domenica 14 maggio 2023

MOLTINPOESIA APPUNTO 13: Casa della Poesia vuota. Sì, e allora?



 Riporto dalla pagina Facebook di Matteo Marchesini questo stralcio di un articolo del 1999 di Alfonso Berardinelli:

"È vero: la casa della poesia era piena di ospiti, affollata di autori. Si entrava, si usciva, si formavano gruppetti. Le porte ormai erano sempre aperte, la festa continuava. Chiunque poteva entrare senza invito e senza titoli: ma una volta entrati si scopriva che non c'era niente da mangiare e da bere, il buffet era vuoto da tempo, restavano le briciole. Quella là in fondo, un po’ fuori mano, si chiamava ancora la Casa della Poesia, ma dove fosse la poesia non era chiaro. Lì avevano abitato (si diceva) individui famosi: ma la maggior parte di loro non c'erano più, si erano trasferiti altrove o erano trapassati oltre il confine della vita. Si parlava di loro, ci si metteva a tavola nella stessa tavola, si usavano le stesse poltrone e gli stessi divani. I posti ormai rimasti vuoti erano stati occupati da una folla di nuovi arrivati, i quali protestavano e cercavano di richiamare l'attenzione degli altri. Ma ognuno era concentrato su di sé, l'attenzione era poca e ben poco avveniva.
C'erano sempre più poeti, e tutti erano lì per dimostrare che la Casa della Poesia non era vuota, era la loro casa e la continuità non era interrotta. Ma tutta quella gente, in quella casa, non sapeva come si usavano le posate e i bicchieri, non sapeva dove trovare il sale e l'olio, ignorava dove precisamente si trovassero il bagno, la camera da letto, il salotto, lo studio. "[1]

Sulla diagnosi concordo - ahimè - con Berardinelli. Lui scriveva: " si chiamava ancora la Casa della Poesia, ma dove fosse la poesia non era chiaro". Io ho scritto: "Essere molti in poesia è come voler essere molti in cima a un monte (magari il Parnaso) o voler abitare dentro un vetusto edificio, costruito secoli fa e pensato per soddisfare le esigenze di pochi".
La differenza? Lui si fermava alla constatazione del disastro: "Quello che scrivevano non veniva più letto. Non era scritto per essere letto, ma perché si potesse dire che era stato pubblicato. La poesia assente era così una garanzia per tutti. Nessuno ricordava di averla mai vista. Era un nome. Era il Nome della Cosa, in assenza della cosa”. Io insisto sulla necessità di scavare nel fenomeno (ambiguo) dei moltinpoesia, ipotizzando l'inizio di qualcosa d'altro: "Non voglio, con questo, dare ad intendere che allora esiste già una poesia dei moltinpoesia. Essa potrebbe essere come un pianeta sconosciuto che può forse essere pensato ma non verificato con gli strumenti critici che oggi possediamo. E avessimo anche a disposizione uno studio sull’intera e mai indagata produzione di testi dei moltinpoesia, credo che le incertezze rimarrebbero. Siamo appena agli inizi di un processo che non siamo in grado di delineare”. " (Cfr. qui)


[1] Il testo di Berardinelli  si legge a questo link: https://www.facebook.com/matteo.marchesini.754/posts/pfbid0KqoFfzA65G7To1NLb9pKthjufL8VGUdqf4182zkq7mTHSQ53xWQBSLRvh7o3hyM4l. Lo ricopio per i lettori che non usano FB:

“All'inizio del Ventunesimo secolo ebbe inizio un'epoca (così raccontano le storie letterarie) in cui la poesia subì nuove metamorfosi. Pochi se ne accorsero. Pochi infatti la tenevano d'occhio e si interessavano al suo destino. La poesia era diventata nel giro di alcuni anni un genere letterario screditato, un'arte senza pubblico, un settore librario quasi invisibile. Era questa invisibilità a farla sembrare eterna, immortale come i fantasmi.

Solo i poeti, diventati innumerevoli, frequentavano la poesia. Solo loro ne parlavano, la nominavano continuamente, la scrivevano, cercavano di pubblicarla. Esistevano antologie, cataloghi e perfino graduatorie, in cui ogni poeta veniva valutato per il numero di volte che il suo nome e la sua foto comparivano sui giornali. Però neppure i professori e i critici letterari riuscivano più a capire che cosa stesse succedendo nell'antica casa della poesia. Non leggevano più i nuovi poeti, li conoscevano appena di nome, ma non si sentivano in difetto per questo. Ignorare i poeti contemporanei, non comprare mai un libro di poesie era diventato normale anche per le persone colte e per gli studiosi di letteratura.

È vero: la casa della poesia era piena di ospiti, affollata di autori. Si entrava, si usciva, si formavano gruppetti. Le porte ormai erano sempre aperte, la festa continuava. Chiunque poteva entrare senza invito e senza titoli: ma una volta entrati si scopriva che non c'era niente da mangiare e da bere, il buffet era vuoto da tempo, restavano le briciole. Quella là in fondo, un po’ fuori mano, si chiamava ancora la Casa della Poesia, ma dove fosse la poesia non era chiaro. Lì avevano abitato (si diceva) individui famosi: ma la maggior parte di loro non c'erano più, si erano trasferiti altrove o erano trapassati oltre il confine della vita. Si parlava di loro, ci si metteva a tavola nella stessa tavola, si usavano le stesse poltrone e gli stessi divani. I posti ormai rimasti vuoti erano stati occupati da una folla di nuovi arrivati, i quali protestavano e cercavano di richiamare l'attenzione degli altri. Ma ognuno era concentrato su di sé, l'attenzione era poca e ben poco avveniva.

C'erano sempre più poeti, e tutti erano lì per dimostrare che la Casa della Poesia non era vuota, era la loro casa e la continuità non era interrotta. Ma tutta quella gente, in quella casa, non sapeva come si usavano le posate e i bicchieri, non sapeva dove trovare il sale e l'olio, ignorava dove precisamente si trovassero il bagno, la camera da letto, il salotto, lo studio.

Tutti quei nuovi frequentatori della Casa della Poesia erano soddisfatti di esserci entrati (le porte erano aperte, i vecchi proprietari erano spariti: e neppure in portineria c'era qualcuno, un critico in giacca e berretto, a controllare gli ingressi). Ma per quanto alcuni di loro, i più intraprendenti, avessero cominciato a comportarsi come se fossero i padroni di casa, un certo imbarazzo restava. Tutti erano lì, ma nessuno riteneva nessun altro un legittimo inquilino di quella casa. Tutti, sorridendo e salutandosi, si sentivano degli abusivi. Come gli indovini dell'antica Roma, tutti questi poeti, ospiti che nessuno ospitava, quando si incontravano scoppiavano a ridere. Per l'allegria di esserci? O perché ognuno di loro riconosceva la propria nell'impostura dell'altro?

Tutti dicevano di credere nella Poesia, perché ormai solo la loro dichiarazione di fede poetica li faceva sembrare poeti. Ma ciò che li teneva uniti era soprattutto il patto di non tradirsi: nessuno avrebbe mai negato a nessun altro la qualifica di poeta, affinché nessuno la negasse a lui. Quello che scrivevano non veniva più letto. Non era scritto per essere letto, ma perché si potesse dire che era stato pubblicato. La poesia assente era così una garanzia per tutti. Nessuno ricordava di averla mai vista. Era un nome. Era il Nome della Cosa, in assenza della cosa”

(Alfonso Berardinelli, “La casa della poesia era piena di ospiti”, 1999).

 

 





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