mercoledì 3 maggio 2023

MOLTINPOESIA. APPUNTO 12: "Sui confini della poesia" di F. Fortini

 



di Ennio Abate

”Sui confini della poesia” (1978) si legge in “Nuovi saggi italiani 2” alle pagg. 313-327 del volume della Garzanti pubblicato nel 1987. Si tratta di una lezione che Fortini tenne presso l’università del Sussex nel maggio 1978. Il testo non è di agevole lettura forse perché rivolto a un pubblico di studiosi. Negli anni passati l'ho letto più volte avendo in mente la questione dei moltinpoesia, di cui mi occupai soprattutto ai tempi del Laboratorio Moltinpoesia di Milano (2006-2013). E su di esso ho già scritto su Poliscritture nel 2020 (qui). Da lì ricavo oggi questa sintesi. I numeri tra parentesi rimandano alle pagine del libro di Fortini. [E. A.]

 

1. Ai suoi tempi Fortini vide lucidamente che nel campo della poesia e della critica letteraria si stava affermando una «brutale divaricazione di posizioni: vitalismo esasperato, che si potrebbe chiamare neosurrealista […] oppure formalismo esasperato, indifferente agli aspetti referenziali». E capì che si stava arrivando alla «progressiva scomparsa degli “oggetti” artistici e poetici». Semplificando: alla crisi della poesia, che è il tema su cui da tempo insisto. Ne traeva conclusioni drastiche: non c’era più spazio per svolgere quella latente funzione estetica e pedagogica che la grande tradizione borghese aveva coltivato. Chiusa per sempre la «via estetica all’umanesimo», che la sua generazione aveva tentato ancora di percorrere con buone ragioni, ci si trovava di fronte alla «distruzione radicale di quella prospettiva» (318). E a causa di un mutamento avvenuto non all'interno del mondo della poesia e dei poeti ma nella «realtà socioeconomica del presente», e cioè in quel capitalismo che ha assunto varie forme nel mondo oggi contraddittoriamente globalizzato. 

2. In modo sorprendente o scandaloso (ma solo per chi è tuttora convinto che la poesia abbia una sua indistruttibile autonomia qualunque sia il contesto storico in cui venga a trovarsi), Fortini,  non si rammaricava di questa crisi né s'aggrappava nostalgicamente a un passato più o meno glorioso, ma invitava a «domandarsi se tale distruzione non [fosse] benefica». Se, cioè, inabissatisi «due secoli di estetica borghese», non si potesse, con più chiarezza che in passato, riproporre il «tema antichissimo e futuro» - presente in Lukàcs - del compimento della vita umana nelle «sue più profonde possibilità» (318). Che – lo dico per il pubblico d’oggi – per il Fortini cosiddetto “ideologo”, cioè marxista critico, coincideva con la propsettiva del comunismo. (Nel 2017 ne ho scritto qui qui e qui.

3. Da questo saggio di Fortini cosa potrebbero oggi apprendere i moltinpoesia? Che la bellezza della poesia, raggiungibile dando forma all'informe, è sempre ambivalente: da una parte, infatti, «la forma poetica [pare avere ancora] una sua autonoma forza liberatrice» (324) ma «proprio in quanto forma [..] si oppone al mutamento, ha anche una sua dimensione conservatrice o conciliatrice» (324).  O con le parole di Horkheimer e Adorno: «il canto della poesia e dell’arte è al servizio del dominio non solo perché è frutto dell’agio e del consumo come spreco e piacere ma perché la promessa di felicità e l’immagine di pienezza, che arte e poesia portano con sé, non possono essere che promesse e immagini, fiori sulle catene» (324).
Oggi, poi, nell’epoca post-borghese (o postmoderna), esse hanno un volto ancor più ambiguo che in passato. E se Lukàcs guardò con preoccupazione «l’importanza crescente attribuita alla letteratura e all’arte dall’età romantica ad oggi» e fu (giustamente) sospettoso verso l’«estetizzazione del mondo» (325), oggi, imparando anche da Debord, il sospetto andrebbe esteso all’intera «società dello spettacolo»  che, riducendo tutto a «apparenza e fantasma» (326), ha moltiplicato e ingigantito «la crescita del processo di reificazione in ogni altra parte dell’attività umana».

4. Contro semplificazione e faciloneria i  moltinpoesia apprenderebbero da Fortini altre due cose: -  che in poesia il conseguimento della forma «comporta caratteri severi di sforzo e di progetto» (321); e cioè fatica, studio,  «organizzazione, volontà, ascesi, selezione»; - che, se si riconosce l’esistenza di un limite esterno (storico e politico) al fare poetico, ai poeti (e ai moltinpoesia) viene richiesto di spingersi - appunto – sui confini della poesia. Per non accontentarsi di una sua forma o qualità qualsiasi inseguendo soltanto il proprio desiderio (banalmente: l'ispirazione) o certi pregiudizi libertari, che finirebbero per riprodurre anche in poesia la «proliferazione “produttiva” dell’inutile» o la nichilistica «dissolutio vitae della produzione capitalistica e della sua fabbrica di spettri» (321).  

5. Secondo me, per i moltinpoesia questo saggio fortiniano è un ammonimento importante. Fortini sembra dire (almeno questa è la mia interpretazione): per le vicende tortuose della storia siete giunti in un luogo dove un tempo c'era la Poesia, ma ora non c’è più. Non può esserci più per voi la nicchia, quell’«ultimo luogo che la sclerosi della reificazione non ha ancora totalmente invaso» (325); e «l’antico sogno schilleriano di una “educazione estetica dell’umanità” si è trasformato in una crescente demolizione dell’universo dei significati a favore di un universo dei significanti» (326). Lo capite o no che altri stanno dando forma - e non certo poeticamente ma in modi devastanti - alla «vita medesima» (e forse anche a una possibile nuova poesia)? Se date per fallita ogni «ipotesi di una trasformazione degli uomini» secondo quella «proposta di integrità umana» (325) che fu il lascito dell'umanesimo, vi rassegnerete a una poesia che resterà ancora «un segno di miseria oltre che di grandezza; ma soprattutto [sarà ancora] la prova di una ripetuta sconfitta umana» (325). E per contrastare questa crisi, alla fine del saggio, egli delinea una sua proposta: non rinunciare mai alla forma («l’opera proprio perché chiusa potrebbe essere arma a comprendere la realtà aperta e informale» (327) ma essa deve contenere in sé una «tensione ad inglobare, affrontare ed elaborare quel che sta oltre le [sue] frontiere» (327). Se, dunque, forzando «la tendenza centripeta di ogni opera, il suo tendenziale rifiuto ad altro da sé», la poesia «si porta ai propri confini, riafferma l'esigenza che gli uomini raggiungano controllo, comprensione e direzione della propria esistenza» (327). Così «il valore di ogni forma è anche etico-politico» (321) e non, dunque, soltanto estetico. Non mira, cioè, solo alla bellezza (o peggio al successo, al gradimento).

6. I moltinpoesia parrebbero posti da questo saggio davanti a un bivio. La crisi della poesia li può spingere ad abbandonare la poesia per sostituirla con qualche altro valore. (Ai tempi di Fortini poteva essere ancora l’obiettivo della politica o del comunismo). Oppure, per reazione e rinuncia, scegliere un ritorno alla poesia dei “veri poeti”, che si ergono da veri reazionari e nostalgici contro ogni sconfinamento della poesia, magari prendendo a pretesto le confuse ed eterogenee pretese dei moltinpoesia, presentati esclusivamente come arruffoni, confusionari, ignoranti di metrica, regole, mestiere. (Si pensi all'antologia  La parola innamorata  del 1979 o oggi  alle  posizioni di Berardinelli e Marchesini). 

7. Per concludere, a me viene da pensare addirittura che i moltinpoesia siano già fuori dai confini della poesia. E non so dire se sia un bene o un male. Insisto, perciò, sul fatto che essere molti in poesia è segno di questa crisi della poesia mentre trovo illusorio per tutti tentare di tornare alla poesia di una volta con  i suoi rassicuranti codici. Non voglio, con questo, dare ad intendere che allora esiste già una poesia dei moltinpoesia. Essa potrebbe essere come un pianeta sconosciuto che può forse essere pensato ma non verificato con gli strumenti critici che oggi possediamo. E avessimo anche a disposizione uno studio sull’intera e mai indagata produzione di testi dei moltinpoesia, credo che le incertezze rimarrebbero. Siamo appena agli inizi di un processo che non siamo in grado di delineare.  

 

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