Il dialogo va riferito "Una poesia di Marco Dedo" (qui) e ai commenti presenti in quel post (19 marzo 2011)
@ Mayoor
@ Mayoor
Concordo che chi scrive , anche quando si rivolge ad un interlocutore reale, come sto facendo io con te ora), si rapporta in parte più o meno con un interlocutore o lettore (nel caso di un libro) immaginario.
Non invece con quest’affermazione:« Il fatto di scrivere versi che non si curano degli a capo non è rubare qualcosa dalla prosa, è una scelta di libertà». Gli ‘a capo’ in prosa ci sono (o ci sono stati) e seguono o trasgrediscono propri codici più o meno (come tutti i codici) accettati. Oggi non curarsi degli ‘a capo’ mi pare una scelta di libertà davvero trascurabile (lo fanno almeno tutti quelli che hanno assorbito per convinzione o di riflesso alcune trovate a suo tempo “scandalose” delle avanguardie). A me non meraviglia né sorprende più. Al massimo ritengo che, quando uno è in preda a un’emozione forte o parole o pensieri gli si “affollino in mente” numerosi e sfuggenti, per non farseli sfuggire e non potendo frenare l’emozione, fa bene a usare una punteggiatura o abbreviazioni persino “private”. Per tutto un periodo ho accumulato versi sostituendo la punteggiatura “normale” con barrette (/). E mi capita di ritrovare appunti quasi stenografici o in una grafia tanto nervosa e spasmodica da risultare a volte indecifrabile persino a me. Ma quanto in una prima fase viene prodotto in un “raptus creativo” o in bozze viene comunque rivisto se si arriva alla stampa. E allora non mi si dica che la resa tipografica abbia ancora una sua necessità “interiore”. Al massimo documenta a freddo, a distanza di tempo, come una fotografia, qualcosa che fu in quei determinati esperienza solitaria istanti vivo, veloce, affannoso, convulso.