Poesia e Moltinpoesia. Un percorso, un bilancio (2)
di Ennio Abate
2
gennaio 1978
Lettura.
Roversi, I diecimila
cavalli.
Bellissimo l’intreccio del dialogo fra i due amanti che si separano
e la descrizione dell’intervento della polizia contro i
manifestanti. E poi parla con passione dei meridionali e con rabbia
della polizia. Accorcia il romanzo veristico, lo stravolge. È un
lavoro da scrittore maturo. Non cerca spiccioli.
5
gennaio 1978
1.
Fortini.
“Alcune delle più preziose informazioni sulle tendenze politiche
per entro la nostra repubblica si leggono in versi” (Saggi
italiani,
pag. 140)
2.
“Eluard...
in queste prime persone plurali” (Fortini, Saggi
italiani,
pag.142)
6
gennaio 1978
1.
Attento
anche a non mitizzare la scelta di stare sempre sott’acqua,
in ombra.
2.
Perché
invadere gente che incontri/
di
discorsi secolari/dei
nostri discorsi/
carta
assorbente del discorso Secolare/
ciascuno
– solitario o assieme.....
3.
Leggo
l’attenta critica di Fortini ai romanzi di Pavese, che io divorai
fra ’60 e ’63. Che rapporto unilaterale e chiuso ebbi con quei
suoi scritti! Con chi potevo discuterne? Il mio era un solitario
innamoramento culturale. Allora non pensavo neppure a leggere le
opinioni critiche su uno scrittore che mi “prendeva”. Perché ero
fuori dal giro letterario. Forse. Ma tutti i rapporti di allora
(della giovinezza), anche nella vita quotidiana (Valk, Anna, Sergio
DN), erano esclusivi e attraversati da gelosie.
4.
Arrivai a Milano con
alle spalle studi liceali (non eccelsi) e poche letture da
autodidatta (Pavese, Lawrence, Proust e Joyce, i primi libri usciti negli Oscar
della
Mondadori) e precipitai ai bordi della condizione proletaria.
Crisi della mia timida “vocazione” poetica. Gli autori che lessi
da giovane erano legati ai terremoti sociali del loro tempo, ma
quando capitai io in uno di questi terremoti e nel vortice della militanza, mi accorsi che non riuscivo a portarmeli appresso quegli scrittori. Smisi
semplicemente di leggerli. Li sostituii con letture di storia, di
economia, di marxismo.
5.
Da
verificare adesso: mi avvicino di più al “sociale” in cui vivo
mediante la ricerca poetica o con quel che mi resta della militanza
politica fatta tra ‘67-’75?
6.
Confronto le opinioni di Fortini (Saggi
italiani)
e di Raboni (Poesia
anni ’60,
pag. 206) sulla metrica. E mi sento tagliato fuori da questi discorsi. Lo scarso armamentario che mi diedero in merito i miei professori di liceo a Salerno è oggi sepolto. La metrica non mi attrae. È
per me tradizione
perduta
e nei confronti di questi studi oscillo fra ossequio, timore e
rifiuto. Fortini riesce ad occuparsi contemporaneamente di cottimo e
di metrica senza smarrire la collocazione (personale, sociale e
storica) da cui ciascuno di noi parla. Io no. Mi restano delle domande troppo semplici: perché
certe “cose” si scrivono in
versi
e non nella prosa corrente dei documenti? lo si fa soltanto perché
si cerca un pubblico diverso (di poeti,
letterati) da quello ostile o indifferente alla poesia che frequentiamo? Oppure per stabilire un rapporto (più profondo)
con gli altri (poeti e non)?
Una poesia non è un intervento
politico. Né il poeta è un giornalista. Non bisogna caricare lo scrivere in
versi di compiti che esulano da questa pratica. Questo mi è chiaro. Esercitare la poesia significa staccarsi inesorabilmente dalla classe operaia? O presentarsi nelle lotte con la propria faccia (che può essere anche
di poeta) e il proprio (minimo) potere di saper scrivere?
7.
Metrica,
traduzioni, critica, letture potrebbero essere la ginnastica
quotidiana per lo scatto
poetico.(Se
però vivessi in un ambiente di letterati…). Da giovane, ma anche adesso, questa ginnastica la posso fare solo
partendo dal vissuto quotidiano e dalle mie letture disordinate. O rileggendo periodicamente le note di diario che vado accumulando. A
volte penso di fare il poeta-intervistatore.
Ma all’atto pratico spesso l’intervistatore prevale sul poeta:
il contatto diretto con una certa realtà sociale mi distrae dalla
poesia e mi fa adottare forme più prosaiche e dirette. Lo scarto tra
poesia e prosa per me è netto.
8.
Tradurre
rifacendo. Equivale a scrivere
per risonanza
o a leggere
per risonanza.
Mi fa uscire dal guscio a cui più sono abituato (o costretto):
quello del rapporto teso, faticoso, tra me e il “mio” passato (o il “mio”
quotidiano). La lettura di scritti altrui mi spinge a una scrittura
più “socializzata”, ma spesso non riesco ad andare oltre la scelta di
citazioni o di articoli da usare come pro-memoria; e il
commento a questi testi che ho letto resta limitato.
Ipotesi di lavoro: una
lettura-traduzione per conto mio di alcuni classici studiati al liceo; accostamento
a testi stranieri in originale, vietandomi di ricorrere alle
traduzioni già fatte da altri. E per il dialetto?
9.
Fortini,
Traduzione
e rifacimento,
Saggi italiani (p. 332). Fortini mette in luce (fuori dalle illusioni
nazional-popolari) la tensione esistente tra l’italiano subalterno
di cui ci siamo impossessati a fatica e il «metalinguaggio della
cultura dominante». Altro che sentirsi privilegiati
per essere arrivati alla lingua nazionale! Cosa vuoi che si
emozionino o siano attratti da una poesia che nasca dalla condizione
di subordinati quelli che operano nel “metalinguaggio della
cultura dominante”. Case editrici, università, editoria
scolastica. Che può fare un guastatore
solitario
di fronte a questi Golia culturali?
10.
Nella
possibile Lettera
a Fortini, che sto meditando,
evitare ogni tono da complice.
11.
Evitare
d’imbarcarmi nel tentativo di redigere un bollettino-rivista
a Cologno se i possibili partecipanti dimostrano scarsa attenzione ai problemi di
come e cosa scrivere.
12
gennaio 1978
1.
Sono
passato (e le conseguenze le sento) attraverso il rifiuto
della poesia.
Ne ho ricavato solo insofferenza e scetticismo per quelli che oggi la fanno?
2.
I
cataloghi delle case editrici e le recensioni sui giornali. Troppe le sollecitazioni e disordinate. Mi spingono ad un'attenzione spropositata ad alcuni autori
e alla dimenticanza di altri. A starci dietro, le mie scelte di libri da leggere non partono più da un problema
vero. E, comunque, ignoro il panorama generale.
3.
Tessa
(Cfr. Fortini, Poeti del ‘900, pag 110). L’attenzione all’
“orrido, al putrefatto” nasce per Fortini sempre da un pessimismo
conservatore. Non dalle cose. Penso alla mia formazione
cattolica a Salerno. Non vi sono condannato. È possibile riordinare
altrimenti quel vissuto e portare alla luce aspetti allora soffocati.
[“l’introduzione di nuovi contenuti già di per sé comportava
un’alterazione dei significati, quand’anche il sistema dei
significanti potesse sembrare immutato”, Fortini, I
poeti del ‘900,
119)
4.
Continuità e trasformazioni
della mia scrittura. Anche dopo il ’68 ho continuato a scrivere.
Non più poesie, ma volantini, documenti, appunti. Un impoverimento?
Un impratichirsi?
Rispetto a prima del '68, è cambiata anche la gente che frequento. Sono
cambiato io stando con loro. Ho sbandato. Non è un demerito rispetto a quanti hanno tenuto più sotto controllo
la trasformazione della realtà o se ne sono distanziati o l’hanno
sorvolata. Colgo, perciò, un’enfasi individualistica sospetta nelle tante autocritiche che oggi sento sul periodo della militanza. Certo, non si superano i
limiti propri della militanza scegliendo Fortini al posto di Lenin. Tornare
a studiare con più cura la letteratura non equivale a cancellare i temi politici (e
non solo i temi, ma problemi). L’antitesi letteratura-politica è falsa. Ci
spinge a passare da una cosa ad un’altra, come se fossero separate.
Al posto del ritorno
alla letteratura
voglio tentare un rendiconto di tutta la mia contorta formazione
culturale, non essere ingabbiato in uno dei suoi segmenti.
5. Pavese.
Elementi anticonformistici ed epici pur dentro un tessuto decadente
(Fortini, Idem, pag.120). Mi predisposero alla rottura con Salerno, ma
erano inadeguati a quello che trovai a Milano. Continuai per un po’
a sentire Pavese, soprattutto quello del diario come un complice della
mia vicenda personale (la donna “che fa male”). Poco afferrai
allora dell’importante suo lavoro di traduttore e collaboratore
Einaudi (un preciso lavoro) o di “compagno” (allora e fino alla
vigilia del ‘68 non avevo sguardo politico). Alcuni libri di Pavese (Lavorare stanca, La letteratura americana e altri saggi) furono, assieme a La prigioniera di Proust e all'Ulisse di Joyce, le reliquie
dei miei interrotti studi letterari che portai con me da Salerno a Milano. Forse per attenuare il rimorso
che me ne venne. Ma con il ’68 e il rifiuto
della letteratura, che in parte subii, la sua immagine svanì. Ricordo il fastidio che ebbi un giorno leggendo nelle sue Lettere 1924-1944, che avevo acquistato appena uscite nel ’66 - erano i primi libri che ricompravo, dopo essermi disfatto nel ’64 di quelli
che avevo nei primi giorni dopo il matrimonio con R,
vendendoli per difficoltà economiche su una bancarella di piazza
Durante - un passo contro i meridionali.
6.
Montale.
Non mi permette immedesimazioni. È così medio-alto borghese. Esorta
Arsenio, il suo doppio «ad affrontare il temporale, ossia
(simbolicamente) un’esistenza meno protetta e più audace». Ma
quanto protetta era la mia esistenza a Salerno? E che tipo di
“temporale” ho affrontato venendo a Milano? Salerno non era più
città fascista, ma democristiana. I fascisti sconfitti operavano in
ombra. (Però, anche nelle mia poesie ‘61-’62 tendevo all’uso di
simboli…).
14
gennaio 1978
1.
Dario
Bellezza. Concitazione che non riesco più a condividere. La Roma
degli artisti, il “letto”, la “vita peccatrice”. Sui 17-18
anni avevo avuto (forse) spinte simili. Mi chiedo quali
sconvolgimenti si sono prodotti in lui rispetto ad altre vite e quali
parametri servirebbero per intenderlo. Mi procura angoscia:
m’avvicina a qualcosa di rimosso. Mi succede qualcosa di simile anche di fronte a
quelli dell’Autonomia.
2.
Spatola.
«Assunzione di un punto di vista cosmogonico, originario, smisurato.
Dal quale la storia tende ad apparire.. come pura vicenda biologica»
(Fortini, Idem, pag. 23-24). Tentazioni simili mentre scrivevo Poesia
della crisi lunga? Mi
chiedo quali possano essere i punti d’incastro fra la
realtà-linguaggio di questi poeti e la realtà-linguaggio mia (dei
mie studenti, dei compagni che frequento). Droga, violenza,
omosessualità: sono esperienze da cui mi sono “preservato”, che
ho vissuto da spettatore, da esterno, ma non fino a smarrire il
fondo comune
che mi lega agli attori in queste realtà.
3.
Fare
poesia continuando a stare con quelli che non ne scrivono o lo fanno
di nascosto, per diletto, ecc. [Intervistare poeti clandestini e no?].
Contenere il desiderio di comunicare a chi ti sta attorno l’andamento
della propria ricerca. Perché?
4.
Non
ero, non potevo essere contemporaneo
del Gruppo ’63 né partecipe in alcun modo delle tante altre
iniziative letterarie di quegli anni. Si sono tutte svolte su un
altro piano rispetto a quello da me vissuto. Questa distanza valeva
di meno per le esperienze del neorealismo, che mi attrassero prima
attraverso la lettura di Verga (e Pavese) e poi dei racconti di
Domenico Rea, che leggevo a Salerno su Il
Mattino
comprato da mio padre. Un racconto perduto che avevo scritto attorno
ai 18 anni e che avevo mandato ad un concorso (di Noi
donne?)
trattava secondo moduli neorealistici la mia crisi di adolescente in
rottura con la famiglia. L’avanguardia mi raggiunse soltanto attraverso le cartoline che riproducevano opere della pittura moderna, viste per la prima volta quando per alcuni mesi, verso la fine del liceo, frequentai a Salerno una Scuola di ceramica serale e grazie all'ammirazione che ne aveva uno studente del liceo artistico
divenuto allora mio amico, Giovanni Pesce di Mercato San Severino.
5.
Che devo pensare dell’esaltazione o del lavorio che in certi ambienti letterari viene fatto attorno ai temi del folle, dell’assurdo, del gioco?
Dalla mia collocazione a volte mi appare un fenomeno per raffinati.
Mi ritraggo, me ne disinteresso. Eppure tanti seguono estasiati...
6.
Avanguardisti
e tradizionalisti. I primi mi suggestionano, mi sconcertano, mi fanno però restare passivo. Verso i secondi ho un atteggiamento più attivo e critico.
7.
Scrittura
e militanza. Nella mia esperienza si sono scisse e escluse. Poteva
andare diversamente?
8.
[Edoardo] Sanguineti.
Riassumendo quel che ho capito: - il linguaggio è sempre ideologia,
cioè stravolgimento della realtà; quindi critica del linguaggio
“naturale”, mimetico, realistico; - il linguaggio, privo di
corrispondenza con la realtà, nuvola che non lascia indovinare la
materia da cui emerge, irrazionale, non per questo diventa inutile; -
il linguaggio-ideologia (usato nella consapevolezza di quanta
ideologia contiene) serve a spiare
la realtà: il conflitto di classe che agita
anche il linguaggio e lo rende veicolo
di miti.
9.
La
poesia nasce da una particolare sensibilità storico-linguistica
(orgoglio dannunziano, vergogna gozzaniana) costruitasi attraverso le
pratiche secolari dei poeti ed è accompagnata anche da una
particolare miopia
e censura.
Cadute le speranze di una rivoluzione
sociale,
l’antipoesia resta all’interno (spesso ai
margini
, bassi o alti) di questa pratica secolare, non fuori; è una
variante della tradizione
(G.
Sica, Sanguineti, Il castoro, 1974, p. 21). Forse la vera negazione
della poesia
la fa chi la ignora. (Poeti, antipoeti, non poeti).
15
gennaio 1978
1.
Che
differenza c’è fra il rifiuto
della poesia
grezzo dei ‘68ttini e quello culturalmente ipernutrito
di Sanguineti?
2.
A
volte la preferenza per un poeta è preferenza (non dichiarata) per
il corrispettivo
politico
di quel poeta. Si apprezza Montale e si accoglie anche la filosofia
del Corriere
della Sera,
l’ideologia liberale, lo stile di vita della media borghesia. Come
si fa a trovare interessante Balestrini, se non lo colleghi all’area
dell’Autonomia? O ad aver stima di Fortini senza riversarla un po' anche
su il
manifesto?
Ogni scrittore ha il suo alone
politico,
che magari non cogli subito. (Pavese aveva quello “comunista”, ma
io, quando lo leggevo a Salerno, non lo coglievo). Anche se sto a Cologno, non tutte le
vacche mi paiono oggi nere. Non posso fingere una ricerca ancora
senza nessun punto fermo. La mia incertezza-simpatia verso
l’avanguardia cede di fronte alle critiche di Fortini.
3.
Cos’è
la storia
di cui parla Sanguineti dalla sponda (da lui esplorata, però) della cultura
psicanalitica? Come per Eliot, un «immenso panorama di futilità e
anarchia» (Sica, Sanguineti,
Il castoro, 1974, p.38)
4.
Dada,
surrealismo, psicanalisi. Campi da attraversare. I novissimi,
che stanno invecchiando in mezzo a noi, questo hanno fatto. C’è oggi
uno smarrimento
storico
[e della storia] simile a quello degli anni ‘50-’60? Forse per i
giovani. Noi non lo viviamo nei termini in cui essi lo vivono.
5.
Sanguineti
sta al sublime del primo Montale e del primo Pasolini come Gozzano a
D’Annunzio. Contro il sublime-aristocratico borghesizzato (ma anche
contro il neorealismo) gioca la “semplicità” medio-piccolo
borghese. «In Sanguineti c’è sempre questa medesima celebrazione
di una vita prosaicamente mediocre, modulata sui toni di un realismo
piccolo borghese tragico e onesto [?], virile e squallido al
contempo, che, ormai frustrata ogni tensione eversiva e crollata ogni
illusione, non offre alternative se non la rinuncia» ( Sica, p. 55).
A questo mi-ci stiamo avviando?
“Quotidiano
e fin troppo realistico elenco di oggetti, figure, forme che,
svuotati di ogni valore, sono costipati in uno spazio letterario in
cui ogni pretesa logica a formulare gerarchie e dislivelli viene
radicalmente negata... citazione caotica e sgangherata di segni... il
caos della realtà (Sica, p.73).
Caos
reale o rappresentazione caotica per
paura della realtà?
Sica parla della letteratura come «paradiso artificiale e asettico
di una cultura in perpetua ritirata dalla realtà» (p.73).
Letteratura da letteratura: «Il giuoco del Satyricon
non è che un’operazione di riscrittura». Come mettere il naso
fuori dalla finestra dei mass- media, allora?
Sempre
su Sanguineti: «È evidente che l’eliminazione [dall’Antologia
dei poeti del ‘900] di tutto il filone “realistico” [anche
dialettale] o, per così dire, impegnato ha un significato preciso»
( Quaderni
Piacentini
n. 39, pag.224?)
25
ottobre 1978
Due
appunti sul rifacimento (nel 1975) di due poesie ‘62-64.
1. Ho
trasformato Venere
paesana
in Lady Chatterly.
Non ci siamo. A un’immagine assorbita culturalmente e non vissuta ne
sostituisco un'altra altrettanto culturale. E poco importa che siano
immagini classiche o vitalistiche (lawrenciane o pavesiane). Da
letteratura a letteratura. Qual è il reale
trascurato in questa operazione?
2. Appuntamenti.
Tento di far emergere il singolo avvenimento e i personaggi prima
trattati in modo impersonale (la ragazza, l’immigrato). Redazione
proposta: la
ragazza/ (credo in dio non ai preti)/ ha ricevuto/ la stretta serale/
e ritorna nel buio/ a labbra stanche/ ma decide lo sguardo/ e il suo
passo/ Le scarpette rosse/ si piegano sicure/
consumate/
sfiabate/ Io
intasco quel tramonto:/ ho una ragione/ di un centinaio di passi/ per
la mia disperazione.
12
agosto 1978
1.
Prima
di rivolgerti a un critico esperto come Fortini, decifrati. Non
chiedere ad altri di decifrarmi. Pubblicare non dev’essere per me
una rivincita (su chi?) né un darmi in pasto. Conservare nel
cassetto le poesie è stato segno di prudenza e non solo di
timidezza. La prudenza serve ancora oggi. Altri ostacoli si
sono aggiunti nel frattempo: prima c’era il purismo militante; oggi
il bisogno
di poesia
è così facilmente riconosciuto, da far temere operazioni losche in
corso. E poi i rapporti che ho con gli altri che scrivono poesie restano fragili. Non
voglio arruolarmi nei poeti
di movimento.
Sono senza partito sia in politica che in arte. Nel frattempo quanti
anni sono passati e quanti danni derivati dall’oscurità e
dall’isolamento devo rimediare! Forse nella lotta col tempo sarò
sconfitto. Resta la rottura del ’68. Non perderla di vista.
2.
Poesie
‘62-’63. Non c’è nostalgia dell’infanzia, ma una voglia di
spiegare a me stesso i nodi (famiglia, donne, solitudine) che mi hanno ossessionato. Le
scrissi con addosso un’ansia violenta di farmi adulto, di andare disarmato all’assalto di una città ignota, di innamorarmi, di avere amici; e
così “aggredire” la realtà da cui mi sentivo separato.
16
ottobre 1978
Poesie
‘77-’78. Rileggo con commozione il dattiloscritto. Scrivendo
poesie così intessute del quotidiano e del sociale in cui soffrivo
normalmente, ho
afferrato qualcosa che mi premeva (e opprimeva). Ho anche bruciato le
velleità di fare il poeta-letterato. Essere uno
dei tanti
mi va bene.
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