lunedì 8 novembre 2021

Moltinpoesia: né neoavanguardisti né heideggeriani

 

Per una storia dei moltinpoesia/Appunti

In questo articolo del 6 febbraio 2013 mi paiono interessanti  due punti:

1.  La lettura di un’intervista in cui Umberto Eco rievocava i caratteri del Gruppo ’63, che servì a capire la distanza abissale del Laboratorio Moltinpoesia da quella esperienza d'élite letteraria.
Scrivevo infatti: «Tra le risposte di Eco mi hanno colpito in particolare i passaggi in cui ricorda: – il rapporto competitivo ma tutto sommato abbastanza cordiale tra vecchi e giovani letterati (gli incontri del sabato al Blu Bar di piazza Meda a Milano); – la condizione sociale benestante e “garantita” dei partecipanti piccoli-medi borghesi del Gruppo ’63 («Noi eravamo già sistemati, tutti lavoravamo già nelle case editrici, nei giornali, in televisione e nell’università») ben distante da quella del precariato intellettuale odierno e dell’attuale ceto medio in via d’impoverimento; – la sua disincantata constatazione della impossibilità cinquant'anni dopo di fare gruppo  («Siamo in un’epoca di cani sciolti»); – l’attrazione  (per lui fatale e condizionante) del mercato («si metta nella situazione di uno scrittore che vede intorno a sé un mercato che può trasformare il suo prodotto in qualcosa che gli permette di vivere»); – «la possibilità e il gusto del confronto», che allora c’era («l’esperienza del Gruppo 47 tedesco, 
scrittori sperimentali che si ritrovavano a leggere i propri testi e poi a criticarsi ferocemente l’un l’altro») e che oggi è irreperibile».
L'esperienza del Laboratorio Moltinpoesia, appena conclusasi, era stata agli antipodi di quella: «sporadici o del tutto assenti i rapporti tra vecchi e giovani; estraneità al sistema delle case editrici dei giornali, della televisione e delle università; estraneità al mercato; difficoltà estrema del confronto e quasi impossibilità di ricucire il legame tra poesia e critica».  Mi accorgevo che non era stato possibile «il passaggio da me sperato e suggerito con insistenza dall’io/noi al noi» (almeno di un gruppo relativamente omogeneo).


2. La  contrapposizione tra la mia idea di moltinpoesia, che non intendeva rinunciare alla critica della poesia (d’ascendenza fortiniana e marxista e non neoavangurdistica)  pur avendo presente la dimensione ambigua, di massa,  esterna all'industria culturale del fenomeno dei moltinpoesia e quella estetizzante e heideggerianeggiante (si notino le espressioni  «stagnazione spirituale»«entrati nella «radura» della Poesia o nella Poesia «superficiaria») di Giorgio Linguaglossa, con il  quale allora  ancora tentavo di confrontarmi e collaborare; e che poi andrà per la sua strada di "ombreggiatore della Parola".


Appendice. Tre commenti

 

1. Giorgio Linguaglossa

Interessantissima questa intervista a Eco per riflettere su quello straordinario fenomeno che ha causato la nascita della neoavanguardia, il fenomeno chiamato Anni Sessanta. Il problema è che con il '68 il Gruppo 63 era già stato superato dalla Storia; la strategia sanguinetiana di fare della neoavanguardia una avanguardia permanente era legata al suo interesse personale di legare il proprio nome e la propria poesia alla contestazione permanente del ‘68 che il ‘68 aveva inaugurato. Oggi dobbiamo chiederci: Bilancio. Nelle condizioni di stagnazione spirituale e di recessione economica odierne: che cosa è rimasto oggi della neoavanguardia? Che cosa è rimasto del clima di dileggio dei "vecchi" letterati di quegli anni e di anticonformismo?

Chiediamoci: 1) È possibile una Nuova neo-post-avanguardia nel Dopo il Moderno? 2) È ormai la poesia diventata un fenomeno di neo-retroguardia? 3) Che cosa è rimasto del «vecchio» Novecento? 4) Siamo entrati nella «radura» della Poesia o nella Poesia «superficiaria»? 5) Liquidare, come fa Giuseppe Conte, il fenomeno «storico» della neoavanguardia quale operazione di «scalata alle posizioni di potere editoriale», è una posizione storica corretta o un facile cedimento a uno stereotipo culturale? 6) Il fenomeno delle neoavanguardie degli Anni Sessanta va inquadrato nel generale movimento Modernista della cultura europea? Nel mio studio critico "Dalla lirica al discorso poetico. Storia della poesia italiana 1945-2010" (EdiLet, Roma pp. 400), ho tentato di esporre una tesi molto semplice (in Europa orma viene utilizzata da 100 anni): che la migliore poesia de Novecento la si rinviene nella tradizione modernista. Ed è nell'ambito del Modernismo, in quel quadro culturale che sono state possibili congiunture culturali e artistiche come il Gruppo 47 in Germania, il gruppo Tel quel in Francia, il Gruppo 63 in Italia etc. – Occorre spostare l'ottica con cui si guarda al percorso artistico del Novecento e alle sue espressioni culturali e adottare finalmente la categoria centrale di modernismo per poter spiegare fenomeni culturali che, altrimenti, rischiano di non essere adeguatamente comprese nei loro intrecci storici



2.  Ennio Abate

Riflettendo sui tuoi due libri [di Linguaglossa], avevo già indicato alcune mie riserve sulla tua posizione “filo-modernismo”. Le confermo adesso, malgrado la (per me in parte sorprendente) attenzione data al modernismo da Luperini. Tu sostieni che «la migliore poesia de Novecento la si rinviene nella tradizione modernista». Può darsi. Ma a me non interessa scovare soltanto dove si trovi la migliore poesia. Ho guardato sempre con qualche simpatia il tentativo delle avanguardie storiche (e con diffidenza maggiore quello delle neoavanguardie). Per quell'idea di futuro a cui alludevano; e che a me non pare  fosse riducibile soltanto alla ricerca della “migliore poesia”; semmai ad una critica dell’istituto storico della poesia. Con un risultato alla fine – è vero – più destruens che costruens. Accertare la fine o l’impossibilità  oggi di qualsiasi avanguardia non mi induce però a cancellare del tutto il problema *non puramente estetico* che si posero. Quanto al saggio di Luperini sul modernismo, a me pare utilissimo soprattutto per i chiarimenti  e gli inquadramenti storici che fa del concetto, distinguendolo - a me pare giustamente - dall’area del decadentismo. Ma non so fino a che punto si possa parlare di “rivalutazione” del modernismo. Luperini, da critico, fa un lavoro di sistemazione storiografica: corregge le interpretazioni confuse dei manuali scolastici, che confondono modernismo e decadentismo, e quelle liquidatorie di Asor Rosa, che vede decadentismo dappertutto. E circoscrive il fenomeno: «Come couche culturale, il modernismo si estingue con l’avvento del neorealismo postbellico, quando si impone una nuova cultura ispirata da Gramsci e dal marxismo e da poetiche dell’impegno civile.». Inoltre, distingue nettamente modernismo e avanguardia, pur indicandone l’unica origine: «gli autori modernisti, pur nascendo dalla stesso parto, assumono caratteri diversi [dall’avanguardia] in ordine alla concezione del tempo (intermittente o seriale nei modernisti, genetica o dialettica negli avanguardisti, per esprimerci nei termini di Compagnon I cinque paradossi della modernità, Il Mulino, Bologna 1993, p. 70.), al rapporto con la tradizione, al modo stesso di concepire il lavoro letterario». E  afferma anche chiaramente – altro elemento di utile distinzione – che «le avanguardie tuttavia non esauriscono le possibilità del modernismo, ne esprimono solo un versante, quello più oltranzista, volto a rompere i ponti col passato, a mettersi alla testa di un processo che deve anticipare il futuro e far trionfare il progresso, e infine, coerentemente, a travalicare l’azione estetica in azione politica».   Non indica, infine, il modernismo come poetica-modello, come tendi a fare tu [Linguaglossa]. A me pare, per concludere  frettolosamente, di dover  ancora scavare però “in direzione fortiniana”, direzione che non so quanto possa essere avvicinata al fenomeno del modernismo. Nella ricerca di Fortini, pur imbevuta di  hegelismo ma mai del tutto appiattita su quella cultura marxistica che assieme alla idealistica tendeva a liquidare troppe cose come Decadentismo, ci sono spunti utili sia per cogliere i limiti delle avanguardie sia quelli (che per me pur ci sono…) del modernismo.

 

3. Lucio Mayoor

Fare gruppo senza che ci siano affinità, senza un'idea comune, non dico una somiglianza ma almeno una particolare stima reciproca, tenuti insieme unicamente dal rispetto, dalla cortesia e dalle buone maniere, a me sembra un'impresa squinternata per forza destinata a fallimento. Ed è un bene, perché altrimenti si starebbe in un generico contenitore, non in un gruppo di artisti affamati di novità e d'avventura. La città è piena di associazioni culturali dove la gente si ritrova in questa maniera, per forza non ne esce niente. Ci si affida all'insondabile immaginario degli altri che, si sa, stravolge e ingigantisce ogni cosa. Tanta immagine, quando c'è, e poca sostanza. Si potrebbe dire che tutto il novecento sia stato così, gruppi di amici si ritrovavano ad essere protagonisti di movimenti che la storia dell'arte (la critica) trasformava in eventi epocali. E tutt'al più erano faccende che duravano meno di un decennio, e spesso era un metter insieme artisti che tra loro non c'entravano per niente. Dietro la storia dell'arte si nasconde la storia della critica. Forse è questa l'idea di fondo che ha mosso Ennio Abate nel suo intento di fare gruppo? Infatti l'obiezione principale mossa da Ennio è quella dell'impossibilità di "ricucire il legame tra critica e poesia". Pochissimi tra i Molti l'hanno seguito per questa strada, ma una ragione ci deve pur essere. Si fa critica anche quando si entra nei problemi specifici della scrittura, non solo alzando asticelle genericamente intellettuali. In un laboratorio conta il lavoro, non solo la teoria. Conta anche il gioco, la scrittura, conta il mezzo con cui ci si vuole esprimere. E' da questo confronto, da questa gara direi, che potranno nascere affinità e comunanza d'intenti. Ma i Molti sono una scommessa, persone che non si uniscono per scelta e ammirazione reciproca cosa possono fare? dove possono andare? ma poi: cosa li potrebbe unire?

 


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