Alla stazione si erano salutati commossi. Si interrompeva la loro lunga amicizia. Per anni si erano frequentati quasi ogni giorno. Adesso si erano tolti ai reciproci sguardi. Ora il filo residuo con SA erano le lettere di Karl Bis, che cercò di farlo tornare. Ma Vulisse, estraneo tra estranei, s’aggirava per stazioni, strade e solo in qualche parco per attimi si riposava, rimuginando quelle parole. Sì, erano moti di gabbia in gabbia i suoi e sapeva che all’amico ormai giungevano opachi e indecifrabili. Lui dal presepe s’era tolto e accusava l’altro d’esserci rimasto e di non intendere più quel suo dolore da supermercato, le acrobazie che faceva tra pensioni e strade, il vento di folla ignota che lo sfondava e portava via la comune, giovanile elegia. La speranza sua stava in quel vento. Ma sentiva di esagerare quando diceva che l’amico era rimasto nello stagno, nella pausa, sotto i cieli calmi o le cupole gloriose da secoli inerti.
Per la comune miseria assieme condivisa
e il duraturo malessere che s’ammucchiò poi
alla rinfusa nei giorni, per la marcita di silenzio
ch’oggi copre quel passato, ripeterò ossessivo
il saluto, l’atto paziente e gentile della parola
dinanzi all’oscura maturazione che ti staccò da noi.
Una volta servì a vigilare - ricordi? -
sul continuo morire della vita circostante.
(Ma cumm’e fatt a te ne ì, a stà senza nuie?
Nun putive sta ccà, sì, miezz’a sta miserie?
Nu vire quanta marvagità s’accocchia juorne
doppe juorne? Cumm’uve abbandonate
a vita nun sona chiù. Ah, si te truvasse e te
putesse chiamà pe nnome! Tenghe pronte
na parole gentile cumm’a chelle ca mettene
tranquille e malate ca tenene paure e murì.[1])