martedì 5 febbraio 2013

Natasha Trethewey,
da "Bellocq's Ophelia".


Ho trovato un esempio significativo del rapporto poesia/storia di cui si è discusso nel post di Pietro Peli (qui) nelle poesie di Natasha Trethewey, poetessa afroamericana che lavora sulla relazione tra storia pubblica e storia privata ed esplora l'intreccio di aspetti politici e sociali di un evento storico con l'oggi.  Certo la distanza dagli eventi (rispetto a quelli implicati nel post di Pietro Peli) rende meno spasmodico e scivoloso il lavoro sulla memoria e forse meno scomode le implicazioni sul presente. Ma l'interrogazione sulla difficoltà dell' essere umani di fronte alla pesantezza della storia mi pare simile. [E.A.]

Dalla rivista HEBENON (Nota in Appendice)
Testo e traduzione di Giorgia De Cenzo
Ernest J. Bellocq, fotografo dei primi del '900 fece una serie di fotografie alle prostitute di
Storyville, il quartiere a luci rosse di New Orleans. Natasha Trethewey, ispirata dalle foto
di Bellocq, ha dato voce nelle sue poesie al personaggio immaginario di Ofelia, una delle
prostitute di Storyville, una donna di sangue misto, dalla pelle chiara che narra la sua
storia. Sempre messa in mostra, esposta come una sorta di animale esotico o fenomeno da
baraccone per questa sua duplicità di donna bianca all'apparenza ma dal "sangue nero",
Ofelia ci parla della sua condizione di mistosangue nel Mississippi dei primi del '900, del
suo difficile adattamento alla vita nel bordello e del suo incontro con Bellocq. Bellocq
non solo la fa posare per le sue fotografie, ma le insegna l'arte della fotografia. Attraverso
l'arte fotografica, Ofelia riesce finalmente a ritrovare una nuova libertà, passando dallo
stato di donna-oggetto osservata da occhi esterni (gli sguardi dei clienti del bordello o
l'obiettivo di Bellocq) a quello di osservatrice attiva in grado di esplorare il mondo
esterno e il mondo dell'anima attraverso l'obiettivo della macchina fotografica.
I)
Bellocq's Ophelia
from a photograph, c. a. 1912
In Millais's painting, Ophelia dies faceup,
eyes and mouth open as if caught in the gasp
of her last word or breath, flowers and reeds
growing out of the pond, floating on the surface
around her. The young woman who posed
lay in a bath for hours, shivering,
catching cold, perhaps imagining fish
tangling in her hair or nibbling a dark mole
raised upon her white skin. Ophelia's final gaze
aims skyward, her palms curling open
as ifshe'sjust said, Take me.
l think of her when I see Bellocq' s photograph -
a woman posed on a wicker divan, her hair
spilling over. Around her, flowers -
on a pillow, on a thick carpet. Even
the ravages of this old photograph
bloom like water lilies across her thigh.
How long did she hold there, this other
Ophelia, nameless inmate in Storyville,
Naked, her nipples offered up hard with cold?
The small mound ofher belly, the pale hair
of her pubis - these things - her body
there for the taking. But in her face, a dare.
Staring into the camera, she seems to pull
all movement from her slender limbs
and hold it in her heavy-lidded eyes.
Her body limp as dead Ophelia's,
her lips poised to open, to speak.
I)
La Ofelia di Bellocq
da una fotografia. /912 circa
Nel dipinto di Millais, Ofelia muore a faccia in su
occhi e bocca spalancati come se stesse pronunciando
le sue ultime parole o esalando l'ultimo respiro, fiori e canneti
spuntano dallo stagno, e fluttuano sulla superficie
attorno a lei. La giovane donna che posò
giacque immersa in una vasca per ore, tremando,
raffreddandosi, forse immaginando pesci
intrappolati nei suoi capelli o che mangiucchiavano un neo scuro
comparso sulla sua bianca pelle. L'ultimo sguardo di Ofelia
e' rivolto al cielo, con le mani ripiegate verso l'alto
come se avesse appena detto, Prendimi.
Penso a lei quando guardo le foto di Bellocq -
una donna messa in posa su un divano di vimini, con i capelli
sparsi attorno. Attorno a lei, fiori -
sul cuscino, sul folto tappeto. Persino
i difetti di questa vecchia fotografia risplendono
come gigli d'acqua da una parte all'altra della coscia.
Quanto tempo ha resistito là dentro, quest'altra
Ofelia, abitante senza nome di Storyville,
nuda, i suoi capezzoli esposti, turgidi dal freddo.
La piccola collina del suo ventre, i peli chiari
del pube - queste cose - il suo corpo
lì per essere colto. Ma nel suo volto, una sfida.
Fissando la macchina fotografica, sembra cogliere
ogni movimento delle sue esili membra
e trattenerlo in quegli occhi dalle palpebre pesanti.
Il suo corpo afflosciato come quello di Ofelia morta,
le sue labbra in posa nell' atto di aprirsi, per parlare.
II) Letters from Storyville
March 1911
It troubles me to think that l am suited
for this work - spectacle and fetish -
a pale odalisque. But then I recall
my earliest training - childhood - how
my mother taught me to curtsy and be stili
so that I might please a white man, my father.
For him I leamed to shape my gestures,
practiced expressions on my pliant face.
Later, I took arsenic - tablets I swallowed
to keep me fair, bleached white as stone.
Whiter stili, I am a reversed silhouette
against the black backdrop where I pose, now,
for photographs, a man named Bellocq.
He visits often, buys time only to look
through his lens. It seems I can sit for hours,
suffer the distant eye he trains on me,
lose myself in reverie where I think most
of you: how I was a doli in your hands
as you brushed and plaited my hair, marveling
that the comb - your fingers - could slip through
as if sifting fine white flour. I could lose myself
then, too, my face - each gesture - shifting
to mirror yours as when l' d sit before you, scrubbed
and bright with schooling, my eyebrows raised,
punctuating each new thing you taught. There,
at school, I could escape my other life ofwork:
laundry, flat irons and damp sheets, the bloom
of steam before my face; or picking time,
hunchbacked in the field - a sea of cotton,
white as oblivion - where I would sink
and disappear. Now I face the camera, wait
for the photograph to show me who
I amo
II) da Lettere da Storyville
Marzo 1911
Mi turba pensare che son fatta
per questo lavoro - spettacolo e feticcio-
una pallida odalisca. Ma poi ricordo
la mia istruzione di un tempo -l'infanzia - come
mia madre m'insegnava a fare l'inchino e a starmene
immobile per compiacere un uomo bianco, mio padre.
Per lui imparai a modellare i miei gesti,
provavo nuove espressioni sul mio volto plasmabile.
Poi, presi l'arsenico - ingoiai delle pillole
per mantenermi chiara, bianca scolorita come la pietra.
Più bianca ancora, sono la silhouette rovesciata
sullo sfondo nero dove poso, ora,
per le fotografie, di un uomo di nome Bellocq.
Viene spesso, paga il tempo che gli serve per guardare
attraverso il suo obiettivo. Sembra che io possa star seduta per ore,
e sopportare quell'occhio distante che sposta su di me,
perdermi in fantasticherie, in cui per lo più penso
a te: a come fossi una bambola nelle tue mani
mentre mi spazzolavi e lisciavi i capelli, meravigliandomi
di come i denti del pettine - le tue dita - potessero infilarsi
come se stessero setacciando la farina bianca. Anche allora,
potevo perdermi, il mio viso - ogni gesto - si spostava
mentre sedevo davanti a te per riflettere il tuo, ben lavato
e splendente d'istruzione, le mie sopracciglia s'inarcavano,
soffermandosi su ogni cosa nuova che insegnavi. Lì
a scuola, potevo dimenticare l'altra mia vita fatta di lavoro:
il bucato, i ferri da stiro e le lenzuola umide, l'esplosione
del vapore davanti al viso; o la stagione del raccolto,
ingobbita sui campi - un mare di cotone,
bianco come l'oblio - dove sprofondavo
e svanivo. Ora sono davanti alla macchina fotografica,
aspetto che la fotografia mi mostri chi sono.

October 1911
Just the other day I fancied myself
a club woman, like you,
in my proper street clothes-
a new bow on my white straw hat,
my white linen jacket cleaned
and pressed, a modest bit of gingham
at the collar. So attired, I ventured out,
beyond the confines of the district,
to do my share of good deeds, visit
the sanatorium, a sick sister, her body
invaded by the invisible specter
of our work. Bellocq met me there,
set his camera to this scene: a woman
standing in the middle of the frame,
and off to the right, barely in the picture,
what she might become - the sick one
sleeping, hospital curtain pulled back,
only her face showing, disconnected
from the body she has begun to lose.
To the left, dressing gowns hanging empty
on the do or. And beyond that door,
what you cannot see.
Later, my visit over,
I walked out into bright aftemoon, the sun
harsh, scouring everything - my face
the face a man recognized. (And here
I hesitate to tell you - ) I was escorted
to the police station , guilty of being
where I was not allowed to be, a woman
notoriously abandoned to lewdness.
There, I posed for another lens, suffered
indecencies I cannot bear to describe.
Y ou will not see those photographs -
paint smeared on my face, my hair
loosed and wild - a doppelganger
whose face I loathe but must confront.
I know now that if we choose
to keep any part ofwhat is behind us,
we must take ali of it, hold each moment
up to the light like a photograph -
this picture I send you of my good work,
a modest portrait for my mother,
even my rough image in a police file.
Ottobre 1911
Proprio l'altro giorno, mi sono immaginata
come una donna di società, come te,
con vestiti rispettabili da passeggio -
un nastro nuovo sul mio cappello di paglia bianco,
la mia giacca di lino bianco lavata
e stirata, un modesto pezzetto di percalle
sul colletto. Così agghindata, mi avventurai fuori,
oltre i confini del quartiere,
per fare la mia parte di buone azioni, recar
visita al sanatorio ad una sorella ammalata,
il suo corpo invaso dallo spettro invisibile
del nostro lavoro. Bellocq mi ha incontrata qui,
ha sistemato la sua macchina di fronte a questa scena:
una donna in piedi in mezzo ali 'inquadratura,
e distante sulla destra, a malapena nell'immagine,
ciò che potrebbe diventare - quella malata
che donne, la tenda dell' ospedale tirata indietro,
solo a mostrarne il volto, scollegato
dal corpo che ha cominciato a perdere.
Sulla sinistra, vestaglie vuote appese
alla porta. E oltre quella porta,
ciò che non si può vedere.
Più tardi, finita la visita,
camminai fuori nella luce del luminoso pomeriggio, il sole
pungente, che erode ogni cosa - il mio viso
il viso che un uomo ha riconosciuto.
(E qui esito a dirtelo -) fui scortata
alla stazione di polizia, colpevole di essere
dove non mi era permesso stare, una donna
notoriamente abbandonata alla dissolutezza.
Lì, ho posato per un altro obiettivo, ho sopportato
indecenze che non posso descrivere.
Non vedrai quelle fotografie -
il belletto imbrattato sul mio viso,
i capelli sciolti e scompigliati - un doppio
la cui faccia aborrisco ma che devo affrontare.
Ora so che se scegliamo di conservare
una parte di quel che ci siamo lasciati alle spalle,
dobbiamo prendere il tutto, tenere ogni momento
in alto sotto la luce come in una fotografia -
questa foto che ti mando del mio buon lavoro,
un ritratto modesto per mia madre,
che è pure la mia rozza immagine in un file di polizia.
111) Storyville diary
Naming
En route, October 1910
I cannot now remember the first word
r leamed to write - perhaps it was my name,
Ophelia, in tentative strokes, a banner
slanting across my tablet at school, or inside
the cover of some treasured book. Leaving
my home today, I feel even more the need
for some new words to mark this journey,
like the naming of a child - Queen, Lovely,
Hope
- marking even the humblest beginnings
in the shanties, My own name was a chant
over the washboard, a song to guide me
into sleep. Once, my mother pushed me toward
a white man in our front room.
Your father,
she whispered. He 's the one that named you, girI.
III) da Diario di StoryvilIe
Dare un nome
En route en route, ottobre /9/ ()
Non riesco a ricordar ora la prima parola
che ho imparato a scrivere - forse era il mio nome,
Ofelia, con tratti incerti, un vessillo
rovesciato sulla mia lavagnetta di scuola, o all'interno
della copertina di un qualche libro prezioso. Lasciando
casa oggi, sento ancor più il bisogno
di nuove parole a contrassegnare questo viaggio,
come dare il nome ad un bambino - Regina, Leggiadra,
Speranza, registrando anche i più umili degli esordi
nelle baracche. Il mio nome stesso era un canto
innalzato sul lavatoio, un canto che mi induceva
al sonno. Una volta mia madre mi spinse verso
un uomo bianco alla porta. Tuo padre
sussurrò lei. E' colui che ti ha dato il nome, bambina.
BelIocq
April 1911
There comes a quiet man now to my room -
Papa Bellocq, his camera on his back.
He wants nothing, he says, but to take me
as I would arrange myself, fully clothed -
a brooch at my throat, my white hat angled
just so -
or not, the smooth map of my flesh
awash in afternoon light. In my room
everything's a prop for his composition-
brass spittoon in the corner, the silver
mirror, brush and comb ofmy toilette.
I try to pose as I think he would like - shy
at first, then bolder. l'm not so foolish
That I don't know this photograph we make
will bear the stamp ofhis name, not mine.
Bellocq
Aprile 1911
Entra ora un uomo tranquillo nella mia stanza
Papà Bellocq, macchina fotografica sulla spalla
Non vuole niente, dice, solo scattare fotogrammi
mentre mi sistemo, completamente vestita -
una broche sul collo, il cappello bianco reclinato
proprio così - oppure no, la mappa levigata delle mie carni
appena sfiorate dalla luce del meriggio. Nella mia stanza
ogni cosa diventa un arredo scenico per la sua creazione -
la sputacchiera d'ottone in un angolo, lo specchio
d'argento, la spazzola e il pettine della mia toletta.
Cerco di mettenni in posa come penso che possa piacergli - timida
all'inizio, poi più spavalda. Non sono così stupida
da non sapere che questa fotografia che scattiamo
porterà il marchio del suo nome, non il mio.
Disclosure
January 1912
When Bellocq doesn't like a photograph
he scratches across the plate. But I
know
other ways to obscure a face - paint it
with rouge and powder, shades lighter than skin,
don a black velvet mask. l've learned to keep
my face behind the camera, my lens aimed
at a dream of my own making. What power
I find in transfonning what is real - a room
flushed with light, calculated disarrey.
Today I tried to capture a redbird
perched on the talI hedge. As my shutter fell,
he lifted in flight, a vivid blur above
the clutter just beyond the hedge - garbage,
rats Iicking the insides of broken eggs.
Scoperta
Gennaio 1912
Quando a Bellocq non piace una foto
scalfisce il negativo. Ma conosco
altri modi per offuscare un volto - dipingendolo
di belletto e cipria, ombretti più chiari della pelle,
indossando una maschera di velluto nero. Ho imparato a tenere
il mio volto dietro alla macchina fotografica, il mio obiettivo
mira ad un sogno di mia creazione. Quale potere
provo nel trasformare la realtà - una stanza
immersa di luce, disordine messo in scena.
Oggi ho cercato di catturare un pettirosso
appollaiato in cima all'alta siepe. Allo scatto dell'otturatore,
si è librato in volo, una vivida immagine sfocata nel cielo
il rumore confuso proprio dietro alla siepe - spazzatura,
ratti che leccano l'interno di uova rotte.
Vignette
from a photograph by E.J. Bellocq, c.a. 1912
They pose the portrait outside
the brothel - Bellocq's black scrim,
a chair for her to sit ono She wears
white, a rhinestone choker, fur,
her dark crown ofhair - an elegant image,
one she might send to her mother.
Perhaps the others crowd in behind
Bellocq, awaiting their turns, tremors
of laughter in their white throats.
Maybe Bellocq chats, just a little,
to put her at ease while he waits
for the right rnoment, a look on her face
to keep in a gilded frame, the ornate box
he'Il put her in. Suppose he tells her
about a circus coming to town - monkeys
and organ music, the high trapeze - but then
she ' s no longer listening; she ' s forgotten
he's there. Instead she must be thinking
ofher childhood wonder at seeing
the contortionist in a sideshow - how
he could make himself small, fit
into cramped spaces, his lungs
barely expanding with each tiny breath.
She thinks ofher own shallow breath-
her back straining the stays of a bustier,
the weight of a body pressing her down.
Picture her face now as she realizes
that it must have been harder every year,
that the contortionist, too, must have ached
each night in his tent. This is how
Bellocq takes her, her brow furrowed
as she looks out to the left, past ali of them.
Imagine her a moment later - after
the flash, blinded - stepping out
ofthe frame, wide-eyed, into her life.
Vignetta
da una fotografia di E. J. Bellocq, 1912 circa
Mettono il ritratto fuori del
bordello - il telo nero di Bellocq,
una sedia per lei dove sedersi. È vestita
di bianco, collana di strass, pelliccia,
una corona di capelli scuri - un'immagine elegante,
una che potrebbe inviare a sua madre.
Forse le altre si affollano dietro
a Bellocq, aspettando il loro turno, tremolio
di risa nelle loro gole bianche.
Forse Bellocq chiacchiera, almeno un poco,
per metterla a suo agio mentre aspetta
per il momento giusto, uno sguardo sul suo viso
da tenere in una cornice dorata, la scatola ornata
dove lui la metterà. Supponete che le racconti
di un circo che arriverà in città - scimmie
e musica d'organetto, l'alto trapezio - ma allora lei
non starà più ascoltando; avrà dimenticato
che lui è lì. Invece starà pensando
al suo stupore di bambina alla vista del
contorsionista in uno spettacolo da baraccone-
come riusciva a rimpicciolirsi, ad adattarsi
in spazi ristretti, i suoi polmoni che appena
si espandevano a ogni minuscolo respiro.
Lei pensa al suo stesso breve respiro -
la sua schiena in tensione dentro al corsetto,
il peso di un corpo che la schiaccia giù.
Figuratevi il suo viso ora mentre realizza
che sarebbe stata sempre più dura ogni anno,
che pure il contorsionista sarebbe stato indolenzito
ogni notte nella sua tenda. Così è come
Bellocq la cattura, la fronte solcata
mentre guarda fuori sulla sinistra, oltre tutte loro.
Immaginatela un attimo dopo - dopo
il flash, abbagliata - mentre esce
dall' inquadratura, gli occhi spalancati,
e entra dentro alla sua vita.

*Natasha Trethewey, autrice di tre raccolte di poesie e vincitrice del Premio Pulitzer 2007 per la poesia per la sua collezione “Native Guard”. Oltre alla poesia, è autrice di un libro non-fiction, “Oltre Katrina: Una meditazione sulla costa del golfo del Mississippi”. Ha 46 anni, ed è nata a Gulfport, Mississippi. La sua prima raccolta “Lavoro domestico”, uscita nel 2000, ritraeva i lavoratori neri in un era dei diritti pre-civile

APPENDICE


La Rivista Hebenon
La Rivista è nata, in modo clandestino, nel 1996; la sua fondazione regolare è del 1998. "Hebenon" (ora si scrive "Hebane") è un termine tratto da Shakespeare e indica una pianta erbacea, in italiano "giusquiamo", dai cui semi velenosi si estrae un liquido che, nell'Amleto, versato nell'orecchio caglia il sangue e genera la scabbia. Il significato simbolico è evidente, tanto più che questi semi possono essere mangiati senza danno dai porci.La rivista, semestrale, è, ora, in volumetto 15,5x23, di 182 pagine. La grafica ha subito vari cambiamenti sino alla soluzione attuale che risale all'introduzione della terza serie.
La collaborazione è per accettazione e per invito. I testi creativi vengono pubblicati solo con commento critico di qualche studioso da noi scelto o, eventualmente, accettato. I saggi hanno più possibilità di essere accolti se rispondenti alle nostre proposte.
Privilegiamo saggistica (letteraria, estetica, filosofica), poesia e narrativa. Non pubblichiamo più, dall’inizio della terza serie, testi creativi di autori italiani viventi. Dalla quarta serie, imminente, non pubblicheremo più nemmeno saggi e recensioni su autori italiani viventi.
I testi possono essere in varie lingue. Per ora riusciamo a tradurre dal francese, dall'inglese, dal rumeno, dallo spagnolo, dal ceco, dal finlandese, dal russo, dal tedesco, dall’argentino. Sempre più fitti sono i nostri rapporti con l'estero. Abbiamo organizzato convegni e pubblichiamo quaderni monografici e libri di poesia.

*ALTRE INFORMAZIONI: http://www.hebenon.com/

37 commenti:

Unknown ha detto...

Importante lettura e di ottimo parallelo storico: Certe egemonie da uomo bianco, comprese quelle del colonialismo di inizio secolo, scorso e attuale. Si presenza però un problema "grave", pesante come un macigno sulle spalle di chi infatti dovrebbe saperlo portare, ma in realtà non ce la fa, rotolando comunque dalla stessa parte da cui crede di differenziarsi,addirittura richiamando nelle sue origini quel tanto che basta a sentirsi vicino allo spirito di camus , o straniero, o ancor di piùù: "clandestino". Mi riferisco alla rivista, che in una sfumatura, mi ha fatto cadere le braccia, se non tenessi all'obiettività, mi sarei di conseguenza fatta spegnere il piacere di aver letto questa "Trethewey". Il cascamento è avvenuto a seguito di due fatti concatenati, in cui il primo da cui scaturisce il secondo, risulta ancor piu grave dopo la lettura dle secondo.
Si afferma , con un razzismo di ritorno, che "Non pubblichiamo più, dall’inizio della terza serie, testi creativi di autori italiani viventi. "
Ti aspetteresti da una censura "razzista" di questo tipo, che vi sia stata , visti i "nobili" intenti (da razza dura e pura ) e antiegemonia subculturale di massa ed editoriale, che vi siano reali e profonde motivazioni ad essere "diversi" dai pensieri dell'uomo bianco / occidentale, ovviamente in relazione ai temi/questioni di competenza (letteraria, storica, poetica-politica) . Invece scopri con racapriccio che fra la presentazione e i siti amici, è come essere di fronte al solito ritornello, di spiegazione della storia, e ti chiedi anche - tanto come di fronte a qualsiasi vanna marchi delle vetrine ufficiali di stramercato (pseudo)culturale- se questi alternativi a qualsiasi egemeonia, abbiano capito qualcosa della grande anima del grande Willy, o se erano semplicmente alla ricerca di uno sfizietto per darsi un nome figo.

Unknown ha detto...

rileggendomi credo debba fornire un esempio, ma se ne possono fare altri cliccando fra i siti amici.

basta andare nella pagina della presentazione:
http://www.hebenon.com/presentazione.html

poi ad esempio cliccare :
http://www.mirellafloris.com/
dopodichè qui:
http://www.mirellafloris.com/flash/rivolta/noflyzone.htm

Mayoor ha detto...

Sì, fa un po' ridere (?). Decisamente non siamo nei territori dei Molti (viventi). Le stesse scelte le ha fatte da tempo anche la rivista Kamen. Che io sappia è sempre stato difficile il rapporto tra semplici poetanti e specialisti, in diversa forma è così anche per la Casa della poesia. E' un mondo austero dove non si passa facilmente, lo sanno tutti i poeti. Se questa clausola fosse stata in voga ai tempi di Leopardi, probabilmente di lui non sapremmo nulla.

Unknown ha detto...

:-)))...e a proposito di questo ridere, diciamone un'altra, che è sempre in tema di selezione della "razza" (in cui appunto, come ben dici, l'operatività della clausola non avrebbe solo escluso una cazzona come me o molti come me, ma addirittura lui, il nostro Giacomo). Quella frase sui "viventi" fa un razzismo degno, se vogliamo ridere,a certi film demenziali, ma veri veri, di Mel Brooks fino agli indimenticabili Monty Python.
Cioè in pratica, come da legge derivata dai grandi numeri della grande editoria, certi morti, per svariati motivi di stagionatura/mercato(compres oquello alternativo) pesano più da morti che da vivi a a hah ah ah ah ah (risata come nel film di bellocchio il regista di matrimoni, quando l'amico regista dell'interprete principale, deve fingersi morto, per avere quel riconoscimento che da vivo mai gli avrebbero dato....ah ah ah ah ah ah, risata pirandelliana e non solo)

Ennio Abate ha detto...

Ma parlate un po' anche della poesia pubblicata...
Altrimenti la prossima volta metto una parola a caso e così i commenti vengono fuori lo stesso...

Unknown ha detto...

Non abbiamo parlato di una parola a caso...non è responsabilità nostra che qualcunaltro abbia deciso quel tipo di linea di guerra non casuale.

Se con questo tuo commento vuoi voltare lo sguardo dall'altra parte, commenteresti forme e contenuti di questa poetica completamente avulsi o sganciati dalla pratica di vita e di pensiero che ha fotografato la poesia stessa.

Mayoor ha detto...

Io procederei, anche se non ho molto da dire perché non conosco la poesia di Natasha Trethewey. Mi attengo quindi alla tua premessa, Ennio, circa l'esempio di poesia/storia. La "pesantezza della storia" per me è nella pesantezza del presente. Forse non fa gran differenza, ma temo che assegnando al presente il carico della storia passata ci sarà più difficile osservarne le novità, se è vero che tutto torna ma nulla si ripete. Ma la complicazione è di tipo esistenziale, più che storica e razionale. Credo non sia sbagliato mettere la torva opposizione nell'area del pessimismo, e per riprendere i fili su quanto detto a proposito di Peli, mi sbaglierò ma in questo un po' ci eravamo caduti ( sappiamo che erano "gli anni di piombo" per via della lottarmata, ma il piombo può essere letto anche come metafora, e dio sa se nascostamente non c'era anche una gran voglia di vivere).
Queste poesie di Natasha Trethewey, che trovo bellissime, sono narrative e prive di lirismo, fatto questo che mi pare appartenga ad altre tradizioni più che la nostra. Conviene rifletterci perché forse, volendo dire e ragionare in poesia, la prosa può fare meglio di qualsiasi metafora. Può essere, ma da noi in Italia la poesia prosastica ha generato anche un notevole appiattimento: se non si ha da dire, se la scrittura non ha contatti con la vita ma solo con l'estetica del pensiero, se il poeta non impazzisce. E aggiungo un altro forse: forse non è vero che la poesia debba avere per forza un suo linguaggio specifico riconoscibile, forse possono bastare i paradossi, lo straniamento, l'imprevisto, l'inventiva. Non credo al linguaggio adatto alle circostanze, non in poesia almeno ( se questo è il punto, ma di solito fraintendo).

Mayoor ha detto...

Comunque rò, è anche questione di scelte editoriali. Se Hebenon è destinata alle università estere tutto si spiega: all'estero penseranno certamente che i poeti esordienti abbiano a che fare con il bunga bugna.

Anonimo ha detto...

Di solito alle didascalie preferisco le foto. Ma qui non siamo ad una mostra e le poesie possono dirsi "piacevoli", se non fosse per quel gusto retrò che fa di una donna una bambola da pettinare o buona una sorella che visita la sua parente nel sanatorio. Voglio dire che i cliché occidentali-così duri a morire - sono qui esposti tutti, un'ideologia dello scatto capace di fare della prostituta "un'immagine elegante", un'immagine, appunto, lato A o B, che accolga anche il cliente più timido:

"Cerco di mettermi in posa come penso che possa piacergli - timida
all'inizio, poi più spavalda. Non sono così stupida
da non sapere che questa fotografia che scattiamo
porterà il marchio del suo nome, non il mio."

Sarà, ma a me vengono i brividi.

Ringrazio rò per i siti suggeriti, e che ho visitato... Resto anch'io sconcertata dalla censura della terza serie.
Giuseppina Di Leo

Roberto Bertoldo ha detto...

Signora ro’ (un’altra persona che non si firma in chiaro, ma cosa avete?), lei parla, e “parlare” è un eufemismo, senza conoscere il caso. Dovrebbe leggere la rivista e soprattutto gli editoriali prima di sferrare attacchi così immotivati, forse verrebbe a sapere il perché, dopo aver pubblicato per dieci anni poeti italiani, e soprattutto poeti sconosciuti, ci siamo stancati dell’albagia e petulanza di quelli che non pubblicavamo e a volte anche di quelli che pubblicavamo ma che volevano elogi spropositati. Eravamo inoltre stanchi delle continue richieste di scambi di favore, delle sceneggiate epistolari, degli insulti decifrabili (almeno adesso quelli in lingua straniera non li capisco), quando cercavamo di fare un lavoro continuamente gratuito per gli autori e senza sponsor; in più ci piaceva l’idea di allargare i nostri orizzonti pubblicando anche molti autori stranieri. Così è cambiata la direzione editoriale, anche perché c’erano comunque altre riviste, per di più “amiche” e confinanti, che davano spazio agli autori italiani, come La clessidra, Atelier e Confini.
Restate “sconcertati dalla censura”? Ma questa non è censura, è scelta editoriale. Allora delle riviste che pubblicano solo autori italiani, che si dovrebbe dire? “Razzismo di ritorno”? Ma signora ro’, non le sembra di esagerare? E non guardi i siti amici, se lei ci chiede di inserire il suo noi lo inseriamo senza fiatare, fosse anche un sito hitleriano. Il curatore del sito ha avuto delle richieste e su mia concessione “a prescindere” le ha inserite. Vuole sindacare su questo spirito libertario? Faccia pure, io amo la dialettica delle ideologie, non l’imposizione delle idee. Hebenon non è una rivista di parte, ha fatto solo una scelta di campo, per i motivi sopraddetti, e presenta gli autori in base alle ricerche dei collaboratori, ai quali concede una certa libertà di manovra, data la loro serietà e preparazione.
Noi non abbiamo escluso “Giacomo”, quando l’abbiamo trovato, ma lei l’ha letto il “Giacomo” che abbiamo trovato in quei dieci anni o appartiene alla amplissima schiera di quelli che criticano Hebenon senza averla letta? Se Hebenon ha per lei l’obbligo di cercarlo, il nuovo Leopardi, lei ha l’obbligo di cercare le riviste come Hebenon per vedere se l’hanno trovato. Ad ognuno il suo compito, anche ai lettori. Insomma, io non biasimo le critiche, ben vengano, ma siano di sostanza e magari considerino anche l’impegno disinteressato a favore della letteratura di coloro che le subiscono (siano quindi critiche rispettose).
Infine, non abbiamo mai considerato “cazzoni” gli autori che ci inviavano i testi, piuttosto abbiamo considerato “cazzoni” i molti autori italiani che, in questi ultimi anni dopo la svolta editoriale di Hebenon, hanno continuato ad inviare i loro testi con richiesta di pubblicazione dicendo di seguire da sempre la rivista (è questa bugia ruffiana ad essere ridicola, vista la chiarezza della svolta!) e tutti quegli abbonati che, esaurita la speranza di poter pubblicare su Hebenon, hanno disdetto l’abbonamento. Sapevo bene che questo sarebbe successo, almeno ci siamo liberati dagli egocentrici (si vedano tuttavia su ciò, ribadisco, gli editoriali e magari anche “Azione letteraria”). Chi ama la poesia, dovrebbe amare o almeno leggere anche quella degli altri, non solo la propria.
I “razzisti”, ma io direi i “classisti”, sono coloro che non accettano il confronto, non coloro che hanno idee diverse da quelle che si considerano giuste. Poi se volete fare dell’ironia o del sarcasmo, beh non è che mi dispiaccia, è il miglior modo per non prendersi troppo sul serio. In fondo, molti o pochi, siamo solo cenere futura.
Un cordiale saluto,
Roberto Bertoldo

Unknown ha detto...

Gentile Signor Bertoldo, vediamo di dipanare la questione visto che per intervenire ha dovuto fare una serie di insinuazioni tipiche delle dinamiche di relazioni (rapporti umani sarebbe troppo)in corso di mutazione ad ogni livello, età, classe o razza. Io non ho insinuato mancanze, difetti......ho portato prove dalle vostre stesse parole.

Innanzitutto lei parte con la solita trita e ritrita questione sull'identità, come se quella anagrafica risolvesse qualcosa.Peraltro proprio in un mondo i cui partecipanti dovrebbero avere a cuore solo ed esclusivamente le attività del pensiero e del pensiero nei corpi.

Abbiamo gia dimostrato , detto e ridetto, non risolve nulla perché:
1 ogni navigante potrebbe darsi un 'identita fittizia, che l'altro si beve di nome e cognome reali
2 ma soprattutto non ha alcuna importanza, proprio per chi ne rivendica e insinua dall'assenza , una presenza che quando gli viene fornita, come gia successo fra noi, non viene assolutamente utilizzata.

Lascio inoltre al suo e altrui buon senso, minimale, la valutazione del diverso rischio che corre chi mette nome cognome e ogni pelo anagrafico in rete in qualità di letterato, rispetto a chi, anche semplice bambino, potrà fornire ogni estremo in fase successiva e privata solo a chi riterrà assolutamente affidabile.

2
per quanto riguarda la questione dei cazzoni come me, sappia che non hanno mai avuto bisogno di essere pubblicati, amano in primo luogo le opere altrui e se delle proprie non ne rimangono traccia, non si dimenano come i suoi cazzoni

3
per quanto riguarda la sua insinuazione su Giacomo, lasciamo cadere in una sua personale rivincita, provi a rileggere anche l'ultima battutta di Maayor e facciamo una risata vera, possibilmente non quella formale con cui l'ho letta a conclusione del suo scritto

4
il punto centrale della sua protesta è incredibile, perché siete voi che avete scelto di azzopparvi, con quella frase "razzista" ( e solo in secondo luogo anche classista). Con qualsiasi scritto, che sia poetico o no, politico o no, storico o no, etc etc o di semplce brochure digitale come quella innquestione, si c-o-m-u-u-n-i-c-a. Avete scelto voi di comunicare in quel modo così incompleto e pericolosissimo come ha visto dalle mie contestazioni e non solo le mie. Ma siccome io sono il corpo estraneo al vostro gruppo, è piu facile farne una questione individuale e ristretta alla scema del villaggio . Già mi doveva puzzare la frase "diplomatica" e al contempo "orribile" di Ennio. Ovviamente se avessi saputo premeditare il mio intervento, me ne sarei tenuta ben alla larga. Ma rimane il fatto che :
1
voi avete scelto di comunicare in quel modo così azzoppato di ogni altra motivazione, giusta o sbagliata, ma che come da suo intervento successsivo fornisce qualche traccia (il)logica;
2
chi fa il vostro "mestiere", così come per altri simili, spesso si nasconde dietro lo scudo della gratuità che però si scolla fra quella formale e quella sostanziale. Vi sono degli oneri per ogni mestiere, e sicuramente quello da lei esposto sui relativi "narcisi" , è un notevole fardello, ma fa parte del mestiere stesso . Voler escludere questo onere, oltre che farle perdere tempo con cazzoni di altro tipo come, va a discapito di certi contenuti non solo di uguaglianza, ma altamente politici, non meramente nazionalistici sia ben chiaro, sostenuti anche da questo sito. Non concordare su questo passo, significa non voler essere consapevoli, anche delal derivata ironica, e drammaticamente vera, rilevata da Maayor per cui gli italiani sarebbero solo buoni di "evolvere" da spaghetti e mandolino a bunga bunga e Imu.

Non cordialmente la saluto, perché come l'azzurro hanno sfasciato il bellissimo suono anche di cordiale..buona giornata.

Anonimo ha detto...

Come Giuseppina anch'io rabbrividisco, ma provo grande ammirazione verso questo tipo di poesia descrittiva e molto toccante. Per quanto riguarda la storia , tutte le grandi poesie sono storia perchè se non lo fossero non avrebbero potuto nascere, intendo dire che ogni poeta appartiene alla sua storia, per questo il nuovo non potrà, per il momento dire altro di ciò che è stato detto, manca la fiducia nel cambiamento ,scrivere del bieco cinismo forse potrà dare alla poesia il senso più alto, lasciando nei lettori il colpo, la freccia, che potrebbe scuotere qualche animo. Per quanto riguarda la poetessa in questione: m'inchino. Emy

Mayoor ha detto...

Non c'è nulla di male nel fatto che una rivista scelga di darsi un respiro internazionale, anzi, trovo che sia una scelta impegnativa perché comporta un impegno culturale che non potrà essere solo di facciata. Se ben fatto nessuno penserà all'Italia spaghetti mandolino, grazie al cielo l'Italia non ha ancora degenerato la propria immagine culturale malgrado gli sforzi del pagliaccetto che stava in poltrona fino a qualche mese fa. Però ironie e polemiche un po' se li merita il frettoloso copincolla.

Anonimo ha detto...

L'occhio del tempo ci guarda
lo smarrimento non ha senso
al suo sguardo, ci rimettiamo
a posto magari con la ginnastica
rompendo le rughe col botulino
regalando ai figli il primo computer
Giace nell'angolo una palla rossa
sempre più sgonfia sempre meno rossa
Non s'alza neanche il cane a farci la festa
non serve farti sentire padrone,
figurati il padre!
La madre nè tace nè acconsente
guarda il tempo che scorre
la lasagna nella scatola di plastica
ora nel forno fa bolle da schifo
ma si mangia come una volta
muovendo la bocca
ingoiando quel che il convento ci passa
Non scorie nè freddo nè buio
sarà la nostra fine
sempre più vicino il tintinnìo
della lampadina di Fortini
sempre più lontano il fuoco
l'ardore, di corsa forse alla fine
lo potremo guardare, scaldarci,
il tempo padrone farà qualcosa per noi
un regalo o un danno per riuscire
a scalfire quel grumo di noi
il fluire del pensiero, l'alzarsi
nel mondo che spara ancora al nemico
per un pugno di soldi.

EMY

Anonimo ha detto...

Chiunque gestisca un indirizzo di posta aperto a ricevere testi in lettura sa quanto assillante e volgare riesca a farsi la questua. Dare un taglio e riconfigurare il proprio impegno -anche editoriale, come nel caso di Hebenon- diventa una necessita' per sopravvivere. Saluti a tutti. Giuseppe Cornacchia

Ennio Abate ha detto...


A rò

Le considerazioni di Bertoldo sono pacate e ragionevoli. Fornisce spiegazioni delle scelte fatte da Hebenon e richiama un quadro purtroppo desolante di quelli che sono i rapporti nel ”mondo letterario” e più precisamente tra  singoli poeti o aspiranti poeti e qualsiasi “punto organizzato” (rivista, blog, casa editrice) dove, come mi è capitato di scrivere in una poesia *quali colombe dal disio chiamate?/No, come gocce d’ignote bufere/ alle vetrate….premono molti scriventi*.
Hebenon ha fatto una scelta editoriale drastica, discutibile se vuoi.  Non capisco, però, neppure io perché tu abbia tirato fuori il termine “razzismo”. Si possono fare scelte meno severe (motivandole), ma scelte si devono fare.
E si fanno. Le fai anche tu quando dici che, per non correre il rischio di «chi mette nome cognome e ogni pelo anagrafico in rete» decidi di « fornire ogni estremo in fase successiva e privata solo a chi riterrà assolutamente affidabile.». Chi ti potrebbe accusare, per questo, di “razzismo”? Perché,  se è vero che «con qualsiasi scritto, che sia poetico o no, politico o no, storico o no, etc etc o di semplice brochure digitale come quella in questione, si c-o-m-u-u-n-i-c-a.», sappiamo che si può trattare anche di *falsa* comunicazione (di *falsa libertà*) e che i testi vanno letti e interpretati per capire appunto *cosa comunicano* e *come lo comunicano*. E come I testi possono distorcere la “realtà”, l’interpretazione (di chi li legge) può anche distorcere il senso di quello scritto o di quel testo.
Dove poi vedi « puzzare la frase "diplomatica" e al contempo "orribile" di Ennio», dovresti chiederti una volta tanto se la puzza c’è davvero nella mia frase o nel tuo naso. E aggiungo che non si tratta di «premeditare» gli interventi sul blog o altrove (cosa che, se significasse riflettere  di più prima di  pubblicare è ancora azione giustamente selettiva e positiva…), ma di ragionare con l’interlocutore  e di adeguarsi al suo tono, che nel caso di Bertoldo - ripeto - mi pare pacato e aperto.

Ennio Abate ha detto...

a Emy

Pongo un problema: questa poesia c'entra col post?
Il riferimento alla poesia di Fortini ( "tintinnio/ della lampadina di Fortini") lo colgo io, perché ieri sera alla presentazione di POLISCRITTURE n.9 alla Libreria di Via Tadino a Milano l'abbiamo letta e commentata (la copio sotto), ma qui che c'entra?
Non era meglio metterla almeno nel post riferito alla presentazione di quella rivista con un breve cappello introduttivo?
Non voglio censurare, ma lo spazio dei commenti sia dedicato ai commenti sul tema del post.


*
La lampadina fulminata
Franco Fortini

Qualcosa tintinna
nel vuoto, qualcosa
si è rotto.

Il filo rovente
che spento ora oscilla
non vedi

ma senti e un ronzio
si ostina se scuoto
nel buio

quel filo che più
non brilla e che fu
tuo, mio.


Anonimo ha detto...

La certezza di Ennio che la mia poesia non c'entri col post non mi trova assolutamente d'accordo , storia pubblica e privata le ho espresse a modo mio, e tu , Ennio, perchè ti sei sentito in dovere di evidenziare la poesia di Fortini? Qualcuno magari si sarebbe chiesto il perchè della mia citazione, avrebbe fatto delle ricerche...già...cose di poca mportanza, prive di polemica... Emy

Ennio Abate ha detto...

A Emy

"La certezza di Ennio..."
Io ho fatto una domanda. E poi, anche se la tua poesia trattasse di storia pubblica e privata, ti pare un commento al testo della Trethewey?
Il mio invito è a commentare il testo del post, a pronunciarsi su di esso. E di solito lo si fa in prosa, senza scomodare il linguaggio poetico.
Certo un testo può suscitare un'associazione con poesie da noi scritte di recente o in passato ma, se questo legame esistesse, va anche detto perché è così indispensabile farlo presente mentre parliamo ( o si dovrebbe parlare) della Trethewey.
Altrimenti rischiamo di fare come certi turisti che si fanno fotografare davanti a certi monumenti.
Vogliono attirare l'attenzione sul monumento o su di sé?
Questa ambiguità mi pare affiori in vari commenti.
E' un problema. E me la sono sentita di porlo.

Anonimo ha detto...

A Ennio:

"E' un problema" ? Esprimersi in versi è un problema? Per fortuna mia non sono la sola a farlo , e poi ..."attirare l'attenzione su di sè...daiii Ennio! E poi in questo caso visto che mi paragoni ad una turista , qual'è il monumento??? Emy

Ennio Abate ha detto...

A Emy:

Tu mangi i cavoli a merenda? Quando vai dal fruttivendolo e chiedi il prezzo della lattuga lo chiedi in versi?
Quando dialoghiamo o commentiamo su questo blog di solito usiamo la prosa. Perché lo facciamo?
Tu stessa mi stai rispondendo in prosa, non in versi.
Ecco, stare al tema del post, stare al genere (prosa dialogica)che di solito si adotta quando si commenta mi pare meglio che spostare l'attenzione su altro.

Anonimo ha detto...

Prosa dialogica. OK. Emy

Unknown ha detto...

Ennio , se volevi dimostrare la tua abilità a prendere i miei argomenti e farli tuoi per rivolgermi contro, ci sei riuscito. Tuttavia non significa che quanto di tuo originale sia emerso sullla questione centrale che ho sollevato, in modo da arricchirsi con diverse posizioni e argomenti. Stai tranquillo che nessuno voleva mettere in dubbio competenza e apertura , tua e altrui, compresa quella del Signor Bertoldo.

Per la "pacatezza" direi di non richiamarla troppo, essendo suono alquanto veltroniano, ma soprattutto anche un bel po' contrario a quanto sostieni e a cui t'appoggi su vis polemica, tenzone, fioretti e tutto il cucuzzaro di strumenti a cui t'appelli quando fai le tue critiche.

Per quanto riguarda l' "adeguarsi" così come tu o Bertoldo o chiunque altro non deve adeguarsi al mio esprimere, spero che la stessa uguaglianza, valga in entramebe le direzioni.

saluti.

Anonimo ha detto...

A Roberto Bertoldo:
Nulla da eccepire in merito alle motivazioni che hanno portato la rivista a fare delle scelte ben precise, se tanto ne chiarisce le motivazioni. Magari le stesse cose potevano esser sinteticamente dette nella premessa, al posto di un tassativo quanto generico "Non pubblichiamo più...", in quanto davvero non si era compreso per quale ragione a NON passare sono "autori italiani viventi".

Infine, rivendico la paternità dell'affermazione "sconcertata dalla censura" giusto perché l'ho scritta io e non rò.
Giuseppina Di Leo

Ennio Abate ha detto...

A rò

Mica Veltroni privatizza anche il linguaggio e io non posso usare più il termine 'pacatezza' perché l'ha usato lui!
Né mi voglio ridurre alla vis polemica come regola aurea. Pacatezza dialoga con pacatezza. Vis polemica (mia) con vis polemica (tua). E possibilmente su cose serie. Pacato con i pacati e le pacate. Polemico con i polemici e le polemiche.
Alla prossima.

giorgio linguaglossa ha detto...

mi sembra che la tematizzazione del tema messa in atto da Natasha Tretheway sia la cosa più importante, quella da sottolineare; voglio dire che la forbitezza dello stile, il nitore della prosodia del verso inglese (ben reso in italiano) sono tutti elementi che scaturiscono da un atto di "avvicinamento" al "reale". Qui c'è un Doppio: il "reale" e il "fotografo" che intende replicarlo, farne un duplicato: la poesia si dipana da questa invenzione molto semplice e molto antica qual è quello di fare poi delle poesie a far luogo da queste fotografie. Ma già le "fotografie" sono delle operazioni di raddoppiamento della realtà, non sono il "reale". Questo è il primo punto fondamentale. Il secondo punto (che passa quasi inosservato), è l'astuzia da posizione della poetessa americana che introduce un ulteriore "raddoppiamento": l'autore fa poesia a partire da un raddoppiamento già dato. La procedura del poetico adotta qui un moltiplicatore del "reale" per raggiungere il "reale", è questa l'astuzia da posizione della Tretheway. È un esempio eloquente di quello che vado dicendo quando ciancio di operazioni che fanno una "tematizzazione del tema", terminologia astrusa, lo so, ma che indica un concetto molto semplice: che una cosa è scrivere una raccolta di poesie di "occasione" tenute insieme da un filo (come un altro), altra cosa è fare poesie su un preciso progetto, su una cognizione del "reale": che cos'è il "reale" che noi andiamo ad interrogare? È ovvio che al più grande poeta dell'epoca sperimentale come Zanzotto, questa domanda resta ignota; voglio dire che alla cultura dello sperimentalismo italiano resta ignota e ignorata la grande questione della poesia del modernismo europeo di che cosa sia il "reale" e di come elaborarlo in poesia. Ma questo semplicissimo problema (intendo che cos'è il "reale"?) resta ignoto anche ad un autore neoclassico e neometrico come Giuseppe Conte (il quale dà per scontato che si possa fare una poesia a partire dallo stabilimento del "mito").
E allora non resta altro da fare che rimeditare su poeti come la Tretheway che ci pongono davanti ad una poesia che si interroga e si chiede: che cos'è il "reale"?
Domanda inquietante ma senza la quale non si può fare una poesia di livello europeo (e neanche nazionale, credo).

Roberto Bertoldo ha detto...

Gent. Giuseppina Di Leo,
quanto è stato pubblicato non l’abbiamo inviato noi ma è stato ripreso dall’ultimo numero della rivista e dal nostro sito chiedendoci l’autorizzazione, non era in predicato l’analisi di Hebenon ma della poetessa in questione, altrimenti senz’altro se avessi saputo che si sarebbe parlato della rivista avrei quantomeno riportato l’editoriale in oggetto, che ora allego per conoscenza.
Vorrei anche aggiungere che Hebenon è vero che non pubblica più testi creativi di scrittori italiani viventi e saggi su di loro per evitare ai collaboratori di essere assorbiti dal disdicevole clima clientelare dominante, ma pubblica testi critici di italiani giovani, spesso alle prime armi, e non evita di assumersi la responsabilità, quando è il caso, di rifiutare saggi di noti critici o docenti universitari. Non siamo quindi sulla sponda del potere, perlomeno di quello ufficiale, ma piuttosto siamo forse l’unica rivista (anche) universitaria gestita, e in modo decisamente dilettantesco, al di fuori delle università.
La ringrazio per il garbo dei suoi interventi,
Roberto Bertoldo

PS (per tutti). Amo la pacatezza non perché sia un uomo remissivo ma perché ho mangiato tanta “merda” nella mia vita che non voglio farla mangiare al mio prossimo.


Roberto Bertoldo ha detto...

Fenomenologia del mondo letterario
[Editoriale introduttivo della quarta serie (novembre 2008)
di Roberto Bertoldo]

Hebenon inizia la quarta serie. Ho deciso di ricominciare di nuovo daccapo perché non ero fiero di quanto si stava facendo. Non ero fiero di servire un popolo di letterati opportunisti e presuntuosi. In una rivista a metterci la faccia è il direttore, anche qualora a sbagliare siano i suoi collaboratori, e dunque è giusto che il direttore protegga ciò che dirige. Il mondo editoriale italiano è allo sfacelo, mancano gli intellettuali capaci di reagire con coraggio al dilagante servilismo degli scrittori e dei critici e alla sfacciataggine degli editori, che spesso entrano nel mondo letterario come squali illetterati. Uomini insulsi si arrogano il diritto di essere scrittori e portano nella letteratura, che dovrebbe preservare i valori umani per metterli al servizio della giustizia e della bellezza, i metodi dei faccendieri e degli arrivisti. Ho visto scrittori criticare i comportamenti disonesti di coloro che gestiscono i premi e le pagine culturali dei quotidiani e comportarsi poi allo stesso modo alla prima occasione. Ho letto antologie confezionate a misura in cui gli autori, famosi o meno (esempio Antonio Riccardi o Roberto Pasanisi, Maurizio Cucchi o Ciro Vitiello), si autoinserivano, spesso a fianco di altri autori illustri da venerare indipendentemente dal loro effettivo valore. Ma il potere dell’apparenza si nutre proprio degli inchini dei pusillanimi e dell’incompetenza dei critici e dei lettori, e basta che una nullità professorale s’abbellisca di una residenza in qualche università straniera perché perori la propria causa al di là della terra patria, divenendo il setaccio della nostra scrittura per intellettuali stranieri parimenti idioti.
Come siamo caduti in basso. E se non c’è da parte di chi detiene questo maledetto potere la serietà di ribellarsi sfruttando la propria visibilità contro il clientelismo della cultura, ci vuole allora una forma più dura di lotta. Se persone come Sergio Givone, Gianni Vattimo, Nico Orengo, Maurizio Cucchi, ecc., assurte per meriti personali o conoscenze al ruolo di potenti, non si decidono a reagire contro il sistema dell’aurea mediocritas emotiva e mentale, allora siamo costretti a reagire di persona, e io esorto i pochi scrittori onesti e seri a tirarsi su le maniche e a fare a cazzotti per il bene della loro letteratura, con la coscienza che essa ha ancora una funzione culturale, e dunque sociale, importante, direi cardinale.
Il passato recente ci ha dato scrittori di successo senza nerbo e senza dignità letteraria, ossia senza quella profondità capace di ravvivare lo stile della scrittura. Personalità come Raboni, Fortini, Zanzotto fanno il paio con Cucchi, Loi, Erba. Quando uno scrittore comincia a guardarsi allo specchio e a sorridersi, credendosi il più bello del reame, e smette di guardarsi attorno per paura di trovare qualcuno più bello di lui, è finito, venduto a se stesso, dannoso.
Non c’è nulla di male che scrittori chiaramente da palcoscenico come Faletti e Follet siano sulla bocca e sul comodino di molti, non ho nulla da ridire circa lo spazio mediatico concesso a chi non viene considerato appartenente alla letteratura, ma lo spazio letterario – sí, “letterario” – che viene dato oggi a scrittori superficiali come Mancinelli, Tamaro, Capriolo, Nove, addirittura Moccia, è risibile. (...)

Roberto Bertoldo ha detto...

(...) Ebbene, ora Hebenon, che da qualche anno ha deciso di evitare la produzione letteraria italiana dei contemporanei, non vuole più sprecare soldi e tempo neppure a recensirli gli scrittori italiani viventi, che in genere si costruiscono il proprio mausoleo pensando così di infinocchiare i posteri. Ma i posteri sapranno che noi non ci siamo schierati e si chiederanno la ragione del nostro disgusto e chissà che riescano a riconoscere la vacuità di quel mercanteggiare che si chiama, pomposamente, LETTERATURA ITALIANA.

[L’editoriale ha ricevuto anche qualche critica, giustamente. Per un chiarimento si può leggere http://www.poesia2punto0.com/2012/01/11/mappature-hebenon-la-rivista/

Mayoor ha detto...

L'arringa è convincente, e per quel che mi riguarda o che posso saperne, per i nomi fatti è anche condivisibile. Il fatto è che questo blog è seguito, mi pare, in buona parte da persone (poeti e lettori) che stanno ben oltre la soglia dell'invisibile. Per questi, per me, contano anche i risvolti didattici e ogni accurata spiegazione è benvenuta.

giorgio linguaglossa ha detto...

a Roberto Bertoldo
sulla decisione di Bertoldo di non pubblicare sulla rivista Hebenon testi poetici e critici di autori italiani che si incensano a vicenda secondo una prassi tanto squallida quanto callida, DICHIARO IL MIO ACCORDO COMPLETO.
Il pericolo però è dato dal fatto che così facendo gli intellettuali che adottano questo principio regolatore rischiano di essere posti ai margini, anzi, rischiano di essere estromessi dalla pubblicazione presso le grandi case editrici le quali, è noto, sono dirette e eterodirette da quei medesimi squallidi personaggi avverso i quali sono rivolti gli strali di chi adotta il punto di Bertoldo.
Io stesso, in qualità di critico, ho dovuto subire (e subisco) l'ostracismo della moltitudine alla quale non ho rivolto la mia attenzione critica compiacente, di più, c'è chi si è vantato publicamente «tanto Linguaglossa è un isolato e la sua voce non conta niente». Ormai la voce di questi mediocri si è fatta tanto arrogante da permettersi di passare allo scherno e all'invettiva, in quanto spalleggiati da mediocri letterati che stanno in posizione dominante presso le case editrici e gli uffici stampa dei quotidiani.
E mi chiedo: tra 50 anni chi resterà degli autori contemporanei che oggi hanno visibilità? ve lo dico io: nessuno, sono tutti pigmei della pseudo poesia.

Ennio Abate ha detto...

Oddio, Fortini tra gli scrittori "senza nerbo e senza dignità letteraria"?

E' come una schioppettata sul n. 9 di POLISCRITTURE che gli abbiamo dedicato.
Roberto, ho capito male? Dobbiamo mandare al macero tutte le copie appena stampate?

Flavio Villani ha detto...

Benché alcune delle affermazioni riportate nell'editoriale di Bertoldo possano essere condivisibili (il sistema dell'editoria italiana è profondamente malato, e mi pare ci sia poco da discutere in merito), mettere tutti sullo stesso piano, autori della "letteratura" popolare e autori con ambizioni più propriamente letterarie, non sia opera di chiarificazione, bensì un confondere i termini del problema, un sollevare nebbie che rendono indistinguibile ciò che invece andrebbe ben distinto (e magari poi criticato, se il caso). Se non si vuole fare pura opera di demolizione, qualche distinguo per me andrebbe fatto, altrimenti certe invettive rischiano di diventare un ululare alla luna che ha tanta credibilità quanta quella di chi si vorrebbe criticare.
Quanto a non voler più pubblicare autori italiani viventi, trattasi di scelta editoriale, condivisibile o meno poco importa. Parlando in senso generale, le scelte editoriali dovrebbero essere giudicati dai fruitori, i fantomatici lettori (dicono che ne siano rimasti pochi, ma se li si tratta a pesci in faccia presto saranno ancora meno...), di cui, a quanto pare, a nessuno frega un gran che; ai due estremi, o perché li si ritiene incapaci di intendere e di volere o perché li si vede come pura massa indefinita di consumatori. E forse i due estremi alla fine si toccano.
Ciao
Flavio

Unknown ha detto...

E' tanto tanto triste che nessuno abbia preso parola nella mano mettendola sulla tua,Flavio.. o meglio a fianco della parola contenuta in questo tuo intervento.

Hai centrato il preciso e pesantissimo fardello di tutta tutta la Storia , duqneu della Storia della "cultura" in essa contenuta, dunque del suo fallimento.

E' come al solito. Se non reciti per gli uni, per gli altri, per gli opposti , i concordi e gli altri ancora, rimani molto piu che pacatamente, ineluttabilmente, solo. Pertanto , per quel che può valere come piccolo sollievo , ti mando un forte abbraccio.rò

Anonimo ha detto...

a Roberto Bertoldo,
La ringrazio per le sue parole.

Giuseppina Di Leo

Ennio Abate ha detto...

Riscrivo qui in attesa di risposta:

Ennio Abate07 febbraio 2013 19:27

Oddio, Fortini tra gli scrittori "senza nerbo e senza dignità letteraria"?

E' come una schioppettata sul n. 9 di POLISCRITTURE che gli abbiamo dedicato.
Roberto, ho capito male? Dobbiamo mandare al macero tutte le copie appena stampate?

Roberto Bertoldo ha detto...

Caro Ennio,
hai fatto bene a ribadire la richiesta perché in effetti dov’era non l’avevo vista.
Purtroppo, come già dissi ad altri, quello fu un mio errore nell’uso della frase “fanno il paio”, che volevo intendere in modo sarcastico per evidenziare la differenza culturale tra i due gruppi e il graduale peggiorare della situazione. Tra l’altro avevo conosciuto per caso Raboni che era, almeno questa fu la mia impressione, persona umanamente squisita.
Grazie per la rilevazione. Non bisogna mai scrivere sull’onda della polemica, ha ragione Villani.
Ciao,
Roberto