Restituiscimi,
tu puoi, le lunghe note
o la curva
che aprì improvvisa sui destini
non solo
miei e tuoi ma incolorò il mondo
coi
pastelli, filtrati i suoni, contrastato
il tempo
che imprime e vìola i sostegni,
e gli
archi, le tenerezze delle sponde
ti prego
qui ridammele così come
si
specchiarono sul fiume, il nostro
ti ricordi,
e poi ci fu una guerra
ma che non
ricordo quale, forse
un mondo
alla rovescia, un segnale
male
interpretato, disfatte voci,
morì
qualcuno, non mi dicesti niente
fammi
appoggiare alla finestra, forse
non è che
sono io che sto morendo
adesso?
Dimmi.
*
Aforisma di
te stesso
dopo giorno
giorno
hai raspato
il fondo a croste
bruciate le
narici nell’acido
odore dei
trapassi.
Da oggi che
altro inventerai?
Non più
declinazioni dell’azzurro
che nel
celeste sfiora aguzzi monti.
Nemmeno le
tempeste,
non più
quelle ormai,
solo
grigiori, o il catrame nero,
insolenti
carene delle barche
esposte al
sole nude
a
sgretolarsi senza più viaggi.
Giocherai
d’alterigia o di distacco,
d’indifferenza
che come panno sporco
asciuga i
piatti e lascia l’unto?
Sconfitto
dal tuo gioco
nascosto il
capo nella veste
affronterai
così la doppia morte
del tradimento
venduto per rivoluzione.
*
Un pugno di
terra, vuoi? disse la luna
e scavalcò
la zolla, ragnatele di gelo
come di
diadema lampi, poi fu il buio.
Quanto è
fonda la notte se non batte il cuore
che me ne
faccio, indurite le mani,
dei tuoi
doni luna, un viandante saluta da lontano
solo per un
attimo, solo per un attimo
ho sperato
con me condividesse
le ossa
rotte del silenzio dove ammutoliscono
gli
scriccioli fra le piume sott’ala.
Solo adesso
so che la morte è passata di qui
e al
momento si è liquefatta nello stagno.
06.02.2012
6 commenti:
La tua tristezza entra impetuosamente e si fa natura. Tutto mirabilmente descritto. Una rivoluzione vissuta o subita? Non importa . Rita è grande, Emy
Interessanti sensazioni fermate in un verseggiare che cattura con descrizioni essenziali. Piaciute.
c'è musicalità in questi versi, tipica della bella poesia.
raaf
Capisco questa voragine esistenziale che chiamano tristezza, c'è di buono che fa sorgere domande, e c'è di buono che produce versi che non ti aspetteresti perché, a ben vedere quando si è tristi, almeno io, i versi belli non li vorrei neanche.
E' vero che un poeta minimamente informato e intelligente sa delle difficoltà social-culturali in cui si trova ad operare, ma poi deve fare i conti con se stesso e con i suoi ideali, con le sue maniere di scrivere che si presentano ad ogni parola che scrive. Questi ideali creativi io non li so comprendere ma li riconosco in ciascuno, almeno mi sembra.
Di queste poesie apprezzo particolarmente il verso d'inizio perché è linguaggio poetico senza tentennamenti, e se la poesia s'introduce subito è meglio secondo me. Poi si può andare di riserva. Ma le parole rapiscono, s'attorcigliano nell'estetica... per posarsi in un verso. E uno cancellerebbe tutto il resto.
In evidenza:
"non è che sono io che sto morendo / adesso?
"Quanto è fonda la notte se non batte il cuore / che me ne faccio"
"Solo adesso so che la morte è passata di qui"
Grazie.
mayoor
Ennio Abate:
Il tono generale dei tre componimenti a me non pare triste, ma assorto. Come di chi, in profonda solitudine, parla con un tu-fantasma.
Il primo è sicuramente il più drammatico. Chi è l’ignoto o l’ignota confidente di chi parla in questi versi? Non una divinità, mi pare. Una figura che resta sfumata, indefinita - un fantasma del passato, appunto - con la quale c’è stato un legame profondo e che ora è rimeditato nell’elegia.
E cosa gli si chiede davvero? Azzarderei: nientemeno che di rivivere quel (proustiano?) dolcissimo tempo perduto quasi prenatale e metafisico, accennato da un mondo a pastelli (i colori dell’infanzia!), da suoni «filtrati» (e dunque non violenti). Più indecifrabili sono quegli «archi» (ipotizzo di un ponte, ma non sono certo) e soprattutto quel «tempo che imprime e vìola i sostegni».
Le cose perse, ma di cui con caparbietà e con un’invocazione appassionata si chiede la restituzione,
sono abbastanza indefinite, forse intime, indicate allusivamente («le lunghe note», « la curva che aprì improvvisa sui destini» (di entrambi), «le tenerezze delle sponde»). Definito nella sua fisicità placida, anche se pur esso non nominato, è solo il fiume, in cui quelle “cose” «si specchiarono» (al passato) e che viene detto «nostro».
È questa elegia (d’amore e d’infanzia?) che è andata persa a causa di una guerra. Una delle tante, perché, con sprezzo o disperazione, non viene detto nemmeno quale fu; e ciò conferma che la riflessione si pone su un piano astorico e molto intimo e che quello stato d’animo e appena recuperabile nella memoria ( e forse in una poesia di memoria).
Notevole stilisticamente mi pare che l’evocazione della guerra rende convulso il dettato del componimento. C’è quasi un ingorgo affannoso, come se la vicenda non potesse (non dovesse?) essere narrata. Il tono si fa di rimprovero («non mi dicesti niente»). E nel finale ecco una sorta di potente cortocircuito: tra la morte evocata («morì qualcuno») e l’angoscia di morte, che coglie chi parla («non è che sono io che sto morendo/ adesso?»).
Nel secondo componimento, più freddo, leggo la figura di un resistente. Bella, anche per l’inaspettata riduzione a un tono “casalingo”, l’immagine dell’indifferenza paragonata a un «panno sporco» che «asciuga i piatti e lascia l’unto».
Nel terzo, più che il dialogo un po’ criptico con la luna, attira quel viandante che «saluta da lontano». Un incontro («solo per un attimo, solo per un attimo») mancato, che ha fatto battere il cuore, preferito ai doni (freddi?) della luna. Non mi pare che il viandante, comunque vitale e fascinoso, possa essere la morte «passata di qui». Non mi piace, invece, l’immagine della morte «liquefatta nello stagno».
da Rita Simonitto
Per questo mio commento mi scuso per il ritardo, dovuto a impegni di lavoro nonché a ‘capricci’ del mio PC. Ma non volevo perdere l’occasione per ringraziare Ennio non solamente per la sua generosa sollecitudine nel dare attenzione ai miei componimenti. C’è un altro motivo per dirgli ‘grazie’, ben più importante, ed è connesso all’esercizio del suo ‘supporto critico’ alla poesia, cosa che mi ha dato molto da riflettere.
Lo chiamo ‘supporto critico’, anziché ‘critica’ tout court, perché non si limita ad esprimere una valutazione soggettiva sul testo (mi piace/non mi piace; mi emoziona/non mi emoziona, mi dice cose/non mi dice niente), bensì porta *un’analisi del testo attraverso il testo*, cerca di seguire il *cosa attraverso il come*. Pone domande anziché fornire delle risposte immediate.
Io credo che questo ‘modello’ di critica sia utile per integrare ed arricchire il lavoro fatto da chi scrive e che aggiunga alla ‘poetica’ una ‘poietica’ in quanto coinvolge un altro al lavoro dell’Io (= noi?).
Diventerebbe una specie di ‘ermeneutica’, una dotazione di senso che vale non solo per il lettore ma anche per lo scrittore stesso che così può accedere, attraverso la lettura che ne viene fatta, a strati di inconsapevolezza, che pur guidavano il suo scrivere, ma di cui non ne era pienamente consapevole.
Non appena disporrò di un po’ più di tempo, e se me ne verrà data la possibilità, mi piacerebbe precisare meglio su Moltinpoesia il mio intendimento a partire sia dal mio lavoro ma anche da suggestioni prodotte, su questo blog, da commenti e precisazioni di Emy e Mayoor su “Ottocento” di Emilia.
Un caro saluto a tutti.
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