mercoledì 27 settembre 2023

Divenire Samizdat (3)


di Ennio Abate


Che cortocircuiti! Eh, sì. Non afferrava l'importanza
dei Grundrisse ma l’inseguiva. Ed era buona cosa
l’inseguimento, divorati da insana fame di sapere?

Tornava a Colognom con bottini di intelletti raffinati
ma in mente così stipati, s’afflosciavano sui pratacci
freddi di brina che dal motom in corsa sfiorava.

E diventavano miraggi definitivamente nella stanza
da letto con  il bimbo, che R gli  lasciava scappando
in ufficio. Non per questo rinunciava a studiare.

Ma R si lamentava, s’ingelosiva e disfaceva quel tessuto
indefesso di scrittura da proletarizzato. Che fesso!
Che fesso!  Fosse rimasto a Salerno, avesse  là studiato. 

Pur pazzo di sé. Non avesse sciupato il tempo non sapendo
nemmeno perché. Non avesse creduto nel mondo. [1]
Si sarebbe risparmiato la sofferenza dell’immigratorio?

E del divenire samizdat? Da sofferenza fuggiva
e a sofferenza - metropolitana o periferica - giungeva.
Ed erano due i pesi  da portare. Uno passato, ficcato

nella voce in gola strozzata quando parlava. L'altro sotterrato
in incubo, in povertà,/ in assenza di mondo, in bende,
 in prigionia
.[2]. Che chiamava politica. Ma era groviglio.

E quello, sì, lo sentiva. Sentiva gli altri passeggiargli sopra.
E ce l'aveva con chi a volte su di lui si chinava
e gli sussurrava nell’orecchio: mai l’accorcerai, mai,

fra piccolo borghesi e immigrati sottoproletari la distanza!
Chi fu? Chi lo disse? Nel sole o nel vento? Confusa fisionomia.
Uno studente di scienze. Un certo L, inviato come d’uso all'epoca

nel proletariume a farsi l’ossa. E gli passeggiava addosso
pure Berto, operaio alla Manuli Gomma di Brugherio
a cento-centoventi mila lire al mese, svuotando la sua

smisurata incazzatura contro i "figli di papà milanesi".
E dalla sponda studentesca ancora - più su, più su di poco,
ma in alto mirante -  c’era G. Coi suoi rimproveri al contrario.

E che durante una vacanza con amici e reciproche madonne
proclamò che la sua bionda fidanzata, studentessa alla Statale,
non poteva lavare piatti come una qualsiasi proletaria.

Perché, sì, la Classe Operaia doveva unirsi agli Studenti.
Ma nel  privato contava - di più o altrettanto - la figa proletaria
più bella da issare trofeo nel letto piccolo borghese.

E non ancora aveva pensato, con Hegel, che Servi e Signori
– peccatori e preti, diretti e dirigenti - le scarpe si fanno
eppur vicendevole sostegno - nel gioco e nel giogo - si danno.

.



[1] Avendo in mente F. Fortini, Avessi studiato, in Versi scelti, Einaudi, Torino, 1990

[2] E. Abate, Immigratorio,CFR, Piateda 2011

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