sabato 2 settembre 2023

Giorgio Morale su "Salernitudine"

 30 settembre 2007

Caro Ennio, ho letto con piacere il tuo "Salernitudine". Prediligo questa scrittura asciutta, essenziale, anche aspra, di tono alto, e il tessuto fortemente ellittico dell'opera, che lascia grandi spazi all’immaginazione e all’intelligenza del lettore. Ho trovato salda la struttura, efficace il montaggio, grande l’unità stilistica e identica la tonalità tra la cornice in prosa e le poesie.

Forte quel presepe a far da cornice nella prima prosa, come pietra di paragone del prima e del dopo, l'infanzia contadina e la devastazione della nuova civiltà. E dentro la cornice, resa quasi in presa diretta in alcune poesie in dialetto, l'infanzia apparentemente atemporale, inevitabilmente, come quando qualcosa si è fissata nel ricordo e rimane per sempre immodificabile. Così frammenti di vita paesana, figure, ricordi, filastrocche. Proprio l'immodificabilità ne fa un mondo a sé stante, nei cui confronti è esplicita e dichiarata la rottura e impossibile un ritorno.
Spinto dalla tua lettera precedente a interrogarmi sulla lente con cui guardiamo all'infanzia, mi soffermo su questa impressione di rottura, molto più forte di quanto non si avverta, penso, nel mio "Paulu Piulu" [1], mi domando a cosa sia dovuta e prendo in considerazione tre ipotesi: la Weltanschauung, la forma artistica adottata, il percorso personale.
Per quanto riguarda la Weltanschauung, mi sembra di avvertire un'aria di casa, in questa infanzia, e sento vicini tanto l'incanto della bellezza di certi particolari di vita meridionale quanto l’asprezza della povertà e della violenza avvertita nella natura e nei rapporti; è qualcosa che mi riguarda la memoria precisissima nella collocazione storico-geografica e un paese e un'età senza idillio e senza innocenza. E il ragazzo che comincia a scrivere quando si rende conto di aver "vissuto in un ritaglio di mondo".
Ma non solo: anche i giudizi dell’adulto espressi nelle poesie in italiano esprimono un mio sentire. Mi riferisco ad esempio a versi come questi:

Non più colpa né vanto l’abbandono.
Meno sacra l’antica fedeltà.
Accanto a cattiverie inzuccherate
metto, non peggiore, la mia:
intende altre ragioni
e scova alla base degli idoli la muffa.

Oppure come questi:

Fossi rimasto
quanta untuosa la mia cattiveria
immalinconita la solitudine
cadenzate d’invidia le lamentele.

Care voci d’un passato assai carezzato
non illudetemi sul dovere di un ritorno.
Vivo è questo nostro reciproco smarrirci
che altrimenti ha profilato i corpi
e divaricate, irricongiungibili, le storie.

La tipologia scelta, lirica, dell'opera, potrebbe invece essere un elemento di diversità: permette di dichiarare subito, in apertura, che quel mondo è crollato, non c'è più, proiettando questa consapevolezza sui testi che seguono, i quali fra l'altro ne guadagnano in tensione. Infatti quando il ragazzo di “Salernitudine” si rende conto di aver "vissuto in un ritaglio di mondo”, basta questo accenno, seguito da una lunga ellissi, per dire tutto quanto potrebbe essere materia di un romanzo. E' in questo silenzio che potrebbe incunearsi un romanzo.
Inoltre influisce a determinare il quadro che dell'infanzia dà "Salernitudine" la struttura di cui ho già detto. Così come l'uso della doppia lingua, italiano e dialetto, a marcare la differenza tra il passato del ragazzo che s'aggirava nel paese e l'adulto che oggi ne è lontano, come fa notare l'ottima presentazione di Michele Ranchetti.
Il romanzo invece non esplicita in apertura le sue conclusioni, presenta un mondo in divenire, fa maturare pian piano le situazioni, come accade nella vita, in cui nuovo e vecchio convivono, fino a quando ti accorgi che il vecchio non c'è più.
Forse tale diversità è dovuta anche a un diverso percorso esistenziale. Voglio dire che a me sembra di ritrovare nel mio percorso, e in quello di Paulu Piulu, una continuità che forse si avverte meno in “Salernitudine” (si avverte meno, ma non è del tutto assente: la rievocazione scopre che anche nell'infanzia vi erano rabbie e pianti, premessa al distacco e alla divaricazioe delle storie, e ciononostante all'adulto di "Salernitudine" le voci che arrivano da quel passato appaiono comunque "care").
Per me è chiaro che da una parte la mia rottura è maturata nel tempo e ne rintraccio i germi nel me stesso di allora, mentre dall'altra valori e disvalori mi pare s'intreccino nel prima e nel dopo. Molte scelte nascono in conseguenza di un'esperienza, di una storia.
Può darsi che nel tuo vissuto, o nella tua storia, le cose stiano diversamente, e anche questo conta, ai fini del discorso che stiamo facendo. In fondo, la letteratura mi pare dia conto anche di questo, del particolare. Il pensiero, la filosofia, la politica, le grandi astrazioni non lo fanno: esse, anche quando pensano il particolare, lo pensano nella sua generalità, come categoria, non nella sua individualità. L’arte invece rappresenta “cum figuris”. La figura indica, accenna, e perciò è finita e inesauribile al tempo stesso: è qui che la letteratura tocca una verità che sfugge alla storia e alla filosofia. In definitiva, è l’essere, la ripetizione, il "sempre le stesse cose", ciò di cui occorre liberarsi: e questa è una tensione che in letteratura mi pare realizzarsi.
Un caro saluto
Giorgio





[1] Giorgio Morale, Paulu Piulu, Manni 2005 

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