. E allora senza dubbio si accentua il bisogno di venire definita dall’interno, nei suoi specifici parametri, i “dispositivi”, con il rischio di isolarla dall’esterno in cui è collocata.
Mi viene alla mente Gertrude Stein (primi anni del Novecento) con le sue teorizzazioni sul linguaggio e le sue ricerche sperimentali su di esso attraverso un esautorare le varie parti del discorso poetico, la trama, il verbo, la punteggiatura e, soprattutto, il concetto della ricerca di senso, e quindi di comunicazione, e accentuando, di conseguenza, il divorzio tra significante e significato.
“…navighiamo a vista in una dimensione di assenza di senso, avendo oltrepassato le colonne d'Ercole del bisogno di assegnare a ogni significante il suo significato, verso il mare aperto di un'avventura in cui la lingua è una sorpresa” (N. Fusini. Prefazione a ‘Teneri bottoni’ di G. Stein).
La stessa Stein, in una conferenza del 1934 in America precisava che la poesia si poggiava sul sostantivo, mentre la prosa sul verbo. Ragion per cui il suo famoso “Una rosa/è una rosa/è una rosa/è una rosa” lo chiamò poesia perché aveva “accarezzato e chiamato un sostantivo”.

Poi, a dispetto della poesia così intesa (ovvero della realtà così intesa), la guerra, con le sue tragiche conseguenze, avrebbe fatto scoprire che non si trattava solamente di *accarezzare il sostantivo* (come dire “il sangue, è sangue, è sangue”, oppure “i morti, sono morti, sono morti”), ma che intorno a tutto questo c’erano sì delle connessioni, dei significati orrendi e terribili.
L’”avventura” non riguardava più o soltanto, le sorprendenti capacità della lingua, ma trattava dell’”avventura” tragica dell’essere umano esposto alle più cruente nefandezze al punto che la lingua stessa non avrebbe potuto trovare parola (“E come potevamo noi cantare”, Quasimodo in “Dalle fronde dei salici”).
Ecco. Anche oggi, che siamo dentro in un altro tipo di guerra, molto più subdola perchè mascherata da paludamenti ‘democratici’ e ‘umanitari’, la lingua fa fatica a trovare parola.
Io penso, però, che la poesia potrebbe trovarla proprio per la sua peculiarità di essere in contatto con l’impensabile.
Impensabile che non ha nulla a che vedere con la <<“pre-espressione che precede la parola articolata”, di “sinonimi in filastrocca” e “parole che si raggruppano per sole affinità foniche”>> o con gli <<“smarrimenti dell’identità razionale” delle parole, di “balbuzie ed evocazione fonica pura”>>.
Non ha nemmeno nulla di ‘divino’ o di ‘orfico’: è un pensiero in ‘fieri’ ma del cui ‘essere in atto’, del suo ‘divenire’ non abbiamo sicurezza alcuna.
Così come non ne abbiamo alcuna in merito alla cosiddetta realtà.

[Fine]