lunedì 3 novembre 2025

RIFLESSIONI IN FORMA DI DIARIO SULLE MIE "POETERIE" (1978)

                                                                                 

Poesia e Moltinpoesia. Un percorso, un bilancio (2)

 di Ennio Abate


2 gennaio 1978

Lettura. Roversi, I diecimila cavalli. Bellissimo l’intreccio del dialogo fra i due amanti che si separano e la descrizione dell’intervento della polizia contro i manifestanti. E poi parla con passione dei meridionali e con rabbia della polizia. Accorcia il romanzo veristico, lo stravolge. È un lavoro da scrittore maturo. Non cerca spiccioli.

5 gennaio 1978

1.
Fortini. “Alcune delle più preziose informazioni sulle tendenze politiche per entro la nostra repubblica si leggono in versi” (Saggi italiani, pag. 140)

2.

Eluard... in queste prime persone plurali” (Fortini, Saggi italiani, pag.142)


6 gennaio 1978

1.

Attento anche a non mitizzare la scelta di stare sempre sott’acqua, in ombra.

2.

Perché invadere gente che incontri/
di discorsi secolari/dei nostri discorsi/
carta assorbente del discorso Secolare/
ciascuno – solitario o assieme.....

3.

Leggo l’attenta critica di Fortini ai romanzi di Pavese, che io divorai fra ’60 e ’63. Che rapporto unilaterale e chiuso ebbi con quei suoi scritti! Con chi potevo discuterne? Il mio era un solitario innamoramento culturale. Allora non pensavo neppure a leggere le opinioni critiche su uno scrittore che mi “prendeva”. Perché ero fuori dal giro letterario. Forse. Ma tutti i rapporti di allora (della giovinezza), anche nella vita quotidiana (Valk, Anna, Sergio DN), erano esclusivi e attraversati da gelosie.

4.

Arrivai a Milano con alle spalle studi liceali (non eccelsi) e poche letture da autodidatta (Pavese, Lawrence, Proust e Joyce, i primi libri usciti negli Oscar della Mondadori) e precipitai ai bordi della condizione proletaria. Crisi della mia timida “vocazione” poetica. Gli autori che lessi da giovane erano legati ai terremoti sociali del loro tempo, ma quando capitai io in uno di questi terremoti e nel vortice della militanza, mi accorsi che non riuscivo a portarmeli appresso quegli scrittori.  Smisi semplicemente di leggerli. Li sostituii con letture di storia, di economia, di marxismo.

5.
Da verificare adesso: mi avvicino di più al “sociale” in cui vivo mediante la ricerca poetica o con quel che mi resta della militanza politica fatta tra ‘67-’75?

6.

Confronto le opinioni di Fortini (Saggi italiani) e di Raboni (Poesia anni ’60, pag. 206) sulla metrica. E mi sento tagliato fuori da questi discorsi. Lo scarso armamentario che mi diedero in merito i miei professori di liceo a Salerno è oggi sepolto. La metrica non mi attrae. È per me tradizione perduta e nei confronti di questi studi oscillo fra ossequio, timore e rifiuto. Fortini riesce ad occuparsi contemporaneamente di cottimo e di metrica senza smarrire la collocazione (personale, sociale e storica) da cui ciascuno di noi parla. Io no. Mi restano delle domande troppo semplici: perché certe “cose” si scrivono in versi e non nella prosa corrente dei documenti? lo si fa soltanto perché si cerca un pubblico diverso (di poeti, letterati) da quello ostile o indifferente alla poesia che frequentiamo? Oppure per stabilire un rapporto (più profondo) con gli altri (poeti e non)?
Una poesia non è un
intervento politico. Né il poeta è un giornalista. Non bisogna caricare lo scrivere in versi di compiti che esulano da questa pratica. Questo mi è chiaro. Esercitare la poesia significa staccarsi inesorabilmente dalla classe operaia? O presentarsi nelle lotte con la propria faccia (che può essere anche di poeta) e il proprio (minimo) potere di saper scrivere?

7.

Metrica, traduzioni, critica, letture potrebbero essere la ginnastica quotidiana per lo scatto poetico.(Se però vivessi in un ambiente di letterati…). Da giovane, ma anche adesso, questa ginnastica la posso fare solo partendo dal vissuto quotidiano e dalle mie letture disordinate. O rileggendo periodicamente le note di diario che vado accumulando. A volte penso di fare il poeta-intervistatore. Ma all’atto pratico spesso l’intervistatore prevale sul poeta: il contatto diretto con una certa realtà sociale mi distrae dalla poesia e mi fa adottare forme più prosaiche e dirette. Lo scarto tra poesia e prosa per me è netto.

8.

Tradurre rifacendo. Equivale a scrivere per risonanza o a leggere per risonanza. Mi fa uscire dal guscio a cui più sono abituato (o costretto): quello del rapporto teso, faticoso, tra me e il “mio” passato (o il “mio” quotidiano). La lettura di scritti altrui mi spinge a una scrittura più “socializzata”, ma spesso non riesco ad andare oltre la scelta di citazioni o di articoli da usare come pro-memoria; e il commento a questi testi che ho letto resta limitato.
Ipotesi di lavoro: una lettura-traduzione per conto mio di alcuni classici studiati al liceo; accostamento a testi stranieri in originale, vietandomi di ricorrere alle traduzioni già fatte da altri. E per il dialetto?

9.

Fortini, Traduzione e rifacimento, Saggi italiani (p. 332). Fortini mette in luce (fuori dalle illusioni nazional-popolari) la tensione esistente tra l’italiano subalterno di cui ci siamo impossessati a fatica e il «metalinguaggio della cultura dominante». Altro che sentirsi privilegiati per essere arrivati alla lingua nazionale! Cosa vuoi che si emozionino o siano attratti da una poesia che nasca dalla condizione di subordinati quelli che operano nel “metalinguaggio della cultura dominante”. Case editrici, università, editoria scolastica. Che può fare un guastatore solitario di fronte a questi Golia culturali?

10.

Nella possibile Lettera a Fortini, che sto meditando, evitare ogni tono da complice.

11.

Evitare d’imbarcarmi nel tentativo di redigere un bollettino-rivista a Cologno se i possibili partecipanti dimostrano  scarsa attenzione ai problemi di come e cosa scrivere.


12 gennaio 1978

1. 
Sono passato (e le conseguenze le sento) attraverso il rifiuto della poesia. Ne ho ricavato solo insofferenza e scetticismo per quelli che oggi la fanno?

2.

I cataloghi delle case editrici e le recensioni sui giornali. Troppe le sollecitazioni e disordinate. Mi spingono ad un'attenzione spropositata ad alcuni autori e alla dimenticanza di altri. A starci dietro, le mie scelte di libri da leggere non partono più da un problema vero. E, comunque, ignoro il panorama generale.

3. 
Tessa (Cfr. Fortini, Poeti del ‘900, pag 110). L’attenzione all’ “orrido, al putrefatto” nasce per Fortini sempre da un pessimismo conservatore. Non dalle cose. Penso alla mia formazione cattolica a Salerno. Non vi sono condannato. È possibile riordinare altrimenti quel vissuto e portare alla luce aspetti allora soffocati. [“l’introduzione di nuovi contenuti già di per sé comportava un’alterazione dei significati, quand’anche il sistema dei significanti potesse sembrare immutato”, Fortini, I poeti del ‘900, 119)

4.
Continuità e trasformazioni della mia scrittura. Anche dopo il ’68 ho continuato a scrivere. Non più poesie, ma volantini, documenti, appunti. Un impoverimento? Un impratichirsi?
Rispetto a prima del '68, è cambiata anche la gente che frequento. Sono cambiato io stando con loro. Ho
sbandato. Non è un demerito rispetto a quanti hanno tenuto più sotto controllo la trasformazione della realtà o se ne sono distanziati o l’hanno sorvolata. Colgo, perciò, un’enfasi individualistica sospetta nelle tante autocritiche che oggi sento sul periodo della militanza. Certo, non si superano i limiti propri della militanza scegliendo Fortini al posto di Lenin. Tornare a studiare con più cura la letteratura non equivale a cancellare i temi politici (e non solo i temi, ma problemi). L’antitesi letteratura-politica è falsa. Ci spinge a passare da una cosa ad un’altra, come se fossero separate. Al posto del ritorno alla letteratura voglio tentare un rendiconto di tutta la mia contorta formazione culturale, non essere ingabbiato in uno dei suoi segmenti.

5. Pavese. Elementi anticonformistici ed epici pur dentro un tessuto decadente (Fortini, Idem, pag.120). Mi predisposero alla rottura con Salerno, ma erano inadeguati a quello che trovai a Milano. Continuai per un po’ a sentire Pavese, soprattutto quello del diario come  un complice della mia vicenda personale (la donna “che fa male”). Poco afferrai allora dell’importante suo lavoro di traduttore e collaboratore Einaudi (un preciso lavoro) o di “compagno” (allora e fino alla vigilia del ‘68 non avevo sguardo politico). Alcuni libri di Pavese (Lavorare stanca, La letteratura americana e altri saggi) furono, assieme a La prigioniera di Proust e all'Ulisse di Joyce, le reliquie dei miei interrotti studi letterari che portai con me da Salerno a Milano. Forse per attenuare il rimorso che me ne venne. Ma con il ’68 e il rifiuto della letteratura, che in parte subii, la sua immagine svanì. Ricordo il fastidio che ebbi un giorno leggendo nelle sue Lettere 1924-1944, che avevo acquistato appena uscite nel ’66 - erano i primi libri che ricompravo, dopo essermi disfatto nel ’64 di quelli che avevo nei primi giorni dopo il matrimonio con R, vendendoli per difficoltà economiche su una bancarella di piazza Durante -  un passo contro i meridionali.

6. 

Montale. Non mi permette immedesimazioni. È così medio-alto borghese. Esorta Arsenio, il suo doppio «ad affrontare il temporale, ossia (simbolicamente) un’esistenza meno protetta e più audace». Ma quanto protetta era la mia esistenza a Salerno? E che tipo di “temporale” ho affrontato venendo a Milano? Salerno non era più città fascista, ma democristiana. I fascisti sconfitti operavano in ombra. (Però, anche nelle mia poesie ‘61-’62 tendevo all’uso di simboli…).


14 gennaio 1978

1.
Dario Bellezza. Concitazione che non riesco più a condividere. La Roma degli artisti, il “letto”, la “vita peccatrice”. Sui 17-18 anni avevo avuto (forse) spinte simili. Mi chiedo quali sconvolgimenti si sono prodotti in lui rispetto ad altre vite e quali parametri servirebbero per intenderlo. Mi procura angoscia: m’avvicina a qualcosa di rimosso. Mi succede qualcosa di simile anche di fronte a quelli dell’Autonomia.

2.

Spatola. «Assunzione di un punto di vista cosmogonico, originario, smisurato. Dal quale la storia tende ad apparire.. come pura vicenda biologica» (Fortini, Idem, pag. 23-24). Tentazioni simili mentre scrivevo Poesia della crisi lunga? Mi chiedo quali possano essere i punti d’incastro fra la realtà-linguaggio di questi poeti e la realtà-linguaggio mia (dei mie studenti, dei compagni che frequento). Droga, violenza, omosessualità: sono esperienze da cui mi sono “preservato”, che ho vissuto da spettatore, da esterno, ma non fino a smarrire il fondo comune che mi lega agli attori in queste realtà.

3.

Fare poesia continuando a stare con quelli che non ne scrivono o lo fanno di nascosto, per diletto, ecc. [Intervistare poeti clandestini e no?]. Contenere il desiderio di comunicare a chi ti sta attorno l’andamento della propria ricerca. Perché?

4.

Non ero, non potevo essere contemporaneo del Gruppo ’63 né partecipe in alcun modo delle tante altre iniziative letterarie di quegli anni. Si sono tutte svolte su un altro piano rispetto a quello da me vissuto. Questa distanza valeva di meno per le esperienze del neorealismo, che mi attrassero prima attraverso la lettura di Verga (e Pavese) e poi dei racconti di Domenico Rea, che leggevo a Salerno su Il Mattino comprato da mio padre. Un racconto perduto che avevo scritto attorno ai 18 anni  e che avevo mandato ad un concorso (di Noi donne?) trattava secondo moduli neorealistici la mia crisi di adolescente in rottura con la famiglia. L’avanguardia mi raggiunse soltanto attraverso le cartoline che riproducevano opere della pittura moderna, viste per la prima volta quando per alcuni mesi, verso la fine del liceo, frequentai a Salerno una Scuola di ceramica serale  e  grazie all'ammirazione che ne aveva uno studente del liceo artistico divenuto allora mio amico, Giovanni Pesce di Mercato San Severino.

5.

Che devo pensare dell’esaltazione o del lavorio che in certi ambienti letterari viene fatto attorno ai temi del folle, dell’assurdo, del gioco? Dalla mia collocazione a volte mi appare un fenomeno per raffinati. Mi ritraggo, me ne disinteresso. Eppure tanti seguono estasiati...

6. 

Avanguardisti e tradizionalisti. I primi mi suggestionano, mi sconcertano, mi fanno però restare passivo. Verso i secondi ho un atteggiamento più attivo e critico.

7.

Scrittura e militanza. Nella mia esperienza si sono scisse e escluse. Poteva andare diversamente?

8.

[Edoardo] Sanguineti. Riassumendo quel che ho capito: - il linguaggio è sempre ideologia, cioè stravolgimento della realtà; quindi critica del linguaggio “naturale”, mimetico, realistico; - il linguaggio, privo di corrispondenza con la realtà, nuvola che non lascia indovinare la materia da cui emerge, irrazionale, non per questo diventa inutile; - il linguaggio-ideologia (usato nella consapevolezza di quanta ideologia contiene) serve a spiare la realtà: il conflitto di classe che agita anche il linguaggio e lo rende veicolo di miti.

9. 

La poesia nasce da una particolare sensibilità storico-linguistica (orgoglio dannunziano, vergogna gozzaniana) costruitasi attraverso le pratiche secolari dei poeti ed è accompagnata anche da una particolare miopia e censura. Cadute le speranze di una rivoluzione sociale, l’antipoesia resta all’interno (spesso ai margini , bassi o alti) di questa pratica secolare, non fuori; è una variante della tradizione (G. Sica, Sanguineti, Il castoro, 1974, p. 21). Forse la vera negazione della poesia la fa chi la ignora. (Poeti, antipoeti, non poeti).


15 gennaio 1978

1.

Che differenza c’è fra il rifiuto della poesia grezzo dei ‘68ttini e quello culturalmente ipernutrito di Sanguineti?

2.
A volte la preferenza per un poeta è preferenza (non dichiarata) per il
corrispettivo politico di quel poeta. Si apprezza Montale e si accoglie anche la filosofia del Corriere della Sera, l’ideologia liberale, lo stile di vita della media borghesia. Come si fa a trovare interessante Balestrini, se non lo colleghi all’area dell’Autonomia? O ad aver stima di Fortini senza riversarla un po' anche su il manifesto?
Ogni scrittore ha il suo
alone politico, che magari non cogli subito. (Pavese aveva quello “comunista”, ma io, quando lo leggevo a Salerno, non lo coglievo). Anche se sto a Cologno, non tutte le vacche mi paiono oggi nere. Non posso fingere una ricerca ancora senza nessun punto fermo. La mia incertezza-simpatia verso l’avanguardia cede di fronte alle critiche di Fortini.

3.

Cos’è la storia di cui parla Sanguineti dalla sponda (da lui esplorata, però) della cultura psicanalitica? Come per Eliot, un «immenso panorama di futilità e anarchia» (Sica, Sanguineti, Il castoro, 1974, p.38)

4.

Dada, surrealismo, psicanalisi. Campi da attraversare. I novissimi, che stanno invecchiando in mezzo a noi, questo hanno fatto. C’è oggi uno smarrimento storico [e della storia] simile a quello degli anni ‘50-’60? Forse per i giovani. Noi non lo viviamo nei termini in cui essi lo vivono.

5.

Sanguineti sta al sublime del primo Montale e del primo Pasolini come Gozzano a D’Annunzio. Contro il sublime-aristocratico borghesizzato (ma anche contro il neorealismo) gioca la “semplicità” medio-piccolo borghese. «In Sanguineti c’è sempre questa medesima celebrazione di una vita prosaicamente mediocre, modulata sui toni di un realismo piccolo borghese tragico e onesto [?], virile e squallido al contempo, che, ormai frustrata ogni tensione eversiva e crollata ogni illusione, non offre alternative se non la rinuncia» ( Sica, p. 55). A questo mi-ci stiamo avviando?

Quotidiano e fin troppo realistico elenco di oggetti, figure, forme che, svuotati di ogni valore, sono costipati in uno spazio letterario in cui ogni pretesa logica a formulare gerarchie e dislivelli viene radicalmente negata... citazione caotica e sgangherata di segni... il caos della realtà (Sica, p.73).

Caos reale o rappresentazione caotica per paura della realtà? Sica parla della letteratura come «paradiso artificiale e asettico di una cultura in perpetua ritirata dalla realtà» (p.73). Letteratura da letteratura: «Il giuoco del Satyricon non è che un’operazione di riscrittura». Come mettere il naso fuori dalla finestra dei mass- media, allora?

Sempre su Sanguineti: «È evidente che l’eliminazione [dall’Antologia dei poeti del ‘900] di tutto il filone “realistico” [anche dialettale] o, per così dire, impegnato ha un significato preciso» ( Quaderni Piacentini n. 39, pag.224?)


25 ottobre 1978

Due appunti sul rifacimento (nel 1975) di  due poesie ‘62-64.

1. Ho trasformato Venere paesana in Lady Chatterly. Non ci siamo. A un’immagine assorbita culturalmente e non vissuta ne sostituisco un'altra altrettanto culturale. E poco importa che siano immagini classiche o vitalistiche (lawrenciane o pavesiane). Da letteratura a letteratura. Qual è il reale trascurato in questa operazione?

2. Appuntamenti. Tento di far emergere il singolo avvenimento e i personaggi prima trattati in modo impersonale (la ragazza, l’immigrato). Redazione proposta: la ragazza/ (credo in dio non ai preti)/ ha ricevuto/ la stretta serale/ e ritorna nel buio/ a labbra stanche/ ma decide lo sguardo/ e il suo passo/ Le scarpette rosse/ si piegano sicure/ consumate/ sfiabate/ Io intasco quel tramonto:/ ho una ragione/ di un centinaio di passi/ per la mia disperazione.


12 agosto 1978

1.

Prima di rivolgerti a un critico esperto come Fortini, decifrati. Non chiedere ad altri di decifrarmi. Pubblicare non dev’essere per me una rivincita (su chi?) né un darmi in pasto. Conservare nel cassetto le poesie è stato segno di prudenza e non solo di timidezza. La prudenza serve ancora oggi. Altri ostacoli si sono aggiunti nel frattempo: prima c’era il purismo militante; oggi il bisogno di poesia è così facilmente riconosciuto, da far temere operazioni losche in corso. E poi i rapporti che ho con gli altri che scrivono poesie restano fragili. Non voglio arruolarmi nei poeti di movimento. Sono senza partito sia in politica che in arte. Nel frattempo quanti anni sono passati e quanti danni derivati dall’oscurità e dall’isolamento devo rimediare! Forse nella lotta col tempo sarò sconfitto. Resta la rottura del ’68. Non perderla di vista.

2.

Poesie ‘62-’63. Non c’è nostalgia dell’infanzia, ma una voglia di spiegare a me stesso i nodi (famiglia, donne, solitudine) che mi hanno ossessionato. Le scrissi con addosso un’ansia violenta di farmi adulto, di andare disarmato all’assalto di una città ignota, di innamorarmi, di avere amici; e così “aggredire” la realtà da cui mi sentivo separato.


16 ottobre 1978

Poesie ‘77-’78. Rileggo con commozione il dattiloscritto. Scrivendo poesie così intessute del quotidiano e del sociale in cui soffrivo normalmente, ho afferrato qualcosa che mi premeva (e opprimeva). Ho anche bruciato le velleità di fare il poeta-letterato. Essere uno dei tanti mi va bene.


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