di Ennio Abate
Non
voglio fare la lezione a nessuno, ma non posso tacere il
disagio che provo a leggere certa poesia d’oggi (e spesso anche
quella che si vuole “poesia civile” o tocca in vari modi proprio
il tema della guerra).
Se
insisto a pensare alla guerra e ad incitare altri a farlo, non è
perché ne sia
affascinato. Neppure
presumo
di sapere
di violenza o di guerra molto di
più di quelli a cui ancora
a volte mi rivolgo.
Anzi
ritengo che tutti siamo in estrema
difficoltà nel pensare la guerra.
Innanzitutto perché apparteniamo
a generazioni che
direttamente
non l’hanno
mai fatta
o
ne hanno subìto molto
indirettamente
le sempre
pesanti conseguenze. (Io,
pur
se
sono nato nel 1941 in
piena Seconda guerra mondale e in una città - Salerno - particolarmente segnata dai bombardamenti, ne sono stato solo sfiorato).
E anche
l’eventuale
conoscenza,
che abbiamo potuto avere da libri, film o giornali sulle
guerre dei nostri padri e nonni o sulle guerre in altri Paesi, resta comunque occasionale, limitata e
insufficiente. Ma
il mio discorso si rivolge in particolare ai poeti – miei coetanei
o delle generazioni più giovani – e ad essi mi sento di porre un
problema che riguarda proprio il non rapporto tra poesia e
guerra, che rende non impossibile ma più arduo pensare la guerra e non semplicemente parlarne
o esprimere indignazione o sgomento o auspicare che venga sostituita
dalla pace. E voglio anche ricordare che, fosse stato un poeta pure su un campo di
battaglia (come lo furono Ungaretti e Rebora, ad esempio) o vicino
agli eventi più tragici che una guerra sempre produce, è la stessa
forma-poesia a fare da doppio filtro contro la realtà
orrorifica della guerra. (Ma posso accogliere l’ipotesi che
essa – la forma-poesia – possa essere stata un quasi necessario scudo o
paraocchi contro questa Medusa che, guardata in volto,
annienterebbe chi la guardi).
Per la consapevolezza raggiunta di quanto
sia inadatta (e persino insidiosa) la forma-poesia a pensare la guerra, da
una parte m’irrita la superficialità di molta “poesia civile”
che, ignara di questo limite, danza e ricicla versi sulla guerra e le sue
vittime: più o meno pensosamente, fin troppo civilmente,
inconsapevolmente ipocrita; e, d’altra parte, non sopporto
quelli che invitano a cancellare la stessa questione del non
rapporto tra poesia e guerra e vogliono continuare a “fare
poesia” e basta (o a ”fare quello che i poeti sanno fare,
scrivere poesie”).
Una
correzione s’impone. A me stesso e agli altri poeti. Per tentare,
tolti il doppio filtro o i paraocchi sia della “poesia autentica”
e sia della “poesia impegnata”, una poesia capace di immaginarsi
in posizione estrema. Com’è quella – purtroppo realissima –
dei civili bombardati. I poeti, cioè, per pensare la guerra devono fare
i conti con quelli che la guerra la fanno. Devono almeno immaginare
di doversi presentare davanti ai generali, ai boia, ai torturatori
professionisti, ai soldati addestrati ad ammazzare o ai politici e
banchieri che impassibili si servono di costoro e traggono vantaggi
dalle guerre. Devono, cioè, rifiutare prima di tutto di imboccare la via
facile e abusata: quella dov'è ancora possibile praticare una poesia
che in fin dei conti si rivolge esclusivamente agli inesperti della guerra, ai pacifisti "naturali”, ai tantissimi esorcisti "spotanei" che la
guerra non la vogliono né vedere né pensare.