Riporto
dalla pagina Facebook di Matteo Marchesini questo stralcio di un articolo del 1999 di
Alfonso Berardinelli:
"È vero: la casa della poesia era piena di ospiti,
affollata di autori. Si entrava, si usciva, si formavano gruppetti. Le porte
ormai erano sempre aperte, la festa continuava. Chiunque poteva entrare senza
invito e senza titoli: ma una volta entrati si scopriva che non c'era niente da
mangiare e da bere, il buffet era vuoto da tempo, restavano le briciole. Quella
là in fondo, un po’ fuori mano, si chiamava ancora la Casa della Poesia, ma
dove fosse la poesia non era chiaro. Lì avevano abitato (si diceva) individui
famosi: ma la maggior parte di loro non c'erano più, si erano trasferiti
altrove o erano trapassati oltre il confine della vita. Si parlava di loro, ci
si metteva a tavola nella stessa tavola, si usavano le stesse poltrone e gli
stessi divani. I posti ormai rimasti vuoti erano stati occupati da una folla di
nuovi arrivati, i quali protestavano e cercavano di richiamare l'attenzione
degli altri. Ma ognuno era concentrato su di sé, l'attenzione era poca e ben
poco avveniva.
C'erano sempre più poeti, e tutti erano lì per dimostrare che
la Casa della Poesia non era vuota, era la loro casa e la continuità non era
interrotta. Ma tutta quella gente, in quella casa, non sapeva come si usavano
le posate e i bicchieri, non sapeva dove trovare il sale e l'olio, ignorava
dove precisamente si trovassero il bagno, la camera da letto, il salotto, lo
studio. "[1]
Sulla diagnosi concordo - ahimè - con Berardinelli. Lui
scriveva: " si chiamava ancora la Casa della Poesia, ma dove fosse la
poesia non era chiaro". Io ho scritto: "Essere molti in poesia è come
voler essere molti in cima a un monte (magari il Parnaso) o voler abitare
dentro un vetusto edificio, costruito secoli fa e pensato per soddisfare le
esigenze di pochi".
La differenza? Lui si fermava alla constatazione del disastro: "Quello che scrivevano non veniva più letto. Non era scritto per essere
letto, ma perché si potesse dire che era stato pubblicato. La poesia assente
era così una garanzia per tutti. Nessuno ricordava di averla mai vista. Era un
nome. Era il Nome della Cosa, in assenza della cosa”. Io insisto sulla
necessità di scavare nel fenomeno (ambiguo) dei moltinpoesia, ipotizzando l'inizio
di qualcosa d'altro: "Non voglio, con questo, dare ad intendere che allora
esiste già una poesia dei moltinpoesia. Essa potrebbe essere come un pianeta
sconosciuto che può forse essere pensato ma non verificato con gli strumenti
critici che oggi possediamo. E avessimo anche a disposizione uno studio
sull’intera e mai indagata produzione di testi dei moltinpoesia, credo che le
incertezze rimarrebbero. Siamo appena agli inizi di un processo che non siamo
in grado di delineare”.
" (Cfr. qui)
[1] Il testo
di Berardinelli si legge a questo link: https://www.facebook.com/matteo.marchesini.754/posts/pfbid0KqoFfzA65G7To1NLb9pKthjufL8VGUdqf4182zkq7mTHSQ53xWQBSLRvh7o3hyM4l. Lo ricopio per i lettori che non usano FB:
“All'inizio
del Ventunesimo secolo ebbe inizio un'epoca (così raccontano le storie
letterarie) in cui la poesia subì nuove metamorfosi. Pochi se ne accorsero.
Pochi infatti la tenevano d'occhio e si interessavano al suo destino. La poesia
era diventata nel giro di alcuni anni un genere letterario screditato, un'arte
senza pubblico, un settore librario quasi invisibile. Era questa invisibilità a
farla sembrare eterna, immortale come i fantasmi.
Solo
i poeti, diventati innumerevoli, frequentavano la poesia. Solo loro ne
parlavano, la nominavano continuamente, la scrivevano, cercavano di
pubblicarla. Esistevano antologie, cataloghi e perfino graduatorie, in cui ogni
poeta veniva valutato per il numero di volte che il suo nome e la sua foto
comparivano sui giornali. Però neppure i professori e i critici letterari
riuscivano più a capire che cosa stesse succedendo nell'antica casa della
poesia. Non leggevano più i nuovi poeti, li conoscevano appena di nome, ma non
si sentivano in difetto per questo. Ignorare i poeti contemporanei, non
comprare mai un libro di poesie era diventato normale anche per le persone
colte e per gli studiosi di letteratura.
È
vero: la casa della poesia era piena di ospiti, affollata di autori. Si
entrava, si usciva, si formavano gruppetti. Le porte ormai erano sempre aperte,
la festa continuava. Chiunque poteva entrare senza invito e senza titoli: ma
una volta entrati si scopriva che non c'era niente da mangiare e da bere, il
buffet era vuoto da tempo, restavano le briciole. Quella là in fondo, un po’
fuori mano, si chiamava ancora la Casa della Poesia, ma dove fosse la poesia
non era chiaro. Lì avevano abitato (si diceva) individui famosi: ma la maggior
parte di loro non c'erano più, si erano trasferiti altrove o erano trapassati
oltre il confine della vita. Si parlava di loro, ci si metteva a tavola nella
stessa tavola, si usavano le stesse poltrone e gli stessi divani. I posti ormai
rimasti vuoti erano stati occupati da una folla di nuovi arrivati, i quali
protestavano e cercavano di richiamare l'attenzione degli altri. Ma ognuno era
concentrato su di sé, l'attenzione era poca e ben poco avveniva.
C'erano
sempre più poeti, e tutti erano lì per dimostrare che la Casa della Poesia non
era vuota, era la loro casa e la continuità non era interrotta. Ma tutta quella
gente, in quella casa, non sapeva come si usavano le posate e i bicchieri, non
sapeva dove trovare il sale e l'olio, ignorava dove precisamente si trovassero
il bagno, la camera da letto, il salotto, lo studio.
Tutti
quei nuovi frequentatori della Casa della Poesia erano soddisfatti di esserci
entrati (le porte erano aperte, i vecchi proprietari erano spariti: e neppure
in portineria c'era qualcuno, un critico in giacca e berretto, a controllare
gli ingressi). Ma per quanto alcuni di loro, i più intraprendenti, avessero
cominciato a comportarsi come se fossero i padroni di casa, un certo imbarazzo
restava. Tutti erano lì, ma nessuno riteneva nessun altro un legittimo
inquilino di quella casa. Tutti, sorridendo e salutandosi, si sentivano degli
abusivi. Come gli indovini dell'antica Roma, tutti questi poeti, ospiti che
nessuno ospitava, quando si incontravano scoppiavano a ridere. Per l'allegria
di esserci? O perché ognuno di loro riconosceva la propria nell'impostura
dell'altro?
Tutti
dicevano di credere nella Poesia, perché ormai solo la loro dichiarazione di
fede poetica li faceva sembrare poeti. Ma ciò che li teneva uniti era
soprattutto il patto di non tradirsi: nessuno avrebbe mai negato a nessun altro
la qualifica di poeta, affinché nessuno la negasse a lui. Quello che scrivevano
non veniva più letto. Non era scritto per essere letto, ma perché si potesse
dire che era stato pubblicato. La poesia assente era così una garanzia per
tutti. Nessuno ricordava di averla mai vista. Era un nome. Era il Nome della
Cosa, in assenza della cosa”
(Alfonso Berardinelli, “La casa della poesia era
piena di ospiti”, 1999).
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