lunedì 4 febbraio 2013

Flavio Almerighi,
Poesie.



Ventuno Gennaio 2029


pensa che dilemma
un variété di fogli, ninfee
e militari in libera uscita,
i calci d’alba al mattino
e gli onerosi passi
senza olio né caffè

vorrei salutare ridendo
tutta la pioggia a venire,
invece ho intorno
un’urgenza circondariale
di pianto a lenire
e amorevoli braccia





Ventisei Marzo 1999


non so perché questi filari
sembrino così efficaci
nel lasciarsi attraversare
dall’improvviso rovescio,
stanchezza posa sulle bontà
di un rettilineo intrigante
in Appennino.

Sono tornato col mio fascicolo
sempre pieno di carte a parte
per vedere passanti stanziali
passare ancora e ancora,
circumnavigando un fossato
che porti sempre
alla partenza.

Il caffè conserva
l’aroma polveroso di sempre
la sua parte migliore
melma ancora in fondo alla tazza,
senza che sia possibile
abbassarne il prezzo
o la data di decesso.

Ma' è ramo ubriaco di vento
lasciata tutta notte
a sognare dietro l’uscio,
giocoliera impassibile
che avvia anelli e bandiere
senza che nessuno abbia
facoltà di rotolare a terra.

Un martedì sterile
passa inosservato,
come formazione politica
di recente costituzione,
il tempo addenta
l’appuntamento rinviato
con questo destino.

(da durante il dopocristo, Tempo al Libro Faenza 2008)



La più precisa definizione di andare


è distruzione, noi non vediamo nulla,
nemmeno gli occhi spalancati ai gatti
sulle strade di un dopo guerra infinito,
allora è continuo schiacciare sassi
e sotto intesi, un dormire improvviso,
quando capita, se capita.

Poiché non sappiamo navigare
le nostre stesse lacrime, ecco arrivare
un sorriso – di convenienza,
circostanze in cui abbandono diventa
fertile terreno d’atterraggio per piani
di volo tuttavia mai partiti.

Accompagnamento è lo spartito
nato dalla cattura di lucciole vere,
brillante un momento solo il vetro
ermeticamente chiuso all’esterno.

Non vanno più via, inutili deviati
relitti di una notte insonne, finita
improvvisa in un bagno di sole,
la chiesa stipata fino alla strada.

(a Roberto Roversi,
1956 – 2008)


Questione immobiliare


Non c’è Palazzo
nelle condizioni in cui ti trovi,
come quando dicevi – scopami
e non potevo fare
tutti quei chilometri
in una notte sola,

lo spazio era tutto
insieme di ragionamenti
andati persi,
perché è d’estetica che riempi il cuore
è tutto sia caldo sia freddo
a seconda del mese.

Non avere cura di me,
nel prenderti l’ingresso
fai sparire i sottoscala
che non sono stati miei.



Non si spiega Max


Maggio è passato appena
giugno è bellissimo,
le balaustre profumano
come accappatoi freschi di ragazze.
Voglio essere un meccanico,
c’è bisogno di gente come me
pronta a costruire navi e treni
e riparare torti, purché
niente si butti – non prima
che sia veramente a posto.
Ora andrò al fiume
senz’altra leggerezza
delle mie poche ossa,
vado a ridere, piangere,
indolenzito a bermi l’esistenza
d’apprendista per sempre,
e nel chiudere gli occhi – riaprirli
vedrò un altro fiume
un altro ancora,
e non si spiega.



Treno in galleria


Quando un treno entra in galleria
i poeti perdono la luna,
i telefoni campo,
cambia la canzone
come tutto suonato prima
mutasse di colpo arrangiamento.

Fu un ceramista
- nella sua lingua
a chiarirmi la bellezza
di leggere versi
e quanto inutile scriverne altri.

Lo stesso treno
sbuca improvviso dal monte,
e il sole uno schiaffo.



Paride tra ghiacciai


i passeri razzolano fame
fra coriandoli esangui,
come un buon mattino
il beat di polveri notturne
e occhi appena aperti
- prima smettere,

esumare talento e ricettari,
un’elena nuova cui appendere
ideale, sogno, parole,
un grezzo interminare
che sfrontato ho irriso.

Panico da respiro
interrotto sotto la doccia
e nebbie irte,
lingue morte
qualche paride fa.

[Cristo, era struggente
il veneto sbrinarmi
sotto gli occhi
con l’ultimo Radiohead,
i passeri fuggivano
la pastura d’asfalto
crackers e maree]

(da qui è Lontano, Tempo al Libro Faenza 2010)



Esordiente


Non avere scritto queste poche righe,
averle scritte risparmiando carta e tempo,
dopo aver fatto figli coi miei capelli
cavalcando la voglia di arrivare,
dopo avere scaricato bottiglie vuote
e stivato quelle piene per lubecca
ascoltando dischi vecchi come nuovi,
dopo cinque libri, uno prossimo
uno venturo
osservando ginocchia e lettrici attente,
dopo i lasciti di mia madre
e la post fazione
facendo politica attiva e passiva,
mi sento agli esordi
e tutto questo duole
come le ossa, oggi.



Charlotte Solomon


lascio vestito e mani a una gruccia
il veleno del verme mi ottunde
ha colore simile al sangue, m’inquina

passo su una pavimentazione precisa
progetto affatto mio nei limiti
di tele spente anzitempo

sulla dorsale l’osservatore distratto
m’indica le cose, sarebbero le stesse
anche se non ci fossi

in assennata visione di deserto
io piccola piango,
unica acqua per milioni di miglia

e tutto l’impianto gemendo cresce
nella stanza da letto spretata
dov’è carezze trascorse ancora qui



Il guasto all’anima


la viaggiatrice col libro sulle cosce
lasciata da giorni per strada
compagna di veltri affamati,
ha inoculata altra tossina
pronta a rivivere.

Il guasto all’anima
cova angoli imprendibili,
ho incontrato riserbo
in grandi artisti che
spugne tutto assorbivano.

(Imprestami il nulla,
ti ripago in comode rate d’infedeltà.)

Scrivere non è la banca,
ma tempo gettato a recuperare
tempo perduto.
Pianto di legionario perso
in fondo al mare, ora emerso,
un deserto.



La paga


Qui è tutt’attesa,
la paga
la sala parto, la licenza media

non c’è altro da aspettare
prima di sapere
se la vita s’accorcia.

(da Voce dei miei occhi, Fermenti Roma 2011)



* Flavio Almerighi è nato a Faenza il 21 gennaio 1959. Sue le raccolte di poesia Allegro Improvviso (Ibiskos 1999) Vie di Fuga (Aletti 2002) Amori al tempo del Nasdaq (Aletti 2003) Coscienze di mulini a vento (Gabrieli 2007) durante il dopocristo (Tempo al Libro 2008) qui è Lontano (Tempo al Libro 2010) Voce dei miei occhi (Fermenti editrice 2011) Alcuni suoi pezzi sono stati pubblicati da prestigiose riviste quali Tratti, Prospektiva, Il Foglio Clandestino; viene invitato a far parte di giurie in premi letterari.



2 commenti:

Mayoor ha detto...

Vorrei dire di queste poesie di Almerighi, perché secondo me si meritano dell'affetto. Mi sono sembrate tappe di vita minuziosamente annotate, dove conta la relazione tra l'universo interiore e quello fuori. Queste annotazioni sembra servano a lasciare andare, come se scrivendo uno si rigenerasse. Come dicesse: alla prossima! per poi rituffarsi nel presente. Tutto ciò serve a mantenere desta l'attenzione, anche senza dover ricorrere a metafore o altri stratagemmi. Il tempo è condiviso, l'introspezione non ha porte da scardinare. Complimenti.

Anonimo ha detto...

Sarà forse per l’affinità anagrafica - sono anch'io del '59 - ma a me le poesie di Flavio Almerighi piacciono.
In esse ci leggo l'ansia di un'intera età, con le modalità tipiche di chi, ancora oggi, in un mondo di esperti, non intende salire in cattedra, ma bensì rifiuta un consenso che possa intanto risarcire l’altro dalla indifferenza:

"sulla dorsale l’osservatore distratto
m’indica le cose, sarebbero le stesse
anche se non ci fossi…".

Se, al di là di come vorremmo che fosse, a suo modo il mondo va comunque, si può fare appello alle proprie restanti energie e dissiparle intorno, per attingerne di nuove (Esordiente), per sperimentarsi - quel tanto che basta a sentirsi vivi. Sempre se serve:

“La più precisa definizione di andare

è distruzione, noi non vediamo nulla,
nemmeno gli occhi spalancati ai gatti
sulle strade di un dopo guerra infinito,
allora è continuo schiacciare sassi
e sotto intesi, un dormire improvviso,
quando capita, se capita//…”

Giuseppina Di Leo