Per una storia dei moltinpoesia/Appunti
Riporto dal sito di POLISCRITTURE l'articolo di Donato Salzarulo e i commenti che documentano la riflessione sul perché scriviamo poesie avvenuta tra febbraio e marzo 2009 nel Laboratorio Moltinpoesia di Milano [E. A.]
Per la gloria della lingua
di Donato Salzarulo
Tra il 2008 e il 2009 nel Laboratorio Moltinpoesia i partecipanti si
assegnarono il compito di spiegare perché scrivessero poesie. Io ne facevo
parte e composi il testo che si può leggere di seguito. Il suo intento
didascalico è evidente.
Scrivo poesie perché
un giorno d’autunno del
Sessanta tre
comprai un quadernone e
sul frontespizio scrissi
“Canzoniere”
(sottotitolo: “storia di
un’anima”).
Facile indovinare chi
imitavo.
Il problema è che l’anima
dovevo
inventarmela e quella che
pensavo
di avere era tutta recitata
e letteraria:
Omero, Quasimodo, Garcia
Lorca,
Ungaretti, Baudelaire,
Pavese…
Oh, quante voci dentro la
mia voce!
In certi momenti ho avuto
paura
di confezionarmi un destino
da suicida
come Noschese, se non
sbaglio, o altri
imitatori che soffrono
di non sapere chi sono.
Rileggendo ciò che andavo
scrivendo,
capivo che sulla pagina
si depositava
un altro Donato – per chi
crede alle stelle
sono nato sotto il segno
dei Gemelli -,
un Donato che manifestava
una certa
inclinazione alla
teatralità,
alla finzione,
all’operetta: cantavo
giovanette che mi
conquistavano,
m’infliggevo sofferenze
amorose,
piangevo le morti
improvvise
di uomini illustri del
paese,
la disperazione di madri
che si ritrovavano
figli spenti tra le
braccia. Insomma, amore
e morte e caterve di
sciagure.
“Gioire è cercare il
dolore” recita un verso
paradossale del
quadernone.
In ciò che andavo
poetando c’era
qualcosa di vero e
sincero. Ma tanti
esercizi, anche
appassionati, somigliavano
molto ai giochi simbolici
dei bimbi.
Ad una certa età la
spalliera della sedia
può farsi davvero volante
di una macchina
e il bastone diventare un
cavallo
col quale attraversare
praterie sconfinate
e combattere battaglie
cruente.
Un po’ dunque mi scoprivo
l’inclinazione
dell’attore, un po’
quella del bambino
che sogna ad occhi
aperti.
Ma l’attore dispone di
una grande
riserva di personaggi da
rifare:
Achille, Romeo, Otello,
Amleto…
Il mio personaggio,
invece, dovevo
costruirmelo come
Geppetto
il suo burattino. Anche i
miei sogni
ad occhi aperti non
potevano
concludersi alla stregua
di un bambino
che, di solito, si stanca
e cambia gioco.
Dovevano produrre
conquiste
reali, avanzamenti.
Dovevo sentire che le
parole
davvero penetrassero nel
cuore
di una donna e la
inducessero
ad abbracciarmi,
a regalarmi un bacio.
Se amava la mia poesia,
se diceva che era
bellissima,
un po’ non poteva non
amare
anche il suo autore.
Come se, cantando gli
occhi ridenti
e fuggitivi di una certa
Silvia,
prima o poi la Silvia
vivente
si facesse avanti a
ringraziarmi
per l’omaggio e a
propormi
suggestivi accoppiamenti.
Quando scrivevo il
Canzoniere
era questo il mio
problema più urgente,
in preda sicuramente ad
accumuli
straordinari di ormoni.
Non sognavo
l’immortalità ma più
modestamente
cercavo di mettere le
mani addosso
a una fanciulla per
inebriarmi del profumo
dei limoni. «Belli questi
versi!...»
«Bellissimi!...»
«Grazie…»”
Da qui, da questa calda
ammirazione,
a venire a letto con me
scorreva
un Rubicone tempestoso
e spesso non navigabile.
Nessun dado è tratto.
Avrei dovuto saperlo:
se con la poesia cerchi
amore,
dieci volte su dieci, vai
in bianco.
Ecco cosa dovetti capire
a mie spese. Sbagliavo,
m’illudevo,
deducevo male.
Amore è potere. Sedurre l’altro,
soggiogarlo. Scrivevo per
piantare
una quercia nei cuori.
Forse perché,
avendomi interdetto
prestissimo
il suo seno (era incinta
di mio fratello),
mia madre mi costrinse a
cercare
sostituti senza trovarne
mai
di completamente
soddisfacenti.
Scrivi poesie per un
Edipo
mal risolto, direbbe uno
psicanalista,
perché anche dopo un
accoppiamento
nel corpo vola alta
l’inquietudine,
la ricerca, la tensione.
Belli e reali i seni succhiati
ma sempre un po’ lontani
da quelli ideali sognati.
Amore è vivere come un
rimbambito
appeso al moto delle
ciglia
di uno sguardo. Fare
festa alle visioni,
alle apparizioni
dell’amata. Conservare
accuratamente la foto in
qualche libro
o nel portafoglio, stare
dietro al profumo
viola di una maglia,
inseguire desideri
assurdi del tipo:
ascoltare la stessa
musica, leggere lo stesso
romanzo,
pensare gli stessi
pensieri, gioire
delle stesse gioie, viaggiare
negli stessi luoghi,
dormire
nello stesso letto e
coire,
coire…È il “sogno
d’amore”.
Le donne lo conoscono
meglio
degli uomini e io, a mia
volta,
scrivendo poesie,
imparavo
a conoscere la parte
affidatami.
So ancora ora mostrare
entusiasmo vero per chi
mi punta
e mi tiene sulla linea di
fuoco
dello sguardo. Ma è
l’entusiasmo
di un attore, di una
recita
così ben fatta da
sembrare
naturale. Sono un egoista
allora?
Uno che non sa amare?
No!... Semplicemente lo
faccio
in modo obliquo, per
interposte
parole. Come se tra me e
le labbra
da baciare ci fosse in
mezzo
un vetro immaginario.
Ho la coscienza
dell’attore,
a differenza di chi bacia
e pensa di porgermi in
diretta
le sue labbra, mentre sta
solo
eseguendo uno spartito.
A fare l’amore si sa
nel letto si è spesso più
di due.
Tutte queste
complicazioni
ovviamente le capivo solo
scrivendo e soltanto
scrivendo
continuavo a cercarmi
e a conquistarmi. Capivo,
ad esempio,
che ognuno di noi finisce
per abitare i pensieri
che formula,
anche quando spuntano
come nuvole
provenienti non si sa da
dove.
Difficile che i pensieri
si sciolgano
come neve al sole. A
maggior
ragione i versi. Così mi
porto
dietro da decenni quel
“gioire
è cercare il dolore”
senza sapere
da quali zone del corpo è
saltato fuori.
(In quel periodo leggevo
Baudelaire).
Ecco perché scrivo
poesie. Per continuare
a scoprirmi.
Per questo tipo
di scrittura mi sono dato
la regola
di andare fino in fondo.
Anche se,
avendo scoperto che divento
un po’
ciò che scrivo – è il
noto “effetto Pigmalione” –
sto attento a profezie
che accelerano
la morte già intenta a
scavare
nel mio corpo. Sfuggire
alla tragedia
è impossibile. Accelerarla,
non mi pare
il caso. Per questo,
quando scoprii
che scrivendo poesie
sulle malattie
di mia madre, mi educavo
alla sua assenza
e inconsapevolmente ne
preparavo
la morte, smisi subito di
verseggiare.
Poetai a lungo, invece,
la condizione
di un’amica affetta da un
male inesorabile
che di lì a poco
l’avrebbe resa invisibile.
Volevo portare con me la
sua voce,
il suo sguardo sul mondo.
Volevo
che non si perdessero le
sue parole,
che ne restasse memoria.
Ecco un'altra ragione del
mio scrivere.
Inseguire persone,
eventi,
mondi che si perdono e
sprofondano
in abissi di silenzio.
Non dimenticarne
colori, atmosfere,
sapori, allegrie,
dolori. Non dimenticare
me stesso,
combattere il morbo
d’Alzheimer
che quotidianamente ci
affligge.
Poesia e identità, poesia
e amore,
poesia e profezia, poesia
e memoria,
poesia e verità…Tutte
coppie
per ottime occasioni
seminariali,
tutti sentieri che mi
pare
d’avere attraversato.
Ora, però,
scrivo poesie per altro.
Oltre al già
detto, sempre attivo nei
neuroni,
ora scrivo “per la gloria
della lingua”,
come dicevano i padri.
Successo
o non successo, la poesia
non mi
eviterà la morte. La
lingua, invece,
è la rosa di rossetto che
rinnovo,
l’atmosfera, il palco su
cui provo
e riprovo le parole. Ora
le sento colorate
dai toni della mia voce,
le frasi
raccontano la mia storia,
i versi
non temono la prosa del
mondo.
La lingua della poesia è
la mia donna,
quella amata più a lungo,
la matria che mi
sottrasse
il seno.
15 gennaio 2009
Ennio Abate
A testimonianza della
dialettica io-noi praticata (sia pur in modi zoppicanti e non senza contrasti)
nell’esperienza del Laboratorio Moltinpoesia (2006-2012) aggiungo al contributo
che Donato [Salzarulo] ha oggi pubblicato tutti i contributi di altri partecipanti
che ho ritrovato nella cartella Moltinpoesia del mio PC.
Ecco il mio:
Ennio Abate 3
febbraio 2009
io faccio poesia perché…
1.
Nel dopoguerra
quando sono nato
i miei genitori
mi mandarono a scuola.
(Se non fossi andato a
scuola
– unico posto in cui uno
figlio di un carabiniere
e di una casalinga
sarta e ricamatrice da giovane
poteva imbattersi
in cose dai maestri
chiamate poesie
non mi sarebbe venuto in mente
di fare poesie)
2.
Ragazzo, una volta
lessi in un libro di scuola
La fontana di Palazzeschi
mi tornò alla mente
il paese che avevo lasciato
e pieno di nostalgia
scrissi la mia prima poesia.
3.
Quando in un vicolo di Salerno
ottenni il primo incontro
con la ragazza
che poi, in una poesia
chiamai “dei preti”
– occhi strabici
ma dolcissima –
e la baciai sotto un lampione
pioveva
e la cosa mi commosse
tanto da scriverla.
4.
Mi sono strappato
dalla gialla casa mediterranea
dagli aranceti
dai passeri
dalle primavere
e volenteroso e incauto
apprendista
ho voluto iniziare a Milano
un mio particolare immigratorio
nel moderno bidone metropolitano.
5.
Altri l’hanno fatta prima
di me
e chi va dietro a zoppi
come Dante, Leopardi, Pavese
e tanti altri
impara a ben zoppicare.
6.
Non posso cambiare da solo il mondo
e la poesia è la pozzanghera
che mi ha lasciato la bufera sociale:
sta nella melma
ma riflette ancora il cielo
e i suoi nembi gloriosi…
7.
… quando la vita – gli altri, le altre –
mi mette da parte
e allora fingo d’inseguirla,
di riacchiapparla
– la vita –
e ne costruisco con le parole
un doppione
che pare respirare;
ed è invece il rantolo
delicato e ancora umano
della vita morente
con cui m’addestro alla mia morte
INDAGINI POETICHE
di Sarina Aletta
Perché scriviamo?
Creare…oltre pura ambizione della forma,
è remoto sogno di stellata perfezione.
Ma l’essere umano brandisce con fatica la parola
inseguendo miti d’irraggiungibile bellezza che sfuggono…
volano via…posandosi sempre un po’ più in la.
E se le parole, come le vesti spinose dello scorfano,
fossero mimetiche difese…maschere o corazze?
E se accadesse…esattamente il contrario?
O se invece affidando il tempo alla scrittura
e la scrittura al tempo, giocassimo…ad esorcizzare la morte?
Tutte le risposte del mondo non valgono una domanda
e di domanda in domanda si rischia di incontrare l’indicibile.
Noi procediamo soltanto a caccia di ipotesi,
tra indizi e sospetti…lungi dall’istruttoria.
Se è vero che per comprendere l’attimo puoi solo mangiarlo,
e poiché l’umano ama mangiare in compagnia,
tanto più se può permettersi una fame non solo fisica,
è facile immaginare che ognuno mangi/scriva golosamente
o disperatamente,
nella voglia di comunicare ad altri, e a se stesso,
il sapore fuggevole dei propri attimi.
E dunque scrittura come difesa…
dal famigerato tempo tritatutto che,
diciamolo pure, non è mai stato straordinario…
come vorrebbe credere chi dice: “Ai miei tempi…”
Insomma perché… gettiamo dadi di parole su spazi bianchi,
mettendo a fuoco nebulose dell’anima,
in un eterno autoritratto tra cubismo e astrazione?
Indagine sterminata da rimandare saggiamente ai posteri che, come ben sappiamo,
sono efficientissimi in materia.
E in noi resta il
sospetto che la scrittura sia sempre un alibi
insinuando o svelando più di quanto vorremmo scoprire
e forse, ancora una volta, è pur vero il contrario.
Ma, come sempre, alle soglie del profondo ci fermiamo
su questa lieve fugace indagine piacevolmente inutile
se non ad alimentare il sospetto,
già insinuato dall’esule Anassagora
e minimizzato da Shakespeare,
che le storie, in fondo, siano pochissime, forse una sola: inevitabile, caleidoscopica
e seducente,
ripetuta da sempre e diversa, in infiniti giochi di parole.
Marcella Corsi
Perché faccio poesia
Per riflettere
intimamente su me stessa e il mondo
Per capire quel che non mi direi altrimenti e farlo capire ad altri che
altrimenti non saprei come
Per riprogettarmi
Per produrre bellezza che attivi e duri
Per amore
Per cambiare il mondo (il mio e quello più ampio)
Per sopravvivere anche da sola (in comunicazione con i poeti i cui versi mi
parlano)
Per sentirmi in comunicazione con il passato dei migliori e contribuire a
configurare un futuro
Per nostalgia di quel che non vivo (o non ho vissuto)
Per rabbia di ciò che accade e desiderio di cambiamento nella percezione di chi
legga
Per ricordare e immaginare
Per consegnare qualcosa di quel che ho capito e di quanto mi è stato (o mi è)
caro
Perché non ho il tempo di scrivere (forse? per ora?) testi meno sintetici
Perché amo l’intreccio di squisitamente soggettivo ed evidentemente universale
che la connota
Perché sono stata una bambina solitaria e curiosa, appassionata e sensitiva, un
poco visionaria
Perché sento l’esigenza della vigile solitudine che attira e attiva la poesia
Perché l’arte (dello scrivere versi) mi affascina nella sua necessità di
disciplina, libertà, apertura emotiva e relazionale, attenzione all’essenziale,
sincerità, ricerca formale, sintesi , …
Perché una poesia dice molto di più di quanto il suo autore non voglia o sappia
Perché una poesia che riconosco significativa è un regalo in sé, e non si sa
dove possa arrivare
Perché vivere il mondo da poeta (cercare verità e modo efficace di dirla) è
quello che mi dà senso e forza e quando questo sguardo, questo gesto mi
sfuggono il mondo mi pare un deserto sconosciuto
Perché non posso fare a meno di farlo
Paolo Pagani
intorno alla vostra
discussione su “poesia”, vi faccio omaggio di questi splendidi versi di
PASTERNAK, che hanno il pregio – ben raro ! – di unire asciuttezza, intensità
ed originalità (paolo pagani)
Poesia, giurerò
su di te, e finirò con un raglio:
Tu non sei il bel portamento d’un fine dicitore,
Tu sei un’estate in terza classe,
Tu sei periferia e non canto”.
Luciano Roghi
Scrivo poesie perché
immagino abbiano la stessa durata di un giorno, di un respiro, o di qualcosa
che abbia uno spazio circoscritto.
Preferisco la frase che, nell’inizio, ha già la sua conclusione.
Il racconto mi appare impegnativo, perché segue una traccia da cui si diramano
poi mille altre
strade, delle quali è necessario unire i fili.
La poesia invece è lineare, un’istantanea raccolta di emozioni fulminee:
l’infinito mi appare troppo esteso per non perdermi o per non temere di
perdermi.
Enzo Giarmoleo
Quando pensava a Proust,
si rammaricava di non “aver sfruttato meglio” l’asma e la bronchite cronica
ereditata dal periodo passato con i nonni in Nuova Scozia , che avevano
trascurato la sua salute. Elizabeth Bishop, grande amica di Robert Lowell, era
comunque cosciente che la solitudine patita da bambina aveva dilatato la sua
immaginazione in modo abnorme. Elizabeth perse il padre a otto mesi e la madre,
impazzita per il dolore, all’età di cinque anni. La madre era stata ricoverata
in un ospedale psichiatrico e lì restò fino alla morte.
Leonardo Terzo
Che allegria! Ci
crogioliamo nello stereotipo del genio tutto follia, sofferenza e malattia?
Meglio Rabelais!
Indovinello: qual è quel
personaggio che alla domanda: Lei ha avuto un’infanzia infelice? Risponde: No,
ho avuto una maturità infelice! L’intervistatrice insiste: Lei conosce molti
scrittori? Si, qualcuno. Ma preferisco le persone!
Grazia De Benedetti
POESIA PERCHE’ I
io faccio poesia
perché trabocco
e restituisco al mondo
la gioia e lo strazio
ch’ogni giorno mi sommerge
io faccio poesia
perché emozioni e pensieri
s’impuntano alle labbra
e mi perdo in loro
giocando a vestirli di suoni
io faccio poesia
quando l’onda si ritrae
e sulla rena tra le tracce flebili
raccolgo un pentagramma di parole
io faccio poesia
perché
il vento mi percuote
e nel silenzio immane che s’incunea
percepisco
il grido sommesso dell’altro
e lo propago.
POESIA PERCHE’ II
Dentro mi cantano parole
tintinnano timide
o urlano indignate.
Canzone dell’anima
sgorga a fiotti, sangue di ferita,
zampilla di passione,
erompe improvvisa e cerca tra i sassi
percorso,
non sa dove o perché,
paga d’esistere e scorrere
di rinfrescare
e lasciare
flebile traccia.
Giorgio Mannacio
MOLTINPOESIA : Incontro
del 3 febbraio 2009
Tema : perché si scrive poesia.
Appunti per la discussione
Io porrei la domanda in
termini diversi:
perché tu fai poesia ?
Allo specchio (sdoppiando quindi il mio in un alter ego cui rivolgere la
domanda di cui sopra ) non mi sono mai posto una domanda così esplicita.
Oggi , “ costretto a farlo” per una sorta di dovere di ufficio risponderei
così:
1) Come tutti, vivo –
nell’esistenza intesa come unità – vite diverse, disparate nei loro
contenuti.Per quanto mi riguarda mi sono trovato a vivere la vita del figlio,
del padre, del giudice, del marito, del nonno e via dicendo. Si è trattato di
vite in cui la “prassi” ha soverchiato la contemplazione/meditazione (teoria),
nel corso di esse sono stati predominanti i “ rapporti di comunicazione e di
scambio “ e se meditazione vi è stata è stata *con le cose* non *sulle cose*.
2) Per alcuni tali vite
riempiono l’esistenza, la realizzano in pieno; per altri ciò non succede. Si
tratta di differenze individuali che affondano nella nostra struttura condizionante.
Io appartengo alla seconda categoria, né migliore né peggiore della prima ;solo
differente.
3) Io ho trovato nella
poesia uno spazio vitale per meditare sulle cose, esplicare sulle stesse (non
con le stesse) una sorta di contemplazione (teoresi), lontana dallo scambio.
Ciò non significa che la poesia sia l’unico mezzo per fare ciò né che sia il
migliore (forse è il peggiore per cui è sempre necessario *sospettare della
poesia*). Per me è stato il mezzo appropriato alle mie possibilità.
4) La scelta è
condizionata da fattori diversi, interconnessi (fisiologici, socio-culturali).
Vi è una propensione genetica alla poesia? Non si deve escluderlo. Quanto ai
fattori soci-culturali, per chiarire il mio pensiero e non per fare
autobiografia dirò quanto segue:
a – ho aperto gli occhi su una vastissima biblioteca privata stracolma di testi
di poesia;
b – mio padre – letterato finissimo – la domenica mattina mi chiamava nel suo letto
e mi leggeva testi poetici adatti alla mia età (meno di 10 anni). Così ho conosciuto
L’albatros di Baudelaire, sonetti di Belli e Salvatore Di Giacomo, testi di
Palazzeschi e dei Futuristi oltre ai soliti (Pascoli, Leopardi, etc.). Pensate
che non vi sia stata alcuna influenza? Domanda retorica.
5) Per completare il
discorso credo che il contesto socio-culturale influisca anche *sui modi e sui
contenuti delle poesie che si scrivono*.
Mon coeur mis à nu: della guerra ho visto *solo* il primo bombardamento di
Milano; un motociclista tedesco che chiedeva informazioni su una strada per la
ritirata di una colonna e qualche bagliore di fuoco nello Stretto di Messina;
non ho vissuto contrasti ideologici o intolleranze: nel paese nel quale fui
sfollato per tre anni (nel profondo Sud) due avvocati comunisti, sorvegliati
speciali, giocavano ogni giorno a tressette con una sorta di federale locale
fascista, loro amico.
Freud sostiene che l’infanzia è determinante sulla qualità dei rapporti futuri.
Si può predicare questo anche per le modalità del fare poesia? Questo il quadro
generale. Potrei aggiungere solo dei dettagli, ma non inventarmi altre ragioni
o scuse.
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