venerdì 19 luglio 2024

I poeti in tempo di guerra non pensano abbastanza (5)

 


di Ennio Abate


Non voglio fare la lezione a nessuno, ma non  posso tacere  il disagio che provo a leggere certa poesia d’oggi (e spesso anche quella che si vuole “poesia civile” o tocca in vari modi proprio il tema della guerra).
Se insisto a pensare alla guerra e ad incitare altri a farlo, non è perché ne sia affascinato. Neppure presumo di  sapere di violenza o di guerra molto di più di quelli a cui ancora a volte mi rivolgo. Anzi ritengo che tutti siamo in estrema difficoltà nel pensare la guerra.
Innanzitutto perché apparteniamo a generazioni che direttamente non l’hanno mai fatta o ne hanno subìto molto indirettamente le sempre pesanti conseguenze. (Io, pur se sono nato nel 1941 in piena Seconda guerra mondale e in una città - Salerno - particolarmente segnata dai bombardamenti, ne sono stato solo sfiorato). E anche l’eventuale conoscenza, che abbiamo potuto avere da libri, film  o giornali sulle guerre dei nostri padri e nonni o sulle guerre in altri Paesi, resta comunque occasionale, limitata e insufficienteMa il mio discorso si rivolge in particolare ai poeti – miei coetanei o delle generazioni più giovani – e ad essi mi sento di porre un problema che riguarda proprio il non rapporto tra poesia e guerra, che rende non impossibile ma  più arduo pensare la guerra e non semplicemente parlarne o esprimere indignazione o sgomento o auspicare che venga sostituita dalla pace. E voglio anche ricordare che, fosse stato un poeta pure su un campo di battaglia (come lo furono Ungaretti e Rebora, ad esempio) o vicino agli eventi più tragici che una guerra sempre produce, è la stessa forma-poesia a  fare da doppio filtro contro la realtà orrorifica della guerra. (Ma posso accogliere l’ipotesi che essa – la forma-poesia – possa essere stata un quasi necessario scudo o paraocchi contro questa Medusa che, guardata in volto, annienterebbe chi la guardi). 
Per la consapevolezza raggiunta di quanto sia inadatta (e persino insidiosa) la forma-poesia a pensare la guerra, da una parte m’irrita la superficialità di molta “poesia civile” che, ignara di questo limite, danza e ricicla versi sulla guerra e le sue vittime: più o meno pensosamente, fin troppo civilmente, inconsapevolmente ipocrita; e, d’altra parte, non sopporto quelli che invitano a cancellare la stessa questione del non rapporto tra poesia e guerra e vogliono continuare a “fare poesia” e basta (o a ”fare quello che i poeti sanno fare, scrivere poesie”). 
Una correzione s’impone. A me stesso e agli altri poeti. Per tentare, tolti il doppio filtro o i paraocchi sia della “poesia autentica” e sia della “poesia impegnata”, una poesia capace di immaginarsi in posizione estrema. Com’è quella – purtroppo realissima – dei civili bombardati. I poeti, cioè, per pensare la guerra devono fare i conti con quelli che la guerra la fanno. Devono almeno immaginare di doversi presentare davanti ai generali, ai boia, ai torturatori professionisti, ai soldati addestrati ad ammazzare o ai politici e banchieri che impassibili si servono di costoro e traggono vantaggi dalle guerre. Devono, cioè, rifiutare prima di tutto di imboccare la via facile e abusata: quella dov'è ancora possibile praticare una poesia  che in fin dei conti si rivolge esclusivamente agli inesperti della guerra,  ai pacifisti "naturali”, ai tantissimi  esorcisti "spotanei" che la guerra non la vogliono né vedere né pensare.

2 commenti:

Anonimo ha detto...

Se lo fanno, non li pubblica più nessuno e tocca loro uscire dalla Matrix.

Anonimo ha detto...

se commenti "dalla parte della guerra" cosa cambia?
occorre in pensiero forte -bellicoso?- sulla guerra
e ci risiamo!