lunedì 11 febbraio 2013

Rita Simonitto,
Per chi suona la poesia.




Questo intervento di Rita Simonitto (sue poesie e interventi si trovano inserendo il cognome in 'Cerca nel blog', a destra in alto) può ben coadiuvare il ripensamento della funzione  di questo blog, che --   da solo o  con il contributo di altri - vorrei avviare dopo il distacco dal "Laboratorio Moltinpoesia" di Milano. Rita teme che la eterogeneità del materiale poetico finora proposto possa significare una mia scelta  a favore dell'ibridazione e del nomadismo (poetico). Sembrerebbe confermarlo la stessa immagine (per ora) simbolo del blog: il camion multicolore dei migranti nel deserto in  sostituzione de "Il quarto  Stato" di Pellizza da Volpedo). D'altra parte, nota ancora Rita, gli articoli di critica finora pubblicati contrasterebbero questa opzione pluralistica. Vi coglie, infatti, un'intenzione normativa, quasi la ricerca di un canone prescrittivo da imporre alla ricerca del singolo poeta. Ci sarebbe stata (o ci sarebbe), dunque, un'oscillazione tra due poli opposti. E, per uscirne Simonitto indica due direzioni di lavoro: il rapporto di chi scrive con la realtà (da ridefinire; e in proposito si sta svolgendo un intenso dibattito sul "nuovo realismo" documentato nel libro di AA.VV. Bentornata realtà, Einaudi, Torino 2012...); la ricerca (implicita o esplicita) di un interlocutore-lettore-destinatario, che  ogni scrittura poetica (fosse pure la più lirica e solitaria) sottintende. Ci penserò... [E.A.]


"...And therefore never send to know for whom the bell tolls. It tolls for thee".
 (John Donne)

E’ un incipit un po’ provocatorio visto e considerato che essa poesia  dovrebbe suonare essenzialmente per chi la scrive: sia nel senso che ri-suona, ovvero dà una sonorità di parola a delle rappresentazioni interiori del poeta su se stesso e sul mondo, e sia nel senso che suona a lutto, il lutto che egli incontra nell’esporre, nero su bianco, il suo pensiero unito all’accettazione dolorosa di poter esprimere soltanto una verità parziale rispetto a quanto esperito.
Rappresentazione che non significa ‘spettacolarizzazione’ della realtà, come peraltro pare essere la moda di oggi (dalla guerra, ai programmi culturali televisivi, alle manifestazioni politiche) bensì tentare di rendere esplicita il più possibile la trama che la sottende.

Continuando a leggere il blog Moltinpoesia non posso che valorizzare la sua inesausta ricerca di materiale poetico da sottoporre al lettore e ai critici, materiale che, pur degno di grande attenzione – ci sono dei testi veramente importanti e significativi – presenta una certa ‘eterogeneità’: direi che assomiglia davvero a quel camion multicolore messo adesso a simbolo del blog, in sostituzione del quadro di Pellizza da Volpedo, “Il quarto stato”; quasi a sottolineare, anche figurativamente, la perdita di stratificazione e di differenziazione non solo nel sociale ma anche nelle sue forme rappresentative.
Tutto questo rischia di andare oltre l’idea che si può certo contemplare – rispetto alle identità –, ovvero di una loro moltiplicazione e divisione; ma non al punto da contrapporvi una ibridazione immaginifica, figure ‘nomadiche’, il cui destino è la casualità solo in parte riscattata dalla creatività o aggressività dei singoli personaggi. Ma questo è un mio parere personale.

Da un lato, dunque, c’è la ricchezza del materiale presentato e dei commenti che ne fanno da integrazione. Dall’altro, la vivacità della contrapposizione ‘critica’ in merito alla valutazione dei testi riportati ribadisce che quel colpo di spugna che vorrebbe che la poesia non abbia più nulla da dire, non ha avuto successo perché, in realtà, essa è ben viva.

Quello che mi lascia un po’ perplessa rispetto ai contenuti della ‘critica’  è l’idea che  la poesia debba rientrare dentro un codice espressivo, quasi stabilito a tavolino,  che ne decreta la riconoscibilità e la accettazione come poesia. Come se ci fosse un canone entro il quale essa deve rientrare, ex ante. E, se riconosco che questo canone sia di indubbia utilità, ex post, nel senso che ci permette di orientarci (né più né meno di quello che accade quando utilizziamo una mappa per addentrarci in un territorio), non può essere di utilità alcuna per chi scrive, in quanto l’unica adaequatio cui lui è chiamato ha a che vedere con quel ‘reale’ (intimo o pubblico) a cui intende dare voce.

Conoscere le correnti di pensiero a cui egli fa riferimento e in cui si è prodotto un particolare tipo di poesia, è molto utile soprattutto in quanto permette di cogliere gli svariati tentativi da parte del poeta, attraverso il suo poetare (la sua prassi), di avvicinarsi a ciò che lo spinge al poetare: i movimenti della realtà interiore (di quel periodo) e quelli della realtà esterna. Ovvero ci permette di storicizzare.
Quindi sposterei l’attenzione dalla ‘poesia’ a ‘chi scrive poesia’ e al suo rapporto con la realtà.
Il sé-dicente poeta dovrebbe avere la libertà di muoversi attraverso il mondo cogliendone le caratteristiche che a lui sembrano le più significative per poter essere comunicate: è attraverso il suo sguardo che entriamo in contatto con una porzione del reale.
L’opera d’arte, infatti, non parla solo di se stessa ma parla anche di aspetti del mondo.
S. Weil diceva che «la parola poetica pronuncia tutto l’esistente, il me e il mondo [e le sue relazioni, aggiungerei io], in qualsiasi condizione il reale si trovi. E’ quel gesto sonoro che vivifica ogni cosa e nel suo annunciarla, nel pathos che emana  e nel poetico sbalordente che racchiude, riesce a pronunciarla in una ulteriore possibilità di essere: in una continua invenzione trasformativa di significati emergenti dalla ricerca inventiva di senso nelle sue possibili ulteriorità»> (Bellezza e verità di L.M. Lorenzetti)

Inoltre, ognuno che scrive ha presente un pubblico che lo leggerà, fra cui include se stesso. Ma esiste pure una intenzionalità, vale a dire che uno scrive anche ‘per’ qualcuno, qualcuno che possa interloquire e dire la sua.
E’ quindi la ricerca di un dialogo perché possa accadere qualche cosa in relazione a quanto il poeta ha scritto in merito alla sua esperienza.
L’approccio sia del lettore che del critico (ovviamente con le dovute differenze) dovrebbe articolarsi attorno ai seguenti punti:

a) del soggetto ‘osservante’. Chi è e quale posto occupa il soggetto che osserva considerando che anche l’osservatore, con le sue proiezioni, fa parte della realtà osservata.
b) della realtà osservata. Fino a che punto la realtà osservata è ‘esterna’ al soggetto e quanto la struttura culturale lo condizioni, rendendolo sub-jectum, assoggettato.
c) della realtà ‘osservante’. Perché anche la realtà cosiddetta ‘naturale’ può ‘osservarci’ nel suo farci da specchio.
d) dell’interrogazione che viene fatta prima o post festum:  ovvero quanto di ideologico,  o di ‘modaiolo’ - tenuto conto del fatto che oggi pare sia di moda ‘interrogarsi’ - venga trascinato dentro questo interrogare.
e) dell’utilizzo della funzione ermeneutica nel trattare l’interrogazione stessa. Cioè: qual è il destinatario di quel senso che viene parzialmente raggiunto? Sarà di nuovo il ‘soggetto’ – magari ‘colto’ -  o ne beneficerà la comunità?
f) e, infine, il ruolo che la poesia ha in tutto questo processo.
Marginale (è solo ‘spettatrice’?); coinvolta (ma solo perché il poeta fa parte del mondo?); strumentale (è un mezzo, direi ‘sofisticato’ per raggiungere un reale non immediatamente visibile?); mosca cocchiera (come se fosse l’unica depositaria dei processi di cambiamento?) o funzione rappresentativa di un reale latente, non ancora manifesto, una specie di contatto col profondo individuale e collettivo, equiparabile alla lettura psicoanalitica.

Io penso, forse ingenuamente, che il confronto debba avvenire su queste tematiche in quanto coinvolgono non solo il nostro atteggiamento poetico ma anche il nostro essere-nel-mondo nel qui ed ora, il senso che gli diamo e come intendiamo relazionarci con esso.

33 commenti:

Anonimo ha detto...

Aggiungerei: e sempre dare senza nulla aspettare. Emy

Anonimo ha detto...

@ Emy.
Spero che la tua sia una battuta ironica.
Caso contrario, mi dispiace, ma non sono d'accordo. E non solo per mia posizione personale ma per esperienza professionale. Il 'gratis' esprime una forma di onnipotenza che è necessaria e funzionale alle primissime fasi della relazione mamma-bebè, quando l'oblatività della madre può raggiungere il massimo del sacrificio. Poi, piano piano, via via che la relazione si definisce, deve subentrare il gioco di reciprocità tra le aspettative, la riconoscenza e la responsabilità: e questo si esprime sotto l'egida dell'amore e della comprensione. E dove per ‘riconoscenza’ non si intende entrare nel circolo del "do ut des", bensì riconoscere che quanto si è ricevuto è stato importante (nel bene e nel male), A PRESCINDERE da quello che poi ne faremo, perchè questo sarà solo affare nostro di cui ci faremo carico, appunto, nel bene e/o nel male.
Se non ci aspettiamo nulla, ci mettiamo in una posizione di falsa superiorità, ci saniamo la coscienza (le esperienze odierne con gli extracomunitari dovrebbero insegnare molto!), diventiamo 'intangibili', ‘impermeabili’ alle frustrazioni (“tanto, non mi aspettavo niente”) ma, ciò che è più pericoloso, diventiamo 'falsi', perchè rinneghiamo il nostro desiderare (umano), le nostre aspettative (umane) e le nostre delusioni (umane) per mantenere un distacco onnipotente.
Inoltre, il “sempre dare senza nulla aspettare” non contempla la possibilità di stabilire un ‘limite’, un ‘no’, esperienze che invece sono molto importanti nel processo formativo.
Ma non voglio dilungarmi troppo anche perché non vorrei andare troppo fuori tema.
Rita

Anonimo ha detto...

A Rita:

Il dare senza nulla aspettare, lo intendevo in questo senso:

Non mi aspetto la riconoscenza per ciò che ho fatto , perchè ciò che ho fatto è già il risultato del mio dare, se avremo dato per il piacere di dare ciò in cui crediamo e vogliamo trasmettere ,ciò che tornerà ,sarà molto più di ciò che ci potevamo aspettare. Dare per me significa anche esporsi all'amore,alla responsabilità,alla comprensione e tolleranza. Siccome non voglio anch'io dilungarmi, vorrei solo dirti che il mio commento di cui sopra non aveva nessun senso ironico. Emy

Mayoor ha detto...

Ringrazio Rita per questi suggerimenti. E' un po' quello che intendevo quando auspicavo l'esercizio di una critica più aderente al testo, alla scrittura in se', indipendentemente dai canoni in cui la si vorrebbe collocare, ma soprattutto senza che questi vengano ad essa anteposti. Basterebbero le domande che lei ha elencato per approfondire il reale, partendo da ciò che è, e non da come dovrebbe o potrebbe essere, per dare un senso diverso all'attività laboratoriale. Ricordo che tentammo l'esercizio di una critica tra di noi, alcuni si impermalosirono e non se ne fece più nulla. Mancava un metodo, diciamo didattico, l'obbligo di tener conto dei diversi aspetti interpretativi, e forse ne sarebbe derivato un dialogo, un confronto tra le intenzioni dell'autore e quelle che sono state colte dal lettore-critico. In tutti i casi servirebbe un'apertura al gioco ben maggiore di quanta ce ne fu allora.

Ennio Abate ha detto...

PRIMI APPUNTI SU «PER CHI SUONA LA POESIA»

1. Ma siamo certi che la poesia suoni o dovrebbe suonare per chi la scrive? O che quel che suona nelle parole che uno scrive ed egli o altri intendono come poesia sia davvero poesia?
Solo se prendiamo sul serio questo dubbio fondamentale (che va a fondo, che non dà nulla per scontato) e lo giudichiamo legittimo, quando la critica (o il critico) busserà alla nostra porta di poeti gli apriremo e saremo disponibili ad ascoltare cosa ha da dirci.
E la critica (il critico) ha da dirci (oggi forse di meno, ma in passato di sicuro) cose, che spesso le nostre orecchie di poeti (o di aspiranti poeti o di poeti anche già riconosciuti come tali) non vogliono proprio ascoltare. Ad es. cosa sia la poesia e se vada fatta o meno una distinzione tra poesia e non poesia. Sono forse questioni che i poeti possono trascurare?

2. In nome di che cosa un poeta può essere indifferente alla critica o disprezzarla?
Ha solo lui un filo diretto, privilegiato e ad altri invisibile con la Musa o altro Ente (Spirito, Sentimento, Amore, Inconscio) che lo induce a scrivere parole in quelle forme che poi vengono riconosciute come tipiche della poesia?

3. E se fosse un folle, un megalomane, un narcisista, un nevrotico, un non poeta? Sua moglie, i suoi amici, i conoscenti dovrebbero compiacerlo comunque? D’altronde, pur essendo magari veramente (in una certa misura, in particolari fasi della sia vita) folle, etc., chi può escludere, se non dopo aver sottoposto ad esame critico le sue scritture, che esse non hanno nulla a che fare con quelle che ci siamo abituati a considerare poesie?

4. La indispensabilità di una (buona) critica è confermata anche dall’accostamento che Rita (Simonitto) fa tra poesia e lutto. Nel dire (in poesia vera o supposta) qualcosa, il poeta sa per primo di «esprimere soltanto una verità parziale rispetto a quanto esperito». Lo sa, aggiungo, soprattutto se davvero poeta, perché il simil-poeta è spesso il più convinto di aver detto tutto e pretende l’approvazione piena e incondizionata su quel che ha scritto o, a volte, soltanto ed esclusivamente un applauso. E poi quante volte è proprio il critico o un buon lettore-critico a far scoprire nelle sue poesie allo stesso poeta significati e sensi da lui impensati?

5. I testi, che nelle intenzioni sono di certo poesia per chi li ha scritti o che passano per poesia anche agli occhi di altri, sono oggi innumerevoli. Esiste poi un “concime”, un contesto culturale (associazioni di poeti, piccole case editrici, blog e siti Web, premi di poesia) che favorisce questa moltiplicazione o massificazione della poesia. C’è un’insidia e un’ambiguità in tutto ciò? È tutto oro luccicante?

6. E poi di queste centinaia di migliaia di testi che - ripeto - nelle intenzioni dei suoi autori sono di certo poesia o che passano per poesia anche agli occhi di altri, quanti vengono letti? da quanti? con quali strumenti intellettuali? con quale tipo di sensibilità? con quanta attenzione? e gli eventuali lettori sono davvero attrezzati per accoglierli, per fargli posto nella loro mente (o, perché no, nel cuore), per dedicargli mezz’ora, un’ora? o rileggerli, ripensarli, misurare e correggere le proprie reazioni iniziali?

[CONTINUA]

Ennio Abate ha detto...

(CONTINUA)

7. Faccio un semplice ragionamento: se una volta gli «scriventi versi» ( è la definizione più oggettiva che Majorino ha datgo del fenomeno, una definizione di base, che non si pronuncia sulla qualità dei versi) potevano essere nell’ordine delle centinaia e i lettori-critici in grado di assorbirli (leggerli con una certa attenzione) e valutarli potevano essere nell’ordine di una decina/ventina, oggi le proporzioni sono del tutto saltate. (E basti pensare al pullulare di “antologie della poesia contemporanea” che oscillano tra selettività estrema e sbracamento incontrollato). A naso posso dire che gli «scriventi versi» sono una massa nell’ordine delle migliaia (solo in Italia) e i lettori-critici si contano quasi sulla punta delle dita o sono suppliti da lettori-critici pur essi di massa.

8. Altro che «una certa eterogeneità»! Siamo effettivamente a una Babele, ma niente affatto gioiosa e non so neppure quanto nomadica. Sarà un segno di vitalità? Ma fin da quando ho cominciato ad occuparmi e a spingere altri ad occuparsi del fenomeno della “nebulosa poetante” o della “moltitudine poetante” o dei “moltinpoesia” ho misurato la sua realtà (anche sociologica), che a me è parsa da subito ambivalente: segno di una crisi della Poesia (intesa come istituzione), sconfinamento dalle sue forme consolidate, fenomeno ad un tempo positivo e negativo, liberatorio e produttore di nuove coazioni e conformismi, spesso più distruttivo che costruttivo, ma di sicuro innovativo, aperto, proiettato nel futuro o di sicuro migliore di quella spesso pur giustamente criticabile ricerca poetica ancora condotta all’ombra delle accademie, delle università, delle grandi case editrici. L’esperienza fatta col Laboratorio Moltinpoesia di Milano (alla Palazzina Liberty e nella mailing list) mi ha convinto ancora di più di questa ambiguità. E della necessità di fronteggiarla invece che subirla o incoraggiarla *così com’é*.

9. Fin da subito avevo cercato di *pensare criticamente* il fenomeno ( il primo scritto che gli dedicai POESIA MOLTITUDINE ESODO è del 2003). Ma proprio questa esigenza è quella che ha trovato più opposizione, tiepidezza, sottovalutazione. Posso perciò tenere in giusta considerazione le perplessità «rispetto ai contenuti della ‘critica’», ma senza critica gli «scriventi versi» d’oggi non vanno da nessuna parte.

10. Non penso di aver mai sostenuto nel Laboratorio Moltinpoesia o su questo blog un’idea di critica normativa, che stabilisca cioè a tavolino delle regole e decreti *a priori* quali siano i testi da riconoscere e accettare come poetici. Se altri hanno ricevuto questa impressione, dovrebbero chiedersi perché tanto facilmente identificano la critica o il fare critica con l’autorità o un atteggiamento autoritario. (E malgrado oggi i critici siano quasi «senza mestiere» o malvisti o poco ascoltati o tenuti ai margini rispetto ad altre figure intellettuali).

11. Temo, cioè, che abbia prevalso anche nelle menti più aperte una insofferenza irragionevole per ogni forma di critica, una sfiducia pericolosa sulla sua utilità. Si dà quasi per scontato che un poeta è miglior poeta se sta lontano dalla critica e non la pratica né sui propri testi né su quelli altrui.

[CONTINUA]

Ennio Abate ha detto...

(CONTINUA)

12. Quando Mayoor ricorda il fallimento del tentativo di esercitare «una critica tra di noi» , accenna sì al fatto che «alcuni si impermalosirono», ma sembra dire che si fallì perché «mancava un metodo». Eppure non può dire che quei tentativi di critica non fossero aderenti al testo. Anzi il Gruppo di Lettori-Critici, che allora si costituì come sezione del Lab. Moltinpoesia, esaminò per alcuni mesi alcune precise raccolte di versi, che tra l’altro erano di autori debitamente anonimi. Se, dunque, non si arrivò al dialogo, al confronto tra le intenzioni dell’autore e quelle individuate dai lettori-critici fu perché emerse uno scarto, un conflitto tra la immagine che l’autore aveva dei propri testi e quella che gli rimandava il lettore-critico che l’aveva esaminato.

13. Più in generale, è vero che la critica (la buona critica) rompe sempre un rapporto quieto, un equilibrio gratificante tra chi scrive e le sue poesie. Questo equilibrio che l’autore ha raggiunto lo vorrebbe conservare inalterato. E invece è la critica ( e solo la critica) che vi introduce un elemento di inquietudine, che a volte può risultare persino insopportabile. Perciò la si rifiuta.

14. Sottoporsi alla critica è come essere attraversati da un sguardo “straniero”, diverso dal nostro, al quale siamo ormai assuefatti e che di solito è compiacente. La buona critica ci mostra qualcosa che ci è sfuggito. A volte questo qualcosa è gratificante e ci rafforza. Ma quando non lo è? Allora si preferisce la politica dello struzzo. Non si vogliono correre rischi. A complicare le cose sta anche il fatto che questo sguardo “straniero” (critico) può essere davvero malevolo o ostile o addirittura distratto. Secondo me, questo non giustifica la scelta della claustrofilia (Fachinelli), il rifiuto della sfida che l’incontro poeta/critico sempre comporta. E poi chi dice che il poeta non debba contrastare il giudizio del critico riaprendo il gioco?

[FINE]

Anonimo ha detto...

Importante, utile il discorso di Ennio. Il Fatto che qualcuno ci rimanga male dopo esser stato oggetto di un critica negativa o comunque che non soddisfacente, mi sembra più che normale,ma arrivare al punto di impermalosirsi fino quasi a lasciare il gruppo diventerebbe come quel ragazzino che a scuola dopo un'insufficienza decide di smettere di studiare. Io ero restìa ad ascoltare i critici e soprattutto pensavo che si potesse far a meno di loro, ma col tempo mi sono accorta che lo stimolo più grande e utile è stata proprio la critica. La critica negativa è imbarazzante, difficile da digerire per il poeta, ma sono certa che lo è anche per il critico che deve esporsi con competenza (questo è indispensabile) e purtroppo accorgersi che da parte di chi la riceve avrà forse brutte sorprese. Quello che non trovo giusto è il dover scartare a priori poesie che hanno contenuti non condivisibili politicamente o spiritualmente dal critico. Certo la poesia deve essere l'io/noi che unisce e fa riflettere, ma tutto è motivo di riflessione, se la poesia è ben fatta , l'argomento sarà proposto e chi vorrà ne trarrà le proprie riflessioni. Faccio parte di un gruppo chiamato "Poeti in bilico" e di conseguenza il mio parere potrebbe cadere nel vuoto, ma così mi sento di dire. Emilia Banfi

Anonimo ha detto...

e.c.scusate quel- che- prima di -non soddisfacente- E.B.

Unknown ha detto...

Emy cara, vista la metafora concreta "scuola" che hai adotattato e visto che non conosco i fatti a cui fai e fate riferimento, aiutami a capire..mi viene da farti alcune domande:

1
L'apprendimento di chi rispetto a chi era ben chiaro a ogni partecipante fin dall'inizio della vostra esperienza?

2
della sproporzione degli strumenti culturali cerebrali a favore dellla vostra "guida" e sua preparazione rispetto agli altri, ogni partecipante ne era consapevole e se si come?

3
la modalità (è sempre il modo che fa la differenza) di trasferimento della critica dal soggetto "a" al soggetto "b", alla pari fra voi o alla dispari con Ennio, era chiaramente posta in termini di rispetto di sensibilita e immedesimazione in ognuno? confermami questo lato fondamentale: la critica non interferiva assolutamente con giudizi di valore a diminuzione della vita dell'altra/o?

4
la motivazione del/la partecipante al vostro gruppo era fin dall'inizio quella simile a chi va a scuola (compresa quella continua della vita) per insegnare e per imparare?

Anonimo ha detto...

Cara Rò:

all'ultima domanda ti rispondo che no ,non era una scuola! Ma come diceva il grande Eduardo De Filippo
- Gli esami non finiscono mai-

Io sono tutt'ora consapevole della grande cultura della nostra "guida", che per me non è stata solo guida ma un maestro, logicamente parlo solo per me, gli altri non so...o forse preferisco non parlarne e per questo, ti chiedo venia. La critica è sempre stata , precisa e fatta non solo dalla "guida" ma anche da tutti noi. Ma visto che ti interessa molto il nostro comportamente e sai fare critica, perchè non esci alla luce e vieni alle nostre riunioni, capirai tutto ciò che fino ad ora non è stato chiaro proprio perchè non ci si guarda negli occhi, fatto per me molto importante per non dire indispensabile. Ciao un abbraccio .Emilia

Anonimo ha detto...

da Rita Simonitto
Ricordo un detto che circolava e che sosteneva l’ipotesi che, solitamente, il critico non era che un artista ‘mancato’, dando al termine ‘mancato’ una accezione negativa.
Alla luce dell’oggi, io darei invece a quel termine un senso positivo, ovvero rivaluterei proprio il senso della ‘mancanza’, intesa come il luogo in cui il soggetto cerca di esserci, e di cui il critico si fa delegato e portatore. Lui infatti - in quanto sa (o dovrebbe sapere) di che cosa si parla quando si parla di poesia -, può (potrebbe) cogliere ciò che ‘manca’ nell’opera che lui si accinge a prendere in considerazione affinchè questa possa accedere o meno al titolo di ‘poetica’.
Il compito del ‘critico’ è dunque molto importante in quanto fa (o dovrebbe fare) sia da cesura fra il narcisismo del sé-dicente poeta e la sua creatura, dalla quale fa fatica a separarsi, e sia da tramite tra il sé-dicente poeta e l’oggetto (esterno o interno che sia) cui si tenta di dare rappresentazione.
Un ulteriore passaggio ha a che vedere con il come ‘adeguatezza’ e ‘conflitto’ vengono rappresentate sia attraverso la forma e sia attraverso i contenuti.
Si tratta di un compito molto difficile che esige una profonda preparazione e sensibilità. Certo, ci si può improvvisare ‘critici’ per vezzo così come per ‘vezzo’ si gioca a fare gli interpreti dell’animo umano. E senza dubbio anche attraverso l’esperienza ludica (in-lusum) si può imparare, ma non ci si può sostituire.
E senza dubbio si pone la domanda: ma chi criticherà i ‘critici’? Perché sarebbe ingenuo pensare che anch’essi non siano condizionati ideologicamente nella loro visione del mondo.
Io credo che la battuta di Ennio (“E poi chi dice che il poeta non debba contrastare il giudizio del critico riaprendo il gioco?”) sia molto illuminante.
Ma a questo punto si riapre il discorso relativo al soggetto che si autodefinisce poeta o vorrebbe essere poeta. Egli è tale o è soltanto un versificatore (e accolgo di buon grado questa definizione di Majorino, sottolineando che ben vengano i versificatori che a volte, lo confesso, sono più simpatici dei poeti, soprattutto quando questi ultimi si sentono, come dice Ennio, i portatori di “un filo diretto, privilegiato e ad altri invisibile con la Musa o altro Ente (Spirito, Sentimento, Amore, Inconscio)”. Può essere che anche il versificatore abbia questa aspirazione legittima a diventare poeta, perché no.
Ma a questo punto dovrebbe chiedersi che cosa è importante per lui: chiamarsi (o essere chiamato) poeta o dover affrontare in continuazione la fatica, a volte fallimentare, del trovarsi di fronte ad una realtà che si impone con tutta la sua forza inquietante e non si trovano le parole adeguate (a volte nemmeno per approssimazione) per definirla?
Mi rendo conto che sto parlando da una posizione che in parte è dentro ed in parte è fuori dalla concreta esperienza dei Moltinpoesia (non ho mai partecipato alle riunioni, incontri ecc. data la distanza e i miei vari impegni): ma a volte anche una visione ‘esterna’ può essere utilizzata. O no?

Anonimo ha detto...

A Rita:
certamente la visione esterna può e deve essere utilizzata, ma per rispondere a Rò "se la critica era posta in termini di rispetto,sensibilità ed immedesimazione in ognuno..."devo dire che la presenza fisica alle riunioni è importante per capire se la critica non andava oltre la semplice valutazione, io da parte mia non ho notato nessuna invadenza che avrebbe potuto urtare la sensibilità di qualcuno, se si fa critica bisogna farla fino in fondo , con competenza e sensibilità, altrimenti non sarebbe critica, se poi qualcuno non desidera esporsi a questo tipo di giudizio è padronissimo di non farlo. Qual'è il problema?
O qual'è stato il problema? Ti sembrerà strano ma non mi aspetto risposte e se dovessero arrivare, ben vengano. Emilia

Unknown ha detto...

a me è piaciuto immaginare che la vostra fosse una scuola di poesia e dunque anche di autocoscienza, quindi di critica e tante altre cose ancora, come si diceva una volta "intedisciplinari"...venire in un vostro incontro come ti dissi già non rientra nei miei interessi, perché io voglio diventare ..ma non voglio diventare poeta .-)...scusam se ho fatto delle domande al vento che giustamente non hanno avuto risposte o altre domande
controabbraccio

Anonimo ha detto...

Una delle difficoltà che può incontrare lo scrivente versi di oggi come quello di ieri è quella di veder tradotto il proprio messaggio come un “non pervenuto” in direzione del lettore quanto del critico, un rischio che si corre ogni qual volta ci si mette in gioco con la propria poesia. Fermo restando che lo scrivente versi dovrebbe quantomeno sapere o essere consapevole ciò di cui va dicendo (apprezzo molto il pensiero di Rita Simonitto), così come si dà per scontato che il critico dica onestamente ciò che pensa. Perché non c’è dubbio che “essere attraversati da uno sguardo straniero”, come dice Ennio, se può “spezzare” un equilibrio, è vero anche che rafforza nel poeta la propria consapevolezza che, tradotto, è sicuramente un passaggio importante per migliorare se stessi oltre che il proprio stile di scrittura.
Vorrei dire a Ennio che questo blog è di per sé un laboratorio, un arricchimento che riconosco essere molto importante grazie alla pluralità delle voci presenti in esso, nonostante la mia, come per Simonitto e per tanti altri ‘navigatori’, sia una visione da “esterna”.

Giuseppina Di Leo

Unknown ha detto...

Sempre con lo spirito "al vento",come da stato d'animo brevemente trasmesso ieri a Emy, mi permetto di riconsiderare l'"estraneità"....fino a pochi giorni fa, e credo anche di averlo scritto, mi vivevo come un corpo estraneo, in quanto "lettore" e non solo, a un determinato spazio, che credevo molteplice o a piu stanze, fra cui questa ringhiera, o terrazzino, o comunque fuori metafora questo blog. Mi sa che sbagliavo perché a questo punto i corpi estranei sono almeno tre se non di piu. Il corpo estraneo Rita, il corpo estraneo Giuseppina, il mio se non addirittura pure a partire dal corpo estraneo Ennio. Sembra dunque che " la campana " suoni soli per corpi estranei fatti di occhi "altri" rispetto a quelli tecnici dell'apparato comunemente detto visivo. Allora forse è l'oggetto stesso che è estraneo, non è questione di soggetto, o meglio lo è solo in quanto l'oggetto sia o meno incorporato dentro le sue corde.

O forse è solo il deserto di questo spazio che inganna? è questo spazio solo una pro-tesi per nulla attendibile? sembra quasi che questo spazio lo abbiano conosciuto, lo abbiano abitato e animato solo gli estranei, addirittura piu intimi all'oggetto stesso che non coloro che credevano di con-tendervi.incredibile.

Mayoor ha detto...

Non è così, rò. Enzo, Fabio Villani, Emy, Monti, io e sporadicamente anche altri dei Molti partecipano scrivendo su questo blog. Partecipiamo dalla platea, non scriviamo teoreticamente per mestiere, ma il gioco ci piace, abbiamo lo stesso amore per la scrittura, la stessa follia del pensiero che porta i presenti a dire di tutto pur di poter pensare e scrivere. I Molti assenti leggono, suppongo. Altro non mi sento di dire. Ho trascorso buona parte della mia vita praticando la meditazione e l'assenza di pensiero, forse per rimediare al disordine della mia mente che è un vero bazar. Scrivere poesia e leggere di critica mi aiuta a mettere ordine, ma ho sempre ben presente che c'è nell'attività mentale una sorta di veleno. Quando una dozzina d'anni fa decisi di scrivere con più impegno e continuità, ero cosciente che per un meditatore sarebbe stato compiere un passo indietro: nella follia della mia mente e della mente collettiva. La differenza tra il folle e il poeta-folle sta nel fatto che il poeta sa di esserlo e si diverte, almeno finché gli riesce perché il divertimento non va confuso con la spensieratezza. Il divertimento è una forma d'intelligenza. La follia del mondo è dovunque, è un tal contenitore di tristezza, di solitudine, di storture e ingiustizie, di violenza e mortificazione che quasi converrebbe tacere, non scrivere affatto. Ma scrivere bene è come fare un buon disegno, dà lo stesso piacere, e scrivere benissimo è come affrescare un edificio, scrivere capolavori è guardarsi alla pari col Rinascimento. Dal momento in cui si comincia però non si può stare nel dilettantismo, è la poesia stessa che non lo consente. Forse siamo dilettanti se ci accorgiamo che i versi che abbiamo scritto l'altro ieri sono già invecchiati, e non dovrebbe essere così perché le opere andrebbero fatte tenendo conto anche della loro durata. Non credo si tratti solamente di cogliere aspetti dell'universalità, credo conti il fatto che in ogni verso il poeta cerca un particolare centro da "colpire", e la vita brulica di centri degni d'attenzione, sia dentro che fuori di noi. E poi conta il linguaggio della poesia tra gli altri linguaggi, conta la rappresentazione nell'epoca dove ti trovi a vivere. Se tutto ciò è critica, allora ben venga.

Anonimo ha detto...

A Mayoor:

Davvero gli esami non finiscono mai ... Emy

Anonimo ha detto...

da Rita Simonitto
Volevo innanzitutto ribadire che non ho parlato di ‘estraneità’ bensì dell’essere ‘esterna’, proprio perché non ho mai partecipato ‘concretamente’ alle riunioni, incontri, ecc. Certamente, in parte li ho seguiti anche se da una doppia distanza: di luogo (per le difficoltà precisate) e di tempo (in quanto neofita all’interno del gruppo).
C’è però una differenza tra ‘estraneo’ e ‘esterno’.
Mentre l’estraneo, per definizione, non partecipa, l’esterno invece può partecipare sia pure vincolato dai limiti temporo-spaziali che non escludono quelli di interesse affettivo-emotivo: mi piace la poesia per le sue potenzialità rappresentative e vorrei conoscerne di più sia sulla sua funzione e sia rispetto al fatto che scrivo versi e, conseguentemente, al perché e percome lo faccio al di là di quelle che possono essere le mie ‘parziali’ risposte a queste domande.
Lo stesso concetto di ‘straniero’, a sua volta, non dovrebbe essere recepito come ‘estraneo’ bensì con l’accezione antica di ‘hospes’, con tutto ciò che di ‘sacro’ implicava questa figura.
Ma, a parte queste disquisizioni, che mi possono alienare le simpatie in quanto rischio di finire dritta-dritta nel calderone dell’intellettualità becera, volevo partire da un’altra domanda: quale idea i partecipanti ai Moltinpoesia si potevano fare rispetto al gruppo.
A questo proposito è stato molto illuminante l’intervento di Enzo (14 febbraio, 02.30) a fronte del post “Segnalazione. Incontro con appendice”.
“A Milano, dove potevano andare a finire i poeti vagabondi ? Solo Abate e forse qualche altro (ma ho dubbi) potevano accogliere gli homeless della poesia (mi scuso con chi non si identifica in questa terminologia). Abate, con la rivoluzionaria teoria dei Molti, che somiglia molto a quella di certi movimenti dal basso iniziati verso la fine del secondo millennio, poteva imbastire un progetto che si scontrava con le lobby o le confraternite della poesia a Milano”.

[Continua]


Anonimo ha detto...

[continua]

Messa giù in questi termini, se da un lato dubito che Enzo ne sia del tutto convinto (nel senso di svalorizzare l’iniziativa tout court), dall’altro credo che abbia colto un seme di verità. Verità parziale il cui rigoglio, però, ha portato al passaggio dal ‘miracolo’ (“E’ grazie a queste sicurezze [convinzione e tenacia e fiducia di Ennio nel proprio pensiero] che all'interno dei Moltinpoesia sono avvenuti miracoli che hanno visto molti elementi del gruppo fare proposte portatrici di grande ispirazione che hanno visto svilupparsi un lavoro creativo ma anche di formazione”) alla delusione, proprio perché i miracoli non portano ad alcuna ‘trasformazione profonda’ nei soggetti che ne vengono toccati.
Giustamente Enzo osserva: “Se la critica è scambio di opinioni e non campo di battaglia”, allora da dove, e per quali motivi si è scatenata questa battaglia?:
1) Il miracolo non ha permesso di sedare la frustrazione di appartenere ad un Laboratorio di serie B anziché ad un Laboratorio di serie A - come poteva essere il Laboratorio tenuto alla Casa della Poesia di Milano (ampiamente criticato ma ‘segretamente’ desiderato? Del tipo, tanto per esemplificare: di quali critici disponiamo noi? Sono bravi? Sono accreditati? Sarebbe umano, questo. L’importante è riconoscerlo e non negarlo).
2) I “movimenti dal basso”, purtroppo, portano con sé l’idea che non debba esserci nessuno che eserciti qualchesia potere decisionale in modo autonomo: perché questo lo farebbe apparire “un estraneo potente”, anziché “esterno”, ossia dotato di una capacità di vedere dal di fuori. Questo mi sembra traspaia anche nella espressione di Enzo quando afferma “In un ipotetico laboratorio lo scambio di pareri nasce spontaneamente tra individui tra cui può nascere un sodalizio che si basa su corrispondenza di idee o di indirizzi poetici”. Sì, certamente. Ma poi ci dovrà pur essere qualcuno che ne trae le conclusioni e ne orienta le fila (rompendosi anche i sissi, aggiungo io).
Allora, tutte queste ‘beghe’ allontanano dall’oggetto, dal compito su cui invece il gruppo dovrebbe lavorare, vale a dire l’interesse per l’OGGETTO POETICO, il quale include la relazione profonda tra chi scrive e ciò che scrive unita alla tolleranza, che Giuseppina di Leo esprime molto bene quando si riferisce all’accompagnamento del proprio lavoro correndo il rischio di “veder tradotto il proprio messaggio come un “non pervenuto” in direzione del lettore quanto del critico, un rischio che si corre ogni qual volta ci si mette in gioco con la propria poesia”.
E’ una sofferenza che si sperimenta, non è una passeggiata. Però si impara. (Si spera).

R.S.

[Fine]



Anonimo ha detto...

A Rita:
quant'è alto e quanto abbraccia il tuo discorso! Ma alzarsi e farsi abbracciare purtroppo non a tutti riesce semplice , anzi a volte si preferisce stare solo a guardare, a giudicare, da una posizione dalla quale spesso è difficile schiodarsi. Grazie . Ciao Emy

Unknown ha detto...

@maayor

Benvenuto nel gruppo dei corpi est (erni ed anei, est..rom..essi e tutti gli est che vuoi declinare)
:-)

scherzi a parte, partecipanti di un tipo o di un altro, compresi altri corpi da te elencati da Flavio a Enzo o Emy che certo non volevo escludere, rimane il fatto che "il veleno" a cui ti riferisci ha generato qualche problema, altrimenti non avrei letto in questo spazio aperto a tutti frammenti dei frammenti delle vostre vicissitudini.

Sul piano medicale della metafora e non solo, ogni veleno può salvare o può uccidere, dipende dalle dosi. Molto probabilmente la capacita di assunzione di questo veleno era diversa fra voi e forse , sempre forse, non era del tutto chiaro e lucido dentro ognuno di voi "il prezzo" da pagare per questo veleno naturale, rispetto a quello artificiale che tutti rende poeti o artisti, grandi statisti o grandi cantanti o musicisti, e che è il dio denaro o qualsiasi altro simile valore di scambio merci. Ma per raggiungere l'oggetto poetico, anche di poco poco nella lettura e figuriamoci quanto nella scrittura, non è come tendere la mano verso una scatoletta sullo scaffale e comprare...cosa che le sirene di un certo mercato poetico possono far credere a chiunque dal piu talentuoso fra voi al piu cane ( con tutto il rispetto per i cani e per i cani poeti)

la cosa triste è che Ennio o non Ennio, voi o non voi, anche questa storia ricorda piu ingenerale quella piu grande e cioè come ad un determinato modello mondo merce, distruttivo e autodistruttivo, non corrisponda ancora una coscienza profonda e desiderio di insegnamento/apprendimento per un modello dono del tutto diverso dal primo...infatti gia immagino le risate che di fronte alle vostre vicissitudini si sono fatti quelli che subito a sciacalli si sono fiondati a proporre corsi stage mega-master poeta.

Anonimo ha detto...

Forse è meglio specificare : per me vagabondo o homeless sono termini di grande valore e significato in questo caso sono espressione di conflitto proprio come i linguaggi estremi dei veri vagabondi o homeless. Non parlo di laboratori di serie A o B ma penso più all'etimologia della parola. enzo

giorgio linguaglossa ha detto...

leggo delle frasi di Rita Simonitto che non capisco: "soggetto osservante, realtà osservata, realtà osservante"; e poi il distinguo di spostare l'attenzione dalla "poesia" a "chi scrive poesia"... ecco, mi sembra che qui si faccia confusione. direi che la poesia la si trova nei testi e non nella persona che scrive i testi; che porre il problema sul piano della "osservazione" tra un soggetto e un oggetto, è un atto di ingenuità filoosofica; la posizione del critico non è affatto dissimile da quella di un qualsiasi lettore, innanzitutto perché il critico è un lettore (e spessisimo è anche un autore), soltanto che è un lettore che ha fatto degli studi di settore, che sa argomentare (diciamo così) quello che ha da dire. Innanzitutto, non bisogna porsi in chiave normativa (ma inconsapevolmente la Simonitto cade nella buca che voleva evitare!), nessuno può normare, ma certo se una critica argomentata viene da un critico che gode di fama e di prestigio perché pubblica con Einaudi la sua voce sarà più ascoltata di quella di un critico che pubblica con un piccolo editore; ma sulla questione delle influenze che un critico eserecita qui stiamo già facendo un discorso sulla sociologia della letteratura che, personalmente, vorrei evitare. Certo, se io come critico muovo una critica a Zanzotto affermando che la sua poesia rappresenta "il punto più alto raggiunto in Italia dalla cultura dello sperimentalismo", muovo anche un aculeo, un elemento riduttivo perché tendo a ridurre il ruolo e il valore delle opere di Zanzoto entro la cultura che lui ha espresso e ha condiviso; in una parola entro il suo tempo storico. Storicizzo Zanzotto chiudendolo dentro la sua cultura come in una bara. Ma gli faccio anche un grande complimento, credo.
Ultimamente ho scritto a due editori pregandoli di astenersi dall'inviarmi le opere dei moltissimi dilettanti che ciondolano nell'universo-poesia. Apriti cielo! Mi hanno detto che ero un arrogante e un montato! Ma io semplicemente volevo dire una cosa: che su libri dilettanteschi fatti da dilettanti, io come critico, non ho proprio nulla da dire.
Veniamo al punto: così come c'è una guerra tra poeti per stabilire le gerarchie, c'è anche una aperta belligeranza tra critici per stabilire chi è più grande e più bravo. È normale, fa parte delle regole del gioco. Una volta un professore di università 8un po' tonto) mi avvicinò e mi disse: "ma tu chi sei per scrivere certe cose?"; ed io risposi: "sono giorgio linguaglossa, cittadino italiano".
Direi che una critica libera e disinteressata è utile, anzi, indispensabile, altrimenti agli autori non resterebbe altro che guardarsi allo specchio e dirsi: "quanto sono bello!" e così via.

Anonimo ha detto...

che significa ro'? leggo e non capisco cosa dici.
io non sono 'estranea' bensì 'esterna', nel senso che non risiedo né a milano né dintorni bensì a un migliaio di km circa... ma si può essere anche 'esterni' pur vivendo in loco - come si dice in gergo - se c'è condivisione di idee e interscambio. spero di essere chiara nella mia pur frammentaria ars dicendi.

giuseppina di leo

Mayoor ha detto...

Talento e ispirazione non si possono ottenere all'università, e senza queste qualità si è tutt'al più dei versificatori, o degli "scriventi versi" (definizione notarile volta a distinguere l'umano dal regno animale?). Il dilettante, che è tale per il fatto che non possiede o ignora gli strumenti del mestiere, può fare affidamento su queste qualità per crescere e maturare facendo esperienza . La strada sarà lenta e faticosa, ma lo è anche per i letterati. Finché non giunge a maturazione nessun artista può dirsi fuori dal dilettantismo. A me sembra maggiore l'inganno di quei letterati che, per il fatto di sapersi esprimere sapientemente, ottengono facile approvazione alle loro sciocchezze. Ma immagino che il critico onesto e coraggioso queste cose le sappia. Linguaglossa è certamente tra questi. Credo anche che ci si dovrebbe guardare da chi, col pretesto della critica, sta facendo invece letteratura al solo scopo di fare bella mostra di se'. Ce ne sono ovunque, son capitati anche su questo blog.

Anonimo ha detto...

da Rita Simonitto
@ Linguaglossa
grazie intanto per la sua disponibilità per avere letto il mio intervento e grazie anche per le sue sottolineature che mi permettono di precisare il mio pensiero, non solo a lei, del cui tempo non voglio abusare, ma anche ai lettori di questo Blog. Pensiero che giocoforza sarà sintetico e che riguarda ciò che chiamo soggetto osservante, realtà osservata e realtà osservante, frasi che a lei risultano poco chiare.
So bene che il soggetto che osserva fa anche parte della realtà osservata, non ne è del tutto estraneo, e questo vale anche per la realtà stessa che non è esente dalle nostre proiezioni. E non intendo certo addentrarmi nel discorso filosofico, non ne ho la competenza e non credo che attenga al tema di cui stiamo trattando in questa sede. Anche se ciò che lei afferma riguardo al “non esserci più un principio di qualche cosa, né a posteriori, né a priori” (G. Linguaglossa p. 291) potrebbe aprire a delle domande di tipo filosofico che esulano però da questo contesto.
Non voglio addentrarmi nemmeno in linguistica. Ma se si parla di ‘discorso poetico’, e se si cerca di pensare alla “necessità di un logos fondato sull’interrogazione” (ibid., p. 293) è necessario che ci sia ‘qualcuno’ (chiamiamolo ‘soggetto’?) che interroga qualche cosa (realtà?) e che, a partire dal come la cosa è stata osservata (o anche si è imposta alla osservazione), si possa costituire un logos, un ordine del discorso.
Se Dario Bellezza (citato in G. Linguaglossa, p.159) scrive che “orrenda Erinni […] si è affacciata la volontà di molti di distruggere il corpo sacro della poesia per una avventura linguistica e stilistica staccata dalla vita, dalla carne, dal sangue, dalle visceri”, si tratta comunque di ‘soggetti’ che, anche se più avanti li chiama “automi senz’anima che sciorinano poesie come se fossero scritte su carta igienica”, possono essere chiamati tali proprio in quanto stanno in una relazione giuntiva con l’oggetto.
E quindi capire in che relazione STORICA il soggetto stia con l’oggetto mi sembra un momento importante: una ‘riforma del linguaggio poetico” oggi non dovrebbe avvenire in astratto (mi viene alla mente il bellissimo ponte di Calatrava a Venezia: bellissimo, appunto, ma la ‘realtà, su cui poggia continua a presentare una serie di problematiche).
Come può riformarsi il linguaggio senza l’analisi della società politico-economico su cui esso poggia e di cui si fa rappresentante? Non intendevo assolutamente ‘distaccarmi’ dalla poesia la quale indubbiamente si trova nei testi e non nel poeta.
E continuerei su questo tono alla ricerca di una chiarificazione esplicitante se non mi fossi imbattuta, proprio adesso, nel suo commento alla poesia di Adam Zagaiewski, sull’ultimo post di Moltinpoesia che qui trascrivo e che condivido parola per parola.
“Le sue [di Adam Zagaiewski] poesie nascono sempre da un atto di riflessione narrante sul mondo, vogliono descrivere con chiarezza ciò che accade nel mondo, e anche ciò che non accade o ciò che potrebbe accadere e non è accaduto: impiega così un metodo pienamente tridimensionale, indica le vie di accesso al reale e accerchia il reale: la pluralità delle vie di accesso e la pluralità delle possibilità che entrano in gioco quando noi facciamo un atto di esperire il reale. Descrive e indica con chiarezza l'essere e il non essere, indica, con l'ausilio della metafora e della ripetizione/variazione, il sempre eguale e il sempre diverso, la stasi e il moto, la dialettica e l'opposizione inconciliabile.”
Meglio di così non avrei potuto esprimere il mio intendimento riguardo al tema del ‘soggetto’ che attua una riflessione narrante, e quindi osserva il reale (‘oggetto’) esperito e descritto nel suo essere e non essere. ‘Reale’ che è anche implicato nella relazione di reciprocità (‘realtà osservante’) che entra in gioco “quando noi facciamo un atto di esperire il reale”.
La ringrazio molto.

p.s. va da sè che ringrazio anche tutti i commentatori per il loro contributo. Il fatto è che G. Linguaglossa aveva posto delle domande specifiche.

Ennio Abate ha detto...

ALTRI APPUNTI

15. A proposito di critica.

Nelle affermazioni di Emy («non trovo giusto il dover scartare a priori poesie che hanno contenuti non condivisibili politicamente o spiritualmente dal critico») c’è un equivoco. Una buona critica non scarta nulla a priori e anche quando incontrasse contenuti che il critico personalmente non condivide (prendiamo un critico ateo che studi Dante o un critico ebreo alle prese con un testo antisemita di Céline) il suo compito non sta nel dire se è d’accordo o in disaccordo con le idee degli autori studiati ma nel valutare l’energia con cui le hanno espresse in lingua. Mi pare di ricordare che qualcosa del genere avesse detto Zanzotto proprio a proposito della * Commedia*.

A Mayoor («ho sempre ben presente che c'è nell'attività mentale una sorta di veleno») farei invece notare che il veleno non è esclusivo dell’attività mentale.
A Linguaglossa («sui libri dilettanteschi fatti da dilettanti, io come critico, non ho proprio nulla da dire»). D’accordo. Ma ci dev’essere qualcuno, di cui tu ti fidi, che li ha letti o almeno esaminati un po’ e li ha giudicati «dilettanteschi». Se no, ti muovi sulla base di un pregiudizio. E come se dicessi a priori che tutti i dilettanti non hanno nulla a che fare con la poesia o che tutti i napoletani sono ladri, etc. A me vengono in mente due pittori, il Doganiere Rousseau e Ligabue, e divento più cauto.


16. «della sproporzione degli strumenti culturali cerebrali a favore della vostra "guida" e sua preparazione rispetto agli altri, ogni partecipante ne era consapevole e se si come? »(rò)

Tengo a precisarti che io ho pensato sempre di dover costruire un laboratorio e in esso ho creduto di svolgere sempre e solo la funzione di coordinatore. ‘Laboratorio’ e ‘coordinatore’ hanno un senso laico che non ha il termine ‘guida’ che tu usi specie se non intendi riferirti a una guida alpina ma a una guida spirituale o a un Maestro (sempre in senso religioso o spirituale).
Trovo anche errato parlare di «sproporzione degli strumenti culturali» (quel «cerebrali» poi!...) tra me ed altri. La mia preparazione rientra in quella quasi standard degli intellettuali massa, venuti su con la scuola pubblica dal dopoguerra in poi. E se è vero che ho teso a costruire un Laboratorio “aperto a tutti” (ed in effetti in esso si sono affacciati vari laureati, alcune casalinghe, dei precari, degli impiegati, dei diplomati) l’intento è stato quello di *fluidificare* gli scambi tra vari livelli di preparazione.


17. «chi criticherà i ‘critici’? Perché sarebbe ingenuo pensare che anch’essi non siano condizionati ideologicamente nella loro visione del mondo» (Simonitto).
Chiunque, se la *funzione critica* tornasse a diffondersi tra noi e non venisse delegata a una figura che si specializza in critica.


18. blog/laboratorio

«questo blog è di per sé un laboratorio, un arricchimento che riconosco essere molto importante grazie alla pluralità delle voci presenti in esso, nonostante la mia, come per Simonitto e per tanti altri ‘navigatori’, sia una visione da “esterna”»(Di Leo)

Può darsi che lo diventi, ma non lo è ancora. Lo dico proprio in base al (per me) fallimento del «Laboratorio Moltinpoesia di Milano». Non basta, infatti, come non è bastato in quello, solo la pluralità delle voci. Bisogna che le nostre varie voci arrivino ad un grado di dialogo e confronto che sia capace di produrre *un discorso* non dico logico, armonioso, ma problematico e capace di mordere delle realtà…

[continua]

Anonimo ha detto...

(continua):

19. «quale idea i partecipanti ai Moltinpoesia si potevano fare rispetto al gruppo.
A Milano, dove potevano andare a finire i poeti vagabondi ? Solo Abate e forse qualche altro (ma ho dubbi) potevano accogliere gli homeless della poesia».(Enzo)

Pittoresca la definizione di «homeless della poesia», ma devo in parte deluderti e dirti che, come temevo, il mio progetto di Laboratorio è stato abbastanza travisato. Da te in senso spontaneistico (si diceva una volta) o da *movement*. No, il mio non era « un progetto che si scontrava con le lobby o le confraternite della poesia a Milano». Dal 2006 al 2012 hai visto uno scontro? Tra l’altro non era possibile (lo spiegherò meglio più in avanti in un rendiconto che sto scrivendo). Come ho spiegato nel post dell’intervista ad Eco sul Gruppo ’63, siamo sociologicamente distanti da quella tipologia “avanguardistica” di intellettuali. Non siamo riusciti nemmeno ad essere gruppo nel vero senso della parola. Il mio intento è stato quello di *fluidificare* gli scambi tra vari livelli di sapere e di contrastare i pregiudizi e gli snobismi contrapposti: delle lobby nei nostri confronti, di alcuni di noi nei confronti di queste lobby.
Aggiungo anche che la critica non è semplice «scambio di opinioni» più o meno disinteressato e sportivo, ma colpisce (con l’arma delle parole intelligenti e ben pesate) pregiudizi e luoghi comuni pigri o di convenienza.

[Fine]

Anonimo ha detto...

da Rita Simonitto
Volevo soltanto fare un veloce commento a caldo (anzi, a freddo visto che sono ormai le due avanzate di notte e i termosifoni sono spenti) a proposito del Laboratorio.
Come ho detto in altro intervento, la mia partecipazione al Laboratorio, iniziata da poco, si è caratterizzata da una presenza mentale (più che ‘de visu’), convinta che questa iniziativa fosse portatrice di un progetto importante che andava al di là di quello che è lo specifico della poesia (ovvero ‘fare poesia’ strictu sensu), per costituire un luogo in cui si potesse ‘pensare’ a tutto ciò che sta ‘intorno’ al poetare, perché solo là dove c’è pensiero può esserci la poesia. E, tenendo conto dei tempi grami che corrono, mi sembrava (l’iniziativa) una cosa coraggiosa e non di poco conto.
Laboratorio non significava, dunque, almeno nel mio intendimento, un ‘imparare a fare’, tipo un corso dove si insegnano le tecniche per scrivere, esprimersi ecc. ecc., Oggi, di queste proposte, ce ne sono a iosa, secondo il ‘modello mondo-merce’ che rò ò richiama nel suo commento. Bensì una esperienza per imparare ad ESSERE e a PENSARE attraverso un confronto più o meno leale (eh, sì, nei gruppi è così!) ma sufficientemente ‘sano’ tra i partecipanti di qualsiasi livello e formazione .
Mayoor dice: “Talento e ispirazione non si possono ottenere all'università, e senza queste qualità si è tutt'al più dei versificatori, o degli "scriventi versi" (definizione notarile volta a distinguere l'umano dal regno animale?). Il dilettante, che è tale per il fatto che non possiede o ignora gli strumenti del mestiere, può fare affidamento su queste qualità per crescere e maturare facendo esperienza”.
Non so, ma è come se, dando la sottolineatura all’importanza degli “strumenti del mestiere”, fosse più importante (sto ovviamente forzando il pensiero di Mayoor) prendere la gratificante patente di poeta che trovarsi ad essere una persona incasinata al massimo che cerca di capirsi e di capire e che, in questo sforzo, magari sfonda qualche porta di senso rispetto all’esistente. E, per fare questo, forse ha bisogno di un maieuta (= critico, ovvero qualcuno che ne sa più di lui).
Ma se, nello stesso tempo, dal lato del critico, si crea una specie di Comma 22*, dato che «sui libri dilettanteschi fatti da dilettanti, io come critico, non ho proprio nulla da dire» (Linguaglossa), non si crea nessuna dinamica di crescita.
Va da sé che in questo trambusto la vita del coordinatore di questo tipo di Laboratorio non è per nulla facile in quanto viene strattonato ora in una direzione (normativa) ora in un’altra (permissiva), proprio perché nel gruppo che si è venuto a formare sono presenti entrambe le istanze e ognuna di esse ha bisogno di avere rappresentazione.
Mmm… a volte proprio uno ha voglia di dimettersi!!!
Good Night, and Good Luck
Rita
* vedere il film dallo stesso titolo. O consultare Google.


Unknown ha detto...

@Ennio

Rimango convinta dal mio averti visto all'opera, perlomeno qui in questo spazio, come guida..non ho usato maestro ( forse lo ha usato Emy) perché lo ritengo ruolo ed espressione molto diversa, che nel bene e nel male, ti avrebbe forse evitato la coscienza della sconfitta o del fallimento che pienamente, o comunque parzialmente, si rileva dalla tua stessa decisione di dire "basta". Fatto sta che anche tale coscienza(finale?) è unilaterale,per nulla meridiana e "cordinata" del gruppo, questo basta lo hai detto tu unilateralmente, non da semplice coordinatore, così come nella piccola sfumatura del blog ogni qualvolta, correttamente o meno poco conta, hai manovrato i semafori dei dialoghi escludendo a priori certi sentieri, mettendo un bel rosso quando per altri era verde.La metafora del "vigile" sarebbe però riduttiva visto che per contenere frontali fra i componenti del gruppo, e promuovere un traffico umano diverso da quelle macchine, non bastano palette o codici, ma occorre promuoverne una conoscenza che va al di la delle singole competenze o talenti o ispirazioni.

Se poesia è una montagna(passami la metafora visto il tuo dire guida alpina, ma potremmo estendere ai fondali o alla campagna o alla collina ed altre oro-grafie), tu , Ennio, ovviamente stai già incamminato ..non ho detto che sei già ( andato o riandato) alle sue cime, ma certamente sei con più ferri del mestiere, mappe e bussole, sentieri gia percorsi in vicoli ciechi o a belvedere, verso quella realtà che dici ti piace mordere e che, infatti, in quest'esperienza di gruppo non è stato possibile trovare d'incamminamento a comune morso. A proposito di schifezze del mercato di altri scambi umani e merci automatiche, potremmo parafrasare quest'esperienza come la solitudine dei numeri dispari, ed una coscienza infatti laica, che dici di volere, potrebbe vedere, anche se in modo posticipato, dal tuo stato "liquido" dispari ad altri pari, ogni elemento che fin dall'inzio ha segnato ineluttabilmente il tentativo e la sua fine. Non volere riconoscere questa disparità e come farvi fronte, segna la differenza e l'enorme solitudine del compito. Lascia quegli strumenti a te cari, piu soli e li legittima a un'appartenenza, status e visione elitaria e plurisecolare.
un caro saluto

Anonimo ha detto...

Fin che la barca va lasciala andare...qui la barca sta affondando di parole e i fatti come al solito li farà chi avrà la forza di sottrarla agli abissi, ci vuole molta forza ed un unico scopo la passione per l'idea...La passione per l'idea???Cos'è? Cos'è??? Emy

Mayoor ha detto...

Ennio: "Non basta, infatti, come non è bastato in quello, solo la pluralità delle voci. Bisogna che le nostre varie voci arrivino ad un grado di dialogo e confronto che sia capace di produrre *un discorso* non dico logico, armonioso, ma problematico e capace di mordere delle realtà…"
Metto in evidenza questo passaggio perché solleva la questione se sia il caso di porre una gradualità d'intenti nella prassi da laboratorio. Si tratta di capire se servano delle priorità invece di mettere sempre più legna al fuoco, quindi lavorare sulla qualità del testo magari chiamandolo al confronto con sempre nuove problematiche di linguaggio, forma e contenuto. Tralasciando questo aspetto, ma puntando al fatto che la critica possa essere di per se' una valida ragione di crescita (quale critica tra le molte?), si arriva a generare smarrimento, sia nella voce dell'autore con se stesso che nelle sua capacità di rapportarsi al contesto - che non sarebbe solo ti tipo esistenziale ma diventa marcatamente intellettuale- . Quindi la priorità sarebbe quella di lavorare sulla scrittura, sul corpo del reato, in primo luogo per rimetterlo in sesto.