Per una storia dei moltinpoesia/Appunti
In questo articolo del 6 febbraio 2013 mi paiono interessanti due punti:
Scrivevo infatti: «Tra le risposte di Eco mi hanno colpito in particolare i passaggi in cui ricorda: – il rapporto competitivo ma tutto sommato abbastanza cordiale tra vecchi e giovani letterati (gli incontri del sabato al Blu Bar di piazza Meda a Milano); – la condizione sociale benestante e “garantita” dei partecipanti piccoli-medi borghesi del Gruppo ’63 («Noi eravamo già sistemati, tutti lavoravamo già nelle case editrici, nei giornali, in televisione e nell’università») ben distante da quella del precariato intellettuale odierno e dell’attuale ceto medio in via d’impoverimento; – la sua disincantata constatazione della impossibilità cinquant'anni dopo di fare gruppo («Siamo in un’epoca di cani sciolti»); – l’attrazione (per lui fatale e condizionante) del mercato («si metta nella situazione di uno scrittore che vede intorno a sé un mercato che può trasformare il suo prodotto in qualcosa che gli permette di vivere»); – «la possibilità e il gusto del confronto», che allora c’era («l’esperienza del Gruppo 47 tedesco, scrittori sperimentali che si ritrovavano a leggere i propri testi e poi a criticarsi ferocemente l’un l’altro») e che oggi è irreperibile».
Appendice. Tre commenti
1. Giorgio Linguaglossa
Interessantissima questa intervista a Eco per riflettere su
quello straordinario fenomeno che ha causato la nascita della neoavanguardia,
il fenomeno chiamato Anni Sessanta. Il problema è che con il '68 il Gruppo 63
era già stato superato dalla Storia; la strategia sanguinetiana di fare della
neoavanguardia una avanguardia permanente era legata al suo interesse personale
di legare il proprio nome e la propria poesia alla contestazione permanente del
‘68 che il ‘68 aveva inaugurato. Oggi dobbiamo chiederci: Bilancio. Nelle
condizioni di stagnazione spirituale e di recessione economica odierne: che
cosa è rimasto oggi della neoavanguardia? Che cosa è rimasto del clima di
dileggio dei "vecchi" letterati di quegli anni e di anticonformismo?
Chiediamoci: 1) È possibile una Nuova neo-post-avanguardia nel Dopo il Moderno? 2) È ormai la poesia diventata un fenomeno di neo-retroguardia? 3) Che cosa è rimasto del «vecchio» Novecento? 4) Siamo entrati nella «radura» della Poesia o nella Poesia «superficiaria»? 5) Liquidare, come fa Giuseppe Conte, il fenomeno «storico» della neoavanguardia quale operazione di «scalata alle posizioni di potere editoriale», è una posizione storica corretta o un facile cedimento a uno stereotipo culturale? 6) Il fenomeno delle neoavanguardie degli Anni Sessanta va inquadrato nel generale movimento Modernista della cultura europea? Nel mio studio critico "Dalla lirica al discorso poetico. Storia della poesia italiana 1945-2010" (EdiLet, Roma pp. 400), ho tentato di esporre una tesi molto semplice (in Europa orma viene utilizzata da 100 anni): che la migliore poesia de Novecento la si rinviene nella tradizione modernista. Ed è nell'ambito del Modernismo, in quel quadro culturale che sono state possibili congiunture culturali e artistiche come il Gruppo 47 in Germania, il gruppo Tel quel in Francia, il Gruppo 63 in Italia etc. – Occorre spostare l'ottica con cui si guarda al percorso artistico del Novecento e alle sue espressioni culturali e adottare finalmente la categoria centrale di modernismo per poter spiegare fenomeni culturali che, altrimenti, rischiano di non essere adeguatamente comprese nei loro intrecci storici
Riflettendo sui tuoi due libri [di Linguaglossa], avevo già indicato alcune mie riserve sulla tua
posizione “filo-modernismo”. Le confermo adesso, malgrado la (per me in parte
sorprendente) attenzione data al modernismo da Luperini. Tu sostieni che «la
migliore poesia de Novecento la si rinviene nella tradizione modernista». Può
darsi. Ma a me non interessa scovare soltanto dove si trovi la migliore poesia.
Ho guardato sempre con qualche simpatia il tentativo delle avanguardie storiche
(e con diffidenza maggiore quello delle neoavanguardie). Per
quell'idea di futuro a cui alludevano; e che a me non pare fosse riducibile soltanto alla ricerca della “migliore poesia”; semmai ad una critica dell’istituto
storico della poesia. Con un risultato alla fine – è vero – più destruens che costruens. Accertare la fine o l’impossibilità oggi di qualsiasi
avanguardia non mi induce però a cancellare del tutto il problema *non
puramente estetico* che si posero. Quanto al saggio di Luperini sul
modernismo, a me pare utilissimo soprattutto per i chiarimenti e gli inquadramenti
storici che fa del concetto, distinguendolo - a me pare giustamente - dall’area del decadentismo. Ma
non so fino a che punto si possa parlare di “rivalutazione” del modernismo. Luperini, da critico, fa un lavoro di sistemazione storiografica: corregge le
interpretazioni confuse dei manuali scolastici, che confondono modernismo e
decadentismo, e quelle liquidatorie di Asor Rosa, che vede decadentismo dappertutto. E
circoscrive il fenomeno: «Come couche culturale, il modernismo si
estingue con l’avvento del neorealismo postbellico, quando si impone una nuova
cultura ispirata da Gramsci e dal marxismo e da poetiche dell’impegno civile.».
Inoltre, distingue nettamente modernismo e avanguardia, pur indicandone l’unica
origine: «gli autori modernisti, pur nascendo dalla stesso parto, assumono
caratteri diversi [dall’avanguardia] in ordine alla concezione del tempo (intermittente
o seriale nei modernisti, genetica o dialettica negli avanguardisti, per
esprimerci nei termini di Compagnon I cinque paradossi della modernità, Il
Mulino, Bologna 1993, p. 70.), al rapporto con la tradizione, al modo stesso di
concepire il lavoro letterario». E afferma anche chiaramente – altro
elemento di utile distinzione – che «le avanguardie tuttavia non esauriscono le
possibilità del modernismo, ne esprimono solo un versante, quello più
oltranzista, volto a rompere i ponti col passato, a mettersi alla testa di un
processo che deve anticipare il futuro e far trionfare il progresso, e infine,
coerentemente, a travalicare l’azione estetica in azione politica».
Non indica, infine, il modernismo come poetica-modello, come tendi a fare
tu [Linguaglossa]. A me pare, per concludere frettolosamente, di dover ancora
scavare però “in direzione fortiniana”, direzione che non so quanto possa
essere avvicinata al fenomeno del modernismo. Nella ricerca di Fortini, pur
imbevuta di hegelismo ma mai del tutto appiattita su quella cultura
marxistica che assieme alla idealistica tendeva a liquidare troppe cose
come Decadentismo, ci sono spunti utili sia per cogliere i limiti delle
avanguardie sia quelli (che per me pur ci sono…) del modernismo.
3. Lucio Mayoor
Fare gruppo senza che ci siano affinità, senza un'idea
comune, non dico una somiglianza ma almeno una particolare stima reciproca,
tenuti insieme unicamente dal rispetto, dalla cortesia e dalle buone maniere, a
me sembra un'impresa squinternata per forza destinata a fallimento. Ed è un
bene, perché altrimenti si starebbe in un generico contenitore, non in un
gruppo di artisti affamati di novità e d'avventura. La città è piena di
associazioni culturali dove la gente si ritrova in questa maniera, per forza non
ne esce niente. Ci si affida all'insondabile immaginario degli altri che, si
sa, stravolge e ingigantisce ogni cosa. Tanta immagine, quando c'è, e poca
sostanza. Si potrebbe dire che tutto il novecento sia stato così, gruppi di
amici si ritrovavano ad essere protagonisti di movimenti che la storia
dell'arte (la critica) trasformava in eventi epocali. E tutt'al più erano
faccende che duravano meno di un decennio, e spesso era un metter insieme
artisti che tra loro non c'entravano per niente. Dietro la storia dell'arte si
nasconde la storia della critica. Forse è questa l'idea di fondo che ha mosso
Ennio Abate nel suo intento di fare gruppo? Infatti l'obiezione principale
mossa da Ennio è quella dell'impossibilità di "ricucire il legame tra
critica e poesia". Pochissimi tra i Molti l'hanno seguito per questa
strada, ma una ragione ci deve pur essere. Si fa critica anche quando si entra
nei problemi specifici della scrittura, non solo alzando asticelle
genericamente intellettuali. In un laboratorio conta il lavoro, non solo la
teoria. Conta anche il gioco, la scrittura, conta il mezzo con cui ci si vuole
esprimere. E' da questo confronto, da questa gara direi, che potranno nascere
affinità e comunanza d'intenti. Ma i Molti sono una scommessa, persone che non
si uniscono per scelta e ammirazione reciproca cosa possono fare? dove possono
andare? ma poi: cosa li potrebbe unire?
Nessun commento:
Posta un commento