lunedì 4 marzo 2013

Arsenij Tarkovskij,
Poesie scelte.
Traduzione di Donata De Bartolomeo
e presentazione
di Giorgio Linguaglossa




Catalogo delle stelle


Finora non ci avevo pensato.
A che mi serve un catalogo delle stelle?
Nel catalogo dieci milioni
di numeri di telefoni celesti,
dieci milioni di numeri
di telefono di nebbie e mondi,
codice pieno di luminescenza e scintillio,
elenco di abbonati dell’universo.
Io so qual è il nome della stella,
troverò anche il suo telefono,
aspetterò il turno della terra,
girerò l’alfabeto d’acciaio:
L – 13 – 40 – 25
Io non so dove cercarti.
Si metterà a cantare la membrana del telefono:
Risponde Alfa Orione.
Sono in viaggio, io ora sono una stella.
Io ti ho dimenticato per sempre.
Sono una stella – sorellina dell’aurora,
non vorrò nemmeno venirti in sogno.
Di te non mi importa più nulla.
Telefonami tra trecento anni.

(1940-1945)




 ***


Tu, come una farfalla bianca e nera,
non come volevamo noi selvaggiamente e coraggiosamente,
nella mia casa entrasti volando,
non fare una magia su di me, non rendere
il mio cuore più amaro dell’amaro.

La tenebra, ispirata dalla luce,
la stessa oscura fedeltà ai voti
e il fazzoletto che scende dalle spalle.
Ma anche in questa trepidazione
lo stesso veleno e una conversazione non in russo.

(1946)




  
***

Ho studiato l’erba, aprendo il quaderno
e l’erba ha iniziato, come un flauto, a suonare.
Io coglievo la corrispondenza del suono e del colore
e, quando la libellula il suo inno intonava
andando tra i verdi tasti come una cometa,

io già sapevo che qualunque gocciolina di rugiada è una lacrima.
Sapevo che ogni faccetta dell’enorme occhio,
in ogni arcobaleno delle ali splendenti
dimora la parola più ardente del profeta
ed il mistero ad Adamo io, come per miracolo, schiudevo.

Io amavo il mio straziante lavoro, questa costruzione
di parole, collegate da luce propria, l’enigma
dei sentimenti confusi e la semplice soluzione della mente,
nella parola ‘verità’ mi pareva di vedere la verità stessa,
la mia lingua era veritiera, come un’analisi spettrale
ma le parole si prostravano ai miei piedi.

Ed ancora io dirò: mio vero interlocutore,
ho sentito un quarto di rumore, ho visto a mezza luce,
tuttavia non umiliai né il prossimo né  le erbe,
non offesi con l’indifferenza la terra paterna
e finora ho lavorato sulla terra, ricevendo
il dono dell’acqua fredda e del pane fragrante,
sopra di me stava un cielo senza fondo.
Le stelle mi cadevano sulla manica.

(1956)

  




Il manoscritto

Ad Anna Achmatova



Ho finito il libro ed ho detto basta
non posso più rileggere il manoscritto.
Il mio destino si è bruciato tra le righe
mentre l’anima cambiava rivestimento.

Così il figliol prodigo si strappa la camicia dalle spalle
così il sale dei mari e la polvere delle strade terrestri
benedice e maledice il profeta,
che da solo camminava sugli angeli.

Io sono quello che ha vissuto al suo tempo
ma non ero io. Io il più  giovane della famiglia
degli uomini e degli uccelli, io ho amato insieme a tutti

e non abbandonerò il banchetto dei viventi –
diretto sigillo del loro onore familiare,
diretto vocabolario dei legami di radice.


(1960)


  

Il piffero della steppa




Vivevano, combattevano, pativano la fame
morivano serenamente da soli.
Io non sono un pittore, non mi servono
i dettagli, prenderò meglio un sol.

Di tutto il largo consumo della terra
mi hanno portato soltanto un piffero
ho preso poco dalla terra per il cielo,
ho preso di più dal cielo per la terra.

Scuotendo il berretto, ho lasciato cadere gli astri,
dalla manica ho lasciato partire gli uccelli.
Da tempo la terra si è scordata di me
sebbene sia viva per il mio rimeggiare.


II
  
Ad ogni suono corrisponde un’eco sulla terra.
I pastori bollivano il culesc sulla caldaia,
le pecore si grattavano attorno a noi
e battevano i neri ciabattini.

A che mi servono i soldi? Gli onori, la gloria
nella steppa serale senza fine e confini?
Voglio mangiare con Ovidio il cacio pecorino
e gemere sulla riva del Don
senza distinguere le voci lontane,
senza aspettare le vele benedette.


III


Dove Ovidio ha tradotto
in latino la tempesta,
io ho bevuto l’azzurro della steppa
e ho cucinato una zuppa di molluschi.

E col fuoco della disgrazia da parte a parte
ho ripulito soffiando il piffero
e per questo gli accordi cantano, come Mariula

e per questo nella nostra
famiglia non manca la pecora nera
ed è bella la mia
libertà del Don.

Dove lui scaldava per il freddo
una focaccia sul palmo delle mani,
là la stella del sud
sta nella volta celeste.

IV


Terra di steppa, infruttuosa,
infiammabile ma dentro vi è per il cuore
l’osseo violino del grillo campestre
e la gloria umiliata dell’imperatore.

E dov’è il mio violino? Lo sa Dio.
Ricordando l’esilio di un altro,
con Ovidio anch’io a dieci a dieci
ho sfogliato il quaderno sulla riva del Don.

Per il giallo e per il fiele ho amato questa regione
e dicevo: “Canta, mio grillo!”
E dicevo: “Sette anni di cammino fino a Roma!”

E adesso sono lontano dalla steppa .
Vivi almeno tu, sorso di secco respiro,
capanna, pelliccia, latte di pecora.

(1960-1964)


Primi appuntamenti


Dei nostri incontri ogni istante
noi festeggiavamo, come un’epifania,
soli nel mondo intero. Tu eri
coraggiosa e più leggera dell’ala di un uccello,
lungo la scala, come una vertigine,
scendevi saltando i gradini e conducevi
attraverso l’umido lillà nei tuoi possedimenti
dall’altra parte dello specchio.

Quando la notte calava, la grazia
mi veniva concessa, le porte degli altari
si aprivano e nell’oscurità splendeva
e lentamente si tendeva la nudità.
E, svegliandomi, “sii benedetta”
dicevo e sapevo che la mia benedizione
era ingiuriosa: tu dormivi
e per te il lillà si allungava dal tavolo
a sfiorare le palpebre con l’azzurro del mondo
e le palpebre, sfiorate dall’azzurro,
erano tranquille e la mano tiepida.

Ma nel cristallo pulsavano i fiumi,
fumavano le montagne, rilucevano i mari
e tu tenevi nel palmo la sfera
di cristallo e dormivi nel trono
e – quant’è vero iddio – eri mia.
Tu ti svegliasti e trasformasti
il vocabolario quotidiano dell’uomo
e le parole si riempiono nella gola
del vigore di un suono nuovo e la parola “tu”
svela il suo nuovo significato: “re”.

Nel mondo tutto si trasfigurò, persino
le cose semplici – il catino, la brocca – quando
stava, come di guardia, tra di noi
l’acqua stratiforme e dura.
Ci condusse non si sa dove.
  
Davanti a noi cedevano il passo, come miraggi,
città costruite come per miracolo,
la stessa menta si stendeva ai nostri piedi
e gli uccelli andavano con noi lungo la strada
ed i pesci salivano lungo il fiume
ed il cielo si spiegava davanti agli occhi…

Quando il destino ricalcava le orme dietro di noi,
come un pazzo col rasoio in mano.

 (1962)





  Ospedale da campo

Girarono il tavolo verso la luce. Io giacevo
con la testa all’ingiù, come carne al peso,
la mia anima palpitava nella rete
ed io mi vedevo dal di fuori:
senza aggiunte ero equilibrato
come un grasso peso del mercato.
Questo avveniva
nel centro di uno scudo di neve
scheggiato nella parte occidentale,
nel circolo di paludi che non gelano,
di alberi con le gambe massacrate
e di piccole stazioni ferroviarie
con crani spaccati, nere
per i passi nella neve, ora doppi, ora
tripli. Quel giorno il tempo si fermò,
le ore non passavano e le anime dei treni
lungo le scarpate non sfrecciavano più
senza lampade, nei grigi lasti del vapore
e non c’erano né nozze di cornacchie, né tempeste
né disgeli in quel limbo
dove io giacevo, nella vergogna, nudo,
nel mio sangue, fuori del campo di gravitazione
futura.
Ma io mi spostai e cominciai a camminare sugli assi
intorno allo scudo di neve abbagliante
ed in basso, al di sopra della mia testa,
sette aeroplani si spiegarono
e la garza, come corteccia d’albero
si induriva sul corpo e correva
il sangue di un altro dal matraccio nelle mie vene
ed io respiravo, come un pesce nella sabbia,
ingoiando la dura, micacea, terrestre
fredda e benedetta aria.

  Avevo le labbra arse ed ancora
mi davano da bere col cucchiaino ed ancora
non potevo ricordare come mi chiamavo
ma rinacque nella mia lingua
il vocabolario del re David.
Ma dopo
anche la neve andò via ed una precoce primavera
si sollevò in punta di piedi e coprì
gli alberi col suo giallo scialle.
 (1964)


Vita, vita

I

Non credo nei presentimenti e dei segni
non ho paura. Né la calunnia né il sarcasmo
io fuggo. Nel mondo non c’è la morte.
Tutti sono immortali. Tutto è immortale.
Non bisogna temere la morte né a diciassette anni
Né a settanta. Esistono solo la realtà e la luce,
in questo mondo non ci sono né buio né  morte.
Noi tutti siamo già sulla riva del mare
ed io sono tra quelli che tirano le reti
mentre passa a branchi l’immortalità.

II

Vivete in casa – e casa non crollerà.
Io evocherò uno qualunque dei secoli,
entrerò in esso ed in esso una casa costruirò.
Ecco perché sono con me ad un unico tavolo
i vostri figli e le vostre mogli.
Ma c’è un unico tavolo per il bisnonno e per il nipote.
Il futuro si compie ora
e se io sollevo la mano
tutti e cinque i raggi rimarranno presso di voi.
Io ogni giorno del passato, come una puntellatura,
con le mie clavicole ho sostenuto,
misurai il tempo con la catena dell’agrimensore
ed attraverso esso sono passato, come attraverso gli Urali.

III

Io mi sceglievo il secolo secondo la grandezza.
Andavamo al sud, alzavamo la polvere sopra la steppa;
l’erbaccia fumava; il grillo campestre faceva il birichino,
toccava con i baffi i ferri dei cavalli e profetava
e, come un monaco, minacciava per me la rovina.
Io il mio destino alla sella allacciavo;
io, anche adesso, in epoche future,
come un bambino mi solleverò sulle staffe.
Sono soddisfatto della mia immortalità,
che il mio sangue scorra di secolo in secolo.
Per un angolo sicuro di costante calore
io avrei arbitrariamente pagato con la vita,
qualora il suo mobile ago
non mi avesse, come filo, condotto per il mondo.

(1965)





***


Nell’ultimo mese dell’autunno
al crepuscolo della mia amarissima vita,
colmo di dolore,
io sono entrato in un bosco senza foglie e senza nome.
Da un lato era lambito
dal bianco-latteo specchio
della nebbia.
Lungo i rami biancastri
colavano lacrime limpide
quali soltanto gli alberi piangono alla vigilia
di un inverno completamente privo di colore.
E allora avvenne il miracolo:
al tramonto
baluginò l’azzurro da dietro una nuvola
e un raggio luminoso si fece largo come in giugno
dai giorni futuri del mio passato.
E piangevano gli alberi alla vigilia
delle grandi fatiche e delle grazie festive
delle semplici tempeste che turbinano nell’azzurro
e le cinciallegre danzavano in circolo
come mani che lungo la tastiera
vanno dalla terra alle note più alte.


(metà anni ’70)



Presentazione di Giorgio Linguaglossa
  
 Viene qui presentata una ampia scelta delle poesie del poeta russo Arsenij Aleksandrovič Tarkovskij, tratte dal volume Stelle sull’Aragaz, edito nel 1988 ad Erevan, che comprende oltre ad una raccolta della sua personale produzione poetica, anche traduzioni in lingua russa di poeti armeni a cura dello stesso Tarkovskij. Andreij Tarkovskij nasce nel 1907 ad Elizavetgrad (oggi Kirovograd) in Ucraina, e si dedica fin da giovane alla traduzione di numerosi poeti da svariate lingue (armeno, turkmeno, karakalpaco, georgiano, ebraico e arabo). Quanto questo assiduo esercizio di traduzione abbia influito sulla sua poesia è un problema aperto, ma certamente la frequentazione di una palestra stilistica così vasta ha avuto un peso rilevante nella elaborazione della peculiarissima aura di inattualità delle sue poesie e conforterà il poeta nei lunghissimi anni di silenzio cui sarà costretto. Il primo volume delle sue poesie vedrà la luce soltanto nel 1962, Pered snegom (Neve imminente, 1929-1940); nel 1969 esce Vestnik (Il messaggero 1966-1971); nel 1974 Sticotvorenija (Poesie); nel 1978 e nel 1979 escono rispettivamente Volsebnye gory (Le montagne incantate) e Zimnijden (Giornata d’inverno 1971-1979). Il 27 maggio 1989 muore a Mosca e viene sepolto a Peredelkino.
La presente traduzione ha rispettato fedelmente la misura del verso russo senza tentare una resa in un equivalente metro italiano, operazione che avrebbe fatalmente corso il rischio di falsare i ritmi colloquiali della lingua originale; la utilizzazione dell’a capo rigorosamente conformato a quello del testo russo ha consentito, in qualche misura, la conservazione anche nella versione italiana degli enjambements e delle cesure interne, così come dei tempi lenti di progressione delle immagini.
Se la rivoluzione è incentivo al trasognato lirismo di Chlébnikov, la «fame di spazio» occupa totalmente la mente dei grandi poeti russi del Novecento. Chlébnikov percorre due volte, andata e ritorno, la linea ferroviaria Chàr’kov-Kiev e attende la primavera appollaiato in cima a un albero di ciliegio nei pressi di Chàr’kov, o osserva il cielo stellato dall’alto di un treno in corsa. Così, Tarkovskij scrive una poesia ironica su un immaginario improbabile «catalogo delle stelle», e Mandel’štam cita la «lenta asmatica vastità» dell’orizzonte di Voronez ove «lo spazio ha perso gusto e colore», ovvero, guarda «nel bellissimo binocolo Zeiss… tutte le rughe dello gneiss», la catena dei monti dell’Ararat, l’odierna Armenia. Se Chlébnikov è un «viaggiatore incantato», e Brodskij, invece, nel suo esilio, rappresenta il «viaggiatore solitario», Tarkovskij è a metà, l’uno e l’altro, è poeta del sogno e della storia, entrambe le dimensioni trasfigurate nell’alone fiabesco della terribile storia russa, evanescente come un sogno. In Tarkovskij è presente la imagery dominante della poesia russa del XX secolo che è stata riassunta nella formula: specchio-candela-ombra-sogno, e che dalla Achmàtova passando per Derzavin, Baratynskij e Mandel’štam, giunge oggi fino a Brodskij. Il manierismo debole di certe immagini di Tarkovskij non ha nulla di gratuito o di rococò, ma corrisponde ai movimenti lievi e improvvisi della memoria, d’una memoria inutilizzabile nel mondo che ha conosciuto la barbarie della seconda guerra mondiale; la sua è una poesia da camera, poesia d’un solitario che si rivolge ad altri solitari nella assoluta estraneità al mondo del Potere e della Storia. Lo spietato rigore della metrica e delle rime dei testi originali vuole soltanto ribadire il carattere addomesticato, domato della materia, il virtuosismo tecnico è virtuosismo formale che presuppone il dato dell’esistenza. Il materiale poetico è ciò che rimane della materia viva e palpitante della vita. La rivoluzione fa parte del trapassato remoto, e l’armamentario degli slogans del suo tempo trova il poeta non ostile, bensì completamente estraneo, come se abitasse un altro pianeta, la dacia dove volavano le farfalle. Anche l’orrore degli avvenimenti della propria biografia – come nella poesia «Ospedale da campo», ove viene rivissuto l’episodio dell’amputazione della gamba, avvenuto nel 1943 a seguito della ferita inferta da un proiettile esplosivo presso Velike Luki – viene trasfigurato in atmosfere di sogno e irreali.
La struttura simbolica significativa che presiede la poesia di Tarkovskij è rappresentata dalla opposizione tra la immobilità della storia russa e la direzionalità, la verticalità, il moto unidirezionale della modernità che irrompe con le immagini dei treni che sfrecciano e degli aeroplani che volteggiano. Detta polarità è attraversata dalla figura del poeta-profeta, «cronista del mesozoico», «il Geremia dei tempi futuri» che tiene in mano «l’orologio e il calendario»; strumenti, marchingegni escogitati dall’uomo per tentare di conciliare il tempo oggettivo e il tempo soggettivo, la storia e l’anima, l’immortalità e la caducità. Nella poesia «Vita, vita», il tono sacrale trova d’incanto l’esatta misura d’uno stile ieratico che si staglia in grandiose metafore tridimensionali, dove la potenza delle immagini rimanda alla integrità del poeta, alla sua forza interna, invincibile, che la fede nell’«immortalità» gli restituisce dopo lo scacco del destino e della storia. Sono versi di eccezionale altezza:

Nel mondo non c’è la morte./ Tutti sono immortali. Tutto è immortale./ Non bisogna temere la morte né a diciassette anni/ né a settanta. Esistono soltanto la realtà e la luce,/ in questo mondo non ci sono né buio né morte./ Noi tutti siamo già sulla riva del mare / ed io sono tra quelli che tirano le reti,/ mentre passa a branchi l’immortalità./ Vivete in casa – e la casa non crollerà./ Io evocherò uno qualunque dei secoli,/ entrerò in esso ed in esso una casa costruirò./… Io ogni giorno del passato, come una puntellatura,/ con le mie clavicole ho sostenuto,/ misurai il tempo con la catena dell’agrimensore/ ed attraverso di esso sono passato, come attraverso gli Urali.

L’«immortalità»  indica l’attraversamento che gli uomini devono operare, nella negatività della storia, di quella distesa grigia e arida rappresentata dal mondo infirmato dalla mortalità. La costellazione simbolico-metaforica è qui: l’onda, la stella, l’uomo, l’uccello, la realtà, i sogni, la morte… e, di nuovo, l’onda. L’epifania della verità avviene «tra gli specchi – riflesso nel recinto/ dei mari e delle città che brillano nel fumo». E la pace dell’«immortalità», dell’«onda» che va dietro l’«onda» è rappresentata dalla «madre (che) piangendo, prende il bimbo in grembo». Le immagini del «grembo materno», delle «erbe infantili», della «città col Cremlino sul fiume» e le altre variazioni della immagine archetipica materna acquistano plasticità e vigore se proiettate sullo sfondo delle «acque nere», della «riva», della «casa distrutta dalla guerra», etc.: lo sfondo luteo della storia, il magma acherontico che investe la coscienza infelice. Compito del poeta è cogliere «la corrispondenza del suono e del colore». La metafora è combinazione di rappresentazioni in funzione di una più ricca unità semantica. Come per Mandel’štam anche in Tarkovskij il mutamento dei significati diviene evidente attraverso il contenuto delle parole nel contesto dell’opera, laddove esse producono vicendevolmente nuovo senso mediante improvvise rimozioni e profonde anamnesi. Con questo metodo si ottengono le parole portanti, si mette in luce la ricchezza delle parole-chiave. Mandel’štam studiò la produzione di queste parole-chiave nel simbolismo oggettivo e psicologico di Innokentij Annenskij. La rifrazione della vita nei simboli poetici è per Mandel’štam accettabile, inaccettabile è l’estrazione di un «simbolismo professionale»; «le immagini sono sventrate come animali da impagliare -  scrive Mandel’štam criticando il simbolismo – e imbottite di un contenuto a loro estraneo… Una spaventosa controdanza di “corrispondenze” – che ammiccano l’una all’altra. Un eterno strizzar d’occhio… la rosa rimanda alla fanciulla, la fanciulla alla rosa». Mandel’štam propone «una poetica organica di carattere non normativo, bensì biologico», cioè di «considerare la parola come un’immagine, una rappresentazione verbale… un complesso insieme di fenomeni, un nesso, un sistema»* Tarkovskij ha studiato in Mandel’štam la componente architettonica della sua poesia, la dislocazione spazio-temporale del materiale linguistico, l’assoggettamento del materiale alle esigenze  costruttive. Anche in Tarkovskij come in Chlébnikov l’avvenire e il passato coincidono, così come primitivismo e utopia, polarità contraddittorie, vengono risolte con l’indebolimento dell’utopia e con la massiccia immissione di tracce della quotidianità all’interno delle composizioni poetiche. Proprio come in Chlébnikov, il futuro diventa esperienza anteriore, ciò che deve accadere è già avvenuto, il futuro non è ciò che sarà ma ciò che è già stato. Probabilmente, una tale concezione rivela l’influenza delle teorie di Fedorov, il suo concetto della storia come progetto e simultaneità di tutte le generazioni. Per Tarkovskij il mondo tecnologico, la modernità, sono inconciliabilmente ostili alla silvestre innocenza  dello stato di natura; del resto, tutte le sue metafore sono rigorosamente tratte dalla civiltà agricola («la svasatura dell’imbuto», «la ruota del vasaio», «gli occhi dell’erba», «il catino, la brocca», «la gonna di cotone stampato», etc. – Il tessuto quietamente discorsivo dei testi stride con le metafore lampeggianti e le vertiginose accelerazioni; v’è un’algebra delle corrispondenze, vi sono dei cunicoli sotterranei, una densità semantica, rimandi espliciti e impliciti alla grande tradizione della poesia russa, in particolare a Mandel’štam, con il quale condivide il concetto di metafora come costruzione complessa fondata su rapporti di inerenza. Non è affatto un caso che le ultime bozze di quello che avrebbe dovuto essere il suo primo volume di versi (corre l’anno 1946) ad una lettura attenta da parte di un funzionario di partito, eufemisticamente denominata «recensione per uso interno», recitava: «poeta di grande talento, Tarkovskij appartiene a quel Pantheon Nero della poesia russa a cui appartengono anche Achmàtova, Gumilev, Mandel’štam e l’emigrante Chodasevič, e perciò quanto più talento vi è in questi versi tanto più essi sono nocivi e pericolosi». La recensione sfavorevole indurrà la casa editrice Sovetsjij pisatel’ a distruggere il piombo delle matrici.
Il rifugio in una lirica della natura è lo stratagemma residuo che resta al poeta che non intenda sottomettersi all’estetica zdanoviana e che voglia sottrarsi al kitsch dell’arte del realismo socialista. I processi autoritari di accumulazione forzata del capitale e la erezione di uno stato socialista basato sulla socializzazione dei rapporti di produzione, erano le condizioni più svantaggiose per la nascita della poesia, e tali condizioni imposero l’assunzione della forma della poesia lirica.
Tarkovskij prende le distanze dalla assunzione acritica del concetto di «natura»; dichiara il poeta russo: «non v’è libertà nella natura», ché altrimenti finirebbe dritta nell’anacronismo, non soltanto perché il suo contenuto di verità è scomparso ma soprattutto perché la natura è inattuale; la celebrazione del passato remoto sarebbe il ripristino di un rito museificato, deificato. Per Tarkovskij «il nostro passato è in tutto simile a una minaccia». È questa la posizione di partenza della sua poesia: la percezione che l’arte, a fronte della stato socialista, non è altro che un diversivo all’orrore, «crittografia del dolore, anamnesi di ciò che è stato sconfitto».(1)
Sotto le condizioni imposte dalla amministrazione totale dello stato socialista sovietico, unica via di uscita è la certezza che «il vento che irrompe violento nella vita – dissolverà – le farfalle che giocano col fuoco». Sembra una chiarissima premonizione della fine dell’Impero, della rovinosa caduta degli idoli. Soltanto un veggente che vive nella propria veggenza poteva possedere strumenti di auscultazione così sofisticati e sensibili da intravedere con tanto anticipo gli esiti finali. A ben leggere, i testi dei grandi poeti ci indicano sempre il cammino del futuro: «La tempesta qua e là per la Russia / scagliava loro dei bengala.  «Ed era soltanto l’inizio», scrive Tarkovskij in una poesia del 1976. I poeti del Pantheon Nero avevano già messo su carta il colore nero dell’orrore. In Tarkovskij e in Chlébnikov la farfalla e il cigno bianco sono ipostasi del poeta e della bellezza: il «candido angelo», il «cigno morente», la «candida neve» sono simboli che annunciano la caducità della bellezza; la «notte», ovviamente, è il luogo della morte, ove «più leggera dell’ala di un uccello» trascorre la bellezza «come una vertigine». Ma la «bellezza» può anche condurre «dall’altra parte dello specchio»: «Nel cristallo pulsavano i fiumi, / fumavano le montagne, rilucevano i mari». Così, la morte può essere detronizzata soltanto dall’amore che tutto trasfigura, perché la via che conduce alla morte si chiama «destino»: «quando il destino ricalcava le orme dietro di noi, / come un pazzo col rasoio in mano». Questa complessa rete di simboli fondata sulla opposizione binaria luce-tenebra regge tutta la poesia di Tarkovskij, ed infonde spessore analogico alle similitudini Il poeta è, di volta in volta, «Nestore, cronista del mesozoico», «Geremia dei tempi futuri», perché il poeta sa «della morte più cose dei morti», e il suo romanzo è preda dell’«orologio» e del «calendario», del «passato» e del «futuro»; soltanto la morte, «la terribile bocca della regina Kore» può fornire il viatico per la «verità». Ed ecco i simboli della «pioggia», del «mare» e del «ruscello» che richiamano l’idea del fluire dell’universo nell’«irripetibile movimento dell’erba», nella «immortalità»; il tempo soggettivo fluisce e sfocia nel tempo oggettivo: «io mi sceglievo il secolo secondo la grandezza». La terribile storia russa detta a Tarkovskij i versi tra i più commoventi e saldi della poesia russa del XX secolo: «vivete in casa – e la casa non crollerà (…) il futuro si compie ora». Una dichiarazione di fede così alta trova concrezione in questi versi monumentali, scanditi con lenta, sacrale progressione.


(1) T.W. Adorno, Teoria estetica Einaudi, Torino, 1975



 Arsenij Aleksandrovič Tarkovskij 
(da:http://it.wikipedia.org/wiki/Arsenij_Aleksandrovi%C4%8D_Tarkovskij)
in russo: Арсений Александрович Тарковский[?](Elisavetgrad, 25 giugno 1907  Mosca, 27 maggio 1989) è stato un poeta e traduttore russo, di origine ucraina dal temperamento alquanto instabile, padre del famoso regista Andrej Arsen'evič Tarkovskij.
Alla fine degli anni venti Arsenij Tarkovskij inizia la collaborazione con alcune riviste e scrivedrammi per la radio sovietica. Nel 1932, accusato di misticismo, deve abbandonare il suo lavoro e si dedica quindi all’attività di traduttore dall’arabo, dall’ebraico, dall’armeno, dal georgiano, dal turkmeno e da altre lingue ancora. Inizia, sempre in quel periodo, a frequentare Anna Achmatova e Osip Mandel'štam, attirando su di sé ulteriori attenzioni da parte del regime, che gli costeranno una censura durata sino agli anni sessanta. Arruolato come soldato nella seconda guerra mondiale, nel 1943 viene insignito dell’Ordine della Stella Rossa per il suo eroismo in battaglia e in seguito, gravemente ferito, deve subire l’amputazione di una gamba. A partire dal 1962 inizia la pubblicazione delle sue poesie, che consisteranno in una decina di raccolte in tutto. Muore a Mosca il 27 maggio 1989.


2 commenti:

Anonimo ha detto...

dobbiamo essere grati alla traduttrice Donata De Bartolomeo per aver saputo entrare in simpatia con il poeta russo e averci dato questa mirabile resa in autentica poesia in italiano dell'originale russo. Tarkovskij indubbiamente appartiene a quella grande galleria dei poeti del Panteon Nero, come rileva con acutezza il censore del regime, a cui appartengono i maggiori poeti degli anni Dieci e Venti del Novecento russo.
Molto probabilmente i migliori critici sono proprio i censori: essi non sbagliano mai un colpo, sanno individuare con precisione massima i grandi poeti. Oggi che non abbiamo più una censura ma i letterati della medietà, assistiamo a una confusione babelica di aspiranti poeti editi nelle più prestigiose (un tempo) collane di poesia. Mi sento quindi di auspicare l'avvento dei censori di regime e non di questo regime della permissione assoluta dove si pubblica di tutto e di tutti, senza nessun vaglio critico. Tarkovskij appartiene a quel limbo quando ancora era possibile scrivere una lirica «pura» nell'impurità delmondo della Storia; oggi, purtroppo, non è più così, la lirica si è trasformata in discorso poetico, si è socialdemocratizzata, una democratizzazione senza democrazia, è avvenuto un capovolgimento di ciò che un tempo era lirica in lirismo pseudo elegiaco. Credo che bisogna ritornare alla poesia di tarkovskij, ai grandi maestri del Panteon Nero.

Laura Canciani

Anonimo ha detto...

da Rita Simonitto 09.03.2013

Ho attraversato queste poesie di Arsenij Tarkovskij come quando si visita una mostra di icone, e il passo è trepidante e non leggero per tutto ciò che di simbolico l’icona porta con sé rispetto alla relazione umano/divino, in particolare modo se ci riferiamo alla tradizione iconografica russa. E poi anche perché le icone non si lasciano solo guardare, ma le loro figure ti coinvolgono nello sguardo, quasi ti seguono ad interrogarti.

C’è in queste poesie, almeno per me, una forte carica di sacralità immanente alle cose di cui il poeta ci parla. Una sacralità che non significa la presa di distanza tra il divino e l’umano bensì il contrario. E’ un atto di prendersi cura. E l’importanza di questa ‘non trascuratezza’ travalica l’esperienza specifica dell’epoca in cui lo scrittore vive, già insidiata dall’esperienza della guerra. E’ questa ‘attitudine’ che lega ogni soggetto alla sua realtà. In queste poesie vediamo che, pur nel dolore, anche l’atroce dolore fisico, Arsenij è sempre lì.

Nello stesso tempo, mi ha colpito quell’esperienza di non trans-mutazione temporale (* Non mi occorrono le date: io ero, e sono e sarò*): esiste quindi una continuità nel cambiamento? E come?

E poi quel legame tra soggetto e immagine: sogno e sguardo sono presi come da *vertigine* e in quella si intrecciano prima di prodursi in una icona verbale: le poesie *Primi appuntamenti* e *Nell’ultimo mese dell’autunno/al crepuscolo della mia amarissima vita*, le vedo molto rappresentative di ciò.

Infine la parabola che passa dalla frustrazione (*Ti destasti e cangiasti/il vocabolario quotidiano degli umani*, e * Alla luce tutto si trasfigurò, perfino/gli oggetti più semplici - il catino, la brocca …*) alla speranza. Speranza che non si declina soltanto in una visione di immortalità *che passa a branchi* ma in quel *futuro che si compie ora*. Oppure nell’esortazione: * Vivete in casa – e casa non crollerà./Io evocherò uno qualunque dei secoli,/entrerò in esso ed in esso una casa costruirò.* Dove il “vivere in casa” è l’invito a trarre forza dalla propria esperienza interiore che collega il passato al presente. La forza evocativa è potente e viene ripresa da G. Linguaglossa nel suoi versi *Sullo stipite del tempo, l'algida immortalità dell'angelo:/"Vivete in casa e la casa non crollerà.* (da “La grande casa immersa negli aranci”).

Acque, fuoco, natura sono i luoghi simbolici a cui la poesia di Arsenij attinge. E che vedremo poi illuminarsi nelle immagini misteriose e nelle storie struggenti dei film del figlio Andreij: in particolare “Andreij Rublev”, “Stalker” e “Nostalghia”. Arsenij scriveva spesso al figlio lettere e poesie: ed era come se a quei versi fosse stato dato, attraverso il cinema, sonorità, movimento e colore.