30 settembre 2007
Caro Ennio, ho letto con piacere il tuo "Salernitudine". Prediligo questa scrittura asciutta, essenziale, anche aspra, di tono alto, e il tessuto fortemente ellittico dell'opera, che lascia grandi spazi all’immaginazione e all’intelligenza del lettore. Ho trovato salda la struttura, efficace il montaggio, grande l’unità stilistica e identica la tonalità tra la cornice in prosa e le poesie.
Forte
quel presepe a far da cornice nella prima prosa, come pietra di
paragone del prima e del dopo, l'infanzia contadina e la devastazione
della nuova civiltà. E dentro la cornice, resa quasi in presa
diretta in alcune poesie in dialetto, l'infanzia apparentemente
atemporale, inevitabilmente, come quando qualcosa si è fissata nel
ricordo e rimane per sempre immodificabile. Così frammenti di vita
paesana, figure, ricordi, filastrocche. Proprio l'immodificabilità
ne fa un mondo a sé stante, nei cui confronti è esplicita e
dichiarata la rottura e impossibile un ritorno.
Spinto
dalla tua lettera precedente a interrogarmi sulla lente con cui
guardiamo all'infanzia, mi soffermo su questa impressione di rottura,
molto più forte di quanto non si avverta, penso, nel mio "Paulu
Piulu" [1], mi domando a cosa sia dovuta e prendo in considerazione
tre ipotesi: la Weltanschauung,
la forma artistica adottata, il percorso personale.
Per
quanto riguarda la Weltanschauung,
mi sembra di avvertire un'aria di casa, in questa infanzia, e sento
vicini tanto l'incanto della bellezza di certi particolari di vita
meridionale quanto l’asprezza della povertà e della violenza
avvertita nella natura e nei rapporti; è qualcosa che mi riguarda la
memoria precisissima nella collocazione storico-geografica e un paese
e un'età senza idillio e senza innocenza. E il ragazzo che comincia
a scrivere quando si rende conto di aver "vissuto in un ritaglio
di mondo".
Ma
non solo: anche i giudizi dell’adulto espressi nelle poesie in
italiano esprimono un mio sentire. Mi riferisco ad esempio a versi
come questi:
Non
più colpa né vanto l’abbandono.
Meno
sacra l’antica fedeltà.
Accanto
a cattiverie inzuccherate
metto,
non peggiore, la mia:
intende
altre ragioni
e
scova alla base degli idoli la muffa.
Oppure come questi:
Fossi
rimasto
quanta
untuosa la mia cattiveria
immalinconita
la solitudine
cadenzate
d’invidia le lamentele.
Care
voci d’un passato assai carezzato
non
illudetemi sul dovere di un ritorno.
Vivo
è questo nostro reciproco smarrirci
che
altrimenti ha profilato i corpi
e
divaricate, irricongiungibili, le storie.
La
tipologia scelta, lirica, dell'opera, potrebbe invece essere un
elemento di diversità: permette di dichiarare subito, in apertura,
che quel mondo è crollato, non c'è più, proiettando questa
consapevolezza sui testi che seguono, i quali fra l'altro ne
guadagnano in tensione. Infatti quando il ragazzo di “Salernitudine”
si rende conto di aver "vissuto in un ritaglio di mondo”,
basta questo accenno, seguito da una lunga ellissi, per dire tutto
quanto potrebbe essere materia di un romanzo. E' in questo silenzio
che potrebbe incunearsi un romanzo.
Inoltre
influisce a determinare il quadro che dell'infanzia dà
"Salernitudine" la struttura di cui ho già detto. Così
come l'uso della doppia lingua, italiano e dialetto, a marcare la
differenza tra il passato del ragazzo che s'aggirava nel paese e
l'adulto che oggi ne è lontano, come fa notare l'ottima
presentazione di Michele Ranchetti.
Il
romanzo invece non esplicita in apertura le sue conclusioni, presenta
un mondo in divenire, fa maturare pian piano le situazioni, come
accade nella vita, in cui nuovo e vecchio convivono, fino a quando ti
accorgi che il vecchio non c'è più.
Forse
tale diversità è dovuta anche a un diverso percorso esistenziale.
Voglio dire che a me sembra di ritrovare nel mio percorso, e in
quello di Paulu Piulu, una continuità che forse si avverte meno in
“Salernitudine” (si avverte meno, ma non è del tutto assente: la
rievocazione scopre che anche nell'infanzia vi erano rabbie e pianti,
premessa al distacco e alla divaricazioe delle storie, e
ciononostante all'adulto di "Salernitudine" le voci che
arrivano da quel passato appaiono comunque "care").
Per
me è chiaro che da una parte la mia rottura è maturata nel tempo e
ne rintraccio i germi nel me stesso di allora, mentre dall'altra
valori e disvalori mi pare s'intreccino nel prima e nel dopo. Molte
scelte nascono in conseguenza di un'esperienza, di una storia.
Può
darsi che nel tuo vissuto, o nella tua storia, le cose stiano
diversamente, e anche questo conta, ai fini del discorso che stiamo
facendo. In fondo, la letteratura mi pare dia conto anche di questo,
del particolare. Il pensiero, la filosofia, la politica, le grandi
astrazioni non lo fanno: esse, anche quando pensano il particolare,
lo pensano nella sua generalità, come categoria, non nella sua
individualità. L’arte invece rappresenta “cum figuris”. La
figura indica, accenna, e perciò è finita e inesauribile al tempo
stesso: è qui che la letteratura tocca una verità che sfugge alla
storia e alla filosofia. In definitiva, è l’essere, la
ripetizione, il "sempre le stesse cose", ciò di cui
occorre liberarsi: e questa è una tensione che in letteratura mi
pare realizzarsi.
Un
caro saluto
Giorgio
[1] Giorgio Morale, Paulu Piulu, Manni 2005
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