di Ennio Abate
”Sui confini della poesia” (1978) si legge in “Nuovi saggi italiani 2” alle
pagg. 313-327 del volume della Garzanti pubblicato nel 1987. Si tratta di una
lezione che Fortini tenne presso l’università del Sussex nel maggio 1978. Il
testo non è di agevole lettura forse perché rivolto a un pubblico di
studiosi. Negli anni passati l'ho letto più volte avendo in mente la questione
dei moltinpoesia, di cui mi
occupai soprattutto ai tempi del Laboratorio Moltinpoesia di Milano
(2006-2013). E su di esso ho già scritto su Poliscritture nel 2020 (qui).
Da lì ricavo oggi
questa sintesi. I numeri tra parentesi rimandano alle pagine del
libro di Fortini. [E. A.]
1. Ai suoi tempi Fortini vide lucidamente che nel campo della poesia e
della critica letteraria si stava affermando una «brutale divaricazione di
posizioni: vitalismo esasperato, che si potrebbe chiamare neosurrealista […]
oppure formalismo esasperato, indifferente agli aspetti referenziali». E capì
che si stava arrivando alla «progressiva scomparsa degli “oggetti”
artistici e poetici». Semplificando: alla crisi della poesia, che è il tema su
cui da tempo insisto. Ne traeva conclusioni drastiche: non c’era più
spazio per svolgere quella latente funzione estetica e pedagogica che la grande
tradizione borghese aveva coltivato. Chiusa per sempre la «via estetica
all’umanesimo», che la sua generazione aveva tentato ancora di percorrere con
buone ragioni, ci si trovava di fronte alla «distruzione radicale di quella
prospettiva» (318). E a causa di un mutamento avvenuto non
all'interno del mondo della poesia e dei poeti ma nella «realtà
socioeconomica del presente», e cioè in quel capitalismo che ha assunto varie
forme nel mondo oggi contraddittoriamente globalizzato.
2. In modo sorprendente o scandaloso (ma solo per chi è tuttora convinto che la poesia abbia una sua indistruttibile autonomia qualunque sia il contesto storico in cui venga a trovarsi), Fortini, non si rammaricava di questa crisi né s'aggrappava nostalgicamente a un passato più o meno glorioso, ma invitava a «domandarsi se tale distruzione non [fosse] benefica». Se, cioè, inabissatisi «due secoli di estetica borghese», non si potesse, con più chiarezza che in passato, riproporre il «tema antichissimo e futuro» - presente in Lukàcs - del compimento della vita umana nelle «sue più profonde possibilità» (318). Che – lo dico per il pubblico d’oggi – per il Fortini cosiddetto “ideologo”, cioè marxista critico, coincideva con la propsettiva del comunismo. (Nel 2017 ne ho scritto qui qui e qui.
3. Da questo saggio di Fortini cosa potrebbero oggi apprendere i moltinpoesia? Che la
bellezza della poesia, raggiungibile dando forma all'informe, è sempre
ambivalente: da una parte, infatti, «la forma poetica [pare avere ancora]
una sua autonoma forza liberatrice» (324) ma «proprio in quanto forma [..] si
oppone al mutamento, ha anche una sua dimensione conservatrice o conciliatrice»
(324). O con le parole di Horkheimer e Adorno: «il canto della poesia e
dell’arte è al servizio del dominio non solo perché è frutto dell’agio e del
consumo come spreco e piacere ma perché la promessa di felicità e l’immagine di
pienezza, che arte e poesia portano con sé, non possono essere che promesse e
immagini, fiori sulle catene» (324).
Oggi, poi, nell’epoca post-borghese (o postmoderna), esse hanno un volto ancor
più ambiguo che in passato. E se Lukàcs guardò con preoccupazione «l’importanza
crescente attribuita alla letteratura e all’arte dall’età romantica ad oggi» e
fu (giustamente) sospettoso verso l’«estetizzazione del mondo» (325), oggi, imparando
anche da Debord, il sospetto andrebbe esteso all’intera «società dello
spettacolo» che, riducendo tutto a «apparenza e fantasma» (326), ha
moltiplicato e ingigantito «la crescita del processo di reificazione in ogni
altra parte dell’attività umana».
4. Contro semplificazione e faciloneria i moltinpoesia apprenderebbero
da Fortini altre due cose: - che in
poesia il conseguimento della forma «comporta caratteri severi di sforzo e di
progetto» (321); e cioè fatica, studio, «organizzazione, volontà, ascesi,
selezione»; - che, se si riconosce l’esistenza di un limite esterno (storico e
politico) al fare poetico, ai poeti (e ai moltinpoesia) viene
richiesto di spingersi - appunto – sui confini della poesia. Per non
accontentarsi di una sua forma o qualità
qualsiasi inseguendo soltanto il proprio desiderio (banalmente: l'ispirazione)
o certi pregiudizi libertari, che finirebbero per riprodurre anche in poesia la
«proliferazione “produttiva” dell’inutile» o la nichilistica «dissolutio vitae della
produzione capitalistica e della sua fabbrica di spettri» (321).
5. Secondo me, per i moltinpoesia questo saggio fortiniano
è un ammonimento importante. Fortini
sembra dire (almeno questa è la mia interpretazione): per le vicende tortuose
della storia siete giunti in un luogo dove un tempo c'era la Poesia, ma ora non c’è più. Non può esserci più per voi la nicchia, quell’«ultimo luogo che la
sclerosi della reificazione non ha ancora totalmente invaso» (325); e «l’antico
sogno schilleriano di una “educazione estetica dell’umanità” si è trasformato
in una crescente demolizione dell’universo dei significati a favore di un
universo dei significanti» (326). Lo capite o no che altri stanno dando
forma - e non certo poeticamente ma in modi devastanti - alla «vita medesima» (e forse anche a una possibile
nuova poesia)? Se date per fallita ogni «ipotesi di una trasformazione degli
uomini» secondo quella «proposta
di integrità umana» (325) che fu il lascito dell'umanesimo, vi rassegnerete a
una poesia che resterà ancora «un segno di miseria oltre che di grandezza; ma
soprattutto [sarà ancora] la prova di una ripetuta sconfitta umana» (325). E
per contrastare questa crisi, alla fine del saggio, egli delinea una sua proposta: non rinunciare mai
alla forma («l’opera proprio perché chiusa potrebbe essere arma a comprendere
la realtà aperta e informale» (327) ma essa deve contenere in sé una «tensione
ad inglobare, affrontare ed elaborare quel che sta oltre le [sue] frontiere»
(327). Se, dunque, forzando «la tendenza centripeta di ogni opera, il suo
tendenziale rifiuto ad altro da sé», la poesia «si porta ai propri
confini, riafferma l'esigenza che gli uomini raggiungano controllo,
comprensione e direzione della propria esistenza» (327). Così «il valore
di ogni forma è anche etico-politico» (321) e non, dunque, soltanto estetico.
Non mira, cioè, solo alla bellezza (o peggio al successo, al gradimento).
6. I moltinpoesia parrebbero posti da questo saggio
davanti a un bivio. La crisi della poesia li può spingere ad abbandonare la
poesia per sostituirla con qualche
altro valore. (Ai tempi di Fortini poteva essere ancora l’obiettivo della
politica o del comunismo). Oppure, per reazione e rinuncia, scegliere un
ritorno alla poesia dei “veri poeti”, che si ergono da veri reazionari e
nostalgici contro ogni sconfinamento della poesia, magari prendendo a
pretesto le confuse ed eterogenee pretese dei moltinpoesia, presentati
esclusivamente come arruffoni, confusionari, ignoranti di metrica, regole,
mestiere. (Si pensi
all'antologia La parola innamorata del 1979 o oggi
alle posizioni di Berardinelli e Marchesini).
7. Per concludere, a me viene da pensare addirittura che i moltinpoesia siano già fuori
dai confini della poesia. E non so dire se sia un bene o un male. Insisto,
perciò, sul fatto che essere molti in poesia è segno di
questa crisi della poesia mentre trovo
illusorio per tutti tentare di
tornare alla poesia di una volta con i suoi rassicuranti codici. Non
voglio, con questo, dare ad
intendere che allora esiste già una poesia dei moltinpoesia. Essa
potrebbe essere come un pianeta sconosciuto che può forse essere pensato ma non verificato
con gli strumenti critici che oggi possediamo. E avessimo anche a
disposizione uno studio sull’intera e mai indagata produzione di testi
dei moltinpoesia, credo che le incertezze rimarrebbero. Siamo
appena agli inizi di un processo
che non siamo in grado di delineare.
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