Questa riflessione è stata collocata come commento (in tre parti) sotto al post "DISCUSSIONE Come leggere e interpretare la poesia. Due opinioni a confronto". Mi sembra più adeguato riportarla in un post autonomo. [E.A.]
Proverò cercando di focalizzarmi sui temi che mi sembrano centrali: uno riguarda ‘il dispositivo’ mentre l’altro riguarda il soggetto (non solo inteso come sub-jectum) e la sua relazione con la realtà; e il nesso con la poesia.Linguaglossa sostiene: *quando si parla di Moderno dobbiamo utilizzare le categorie critiche del Moderno, quando si parla di «dispositivo estetico» occorre far riferimento alle categorie di quello che sta dentro il «dispositivo». Questa è correttezza metodologica e storica. Se noi applichiamo a un «dispositivo» categorie che non appartengono a quel «dispositivo», noi facciamo un errore di lettura e di metodo (che si converte in errore di interpretazione)*.
Pertanto le “categorie dell’economia” o quelle di *matrice marxiana, quali rapporti di produzione, forze produttive, salario, capitale, ecc.* (Ennio), secondo Linguaglossa *debbono restare sullo «sfondo» della storia economica della società it., sono categorie utili alla sociologia della cultura ma non alla interpretazione critica dei testi*, e da cui, quindi, la poesia dovrebbe tenersi a distanza..
Sono perfettamente d’accordo che vengano rispettati i dispositivi interni che sono specifici di ogni campo del sapere. Certamente questo rispetto può essere più facile per le scienze cosiddette esatte e invece più problematico per quanto concerne le opere artistiche in quanto esse hanno a che fare con la totalità dell’esperienza dell’essere umano dove il testo ed il contesto sono comprensibilmente imbricati. In ogni caso, volenti o nolenti, queste categorie sono già ‘dentro’, fanno parte dell’esperienza di chi parla, scrive o fa ricerca.
Ad esempio, Linguaglossa, in altro commento, segnala che:
* Nel ciclo produttivo del Moderno si è compiuto un definitivo distacco tra la singola funzione lavorativa e la visione del prodotto finito, tanto più visibile diventa questo momento quanto più invisibile diventa la connessione d’accecamento del soggetto di fronte all’oggetto: il destino della poesia dell’«immediatezza» e della «visibilità» è già segnato, è un destino di di-sparizione dello sguardo, al quale subentra la «cecità». Con la circolazione del prodotto come merce, l’impoverimento dell’esperienza vissuta varca la soglia della produzione e si diffonde, come un morbo, fino a colpire anche quell’attività che chiamiamo produzione artistica.*
Egli, nel parlare di tutto ciò, rende esplicito il concetto di “alienazione” che si declina nei vari registri, economico, sociologico e psicologico e, infine artistico. E, senza alcun dubbio, in ognuno di questi registri il concetto di alienazione ha una valenza ‘specifica’, con i suoi specifici codici, e pertanto, non è trasferibile tout court dall’uno all’altro, se non per via di metafora o, per dirla meglio, per via di rappresentazioni fondate sul ‘come se’.
Eppure nel suo discorso viene dato uno statuto di realtà e di generalizzazione ad UNA ‘particolarità’ del Moderno quando si afferma che * si è compiuto un DEFINITIVO DISTACCO tra la singola funzione lavorativa e la visione del prodotto finito*.
Questo passaggio denuncia il trabocchetto dentro il quale l’altro concetto onnicomprensivo della globalizzazione ci fa cadere a piè pari!
Perchè, per alcuni (indovinate chi?) questo distacco è profondo (o definitivo), mentre per altri (indovinate chi?) le cose non stanno proprio così!
Quello che diciamo ce lo diciamo per rappresentarci uno strato di realtà, non tutta la realtà, onde permetterci, attraverso questa rappresentazione di continuare a formulare ipotesi interpretative.
«Nel paese della tecnica – scrive Benjamin – la vista della
realtà immediata è diventata una chimera».
Ma questo non accade solo nel paese della tecnica, perché fior di filosofia nei secoli passati si è scontrata interrogandosi sul significato della ‘percezione’ della realtà.
Oppure: *Il «reale» così si sottrae, progressivamente, in una progressiva escalation, alla visione dell’«io», si dà in frammenti e in frantumi*.
Il “reale” non ‘sottrae’ nulla, né si ‘sottrae’; si limita a ‘fare il suo lavoro’, di essere quello che, in un particolare momento storico, ‘è’, dando a questo ‘essere’ una accezione né immanente né trascendente bensì ‘storica’.
Nella nostra esperienza infantile il mondo viene percepito attraverso un continuo processo di frammentazione e di sintesi ma c’è qualcuno (una figura genitoriale) che ci aiuta a portare avanti questo processo di elaborazione, di composizione e di senso.
Se un bambino viene invece mantenuto in uno stato di ‘caos’ e viene persuaso che così ‘veramente’ stanno le cose, viene a mancare la seconda parte del processo.
Quando si afferma *come non c’è più una struttura stabile dell’essere, così non ci può essere una ontologia immutabile del linguaggio poetico…* sembra che quel “non esserci più” faccia presupporre che prima, un tempo addietro, questa “struttura stabile” ci fosse per davvero e non si trattasse invece di una ‘costruzione ipotetica’ funzionale al periodo storico in cui essa veniva formulata.
Allora il problema che si pone non è quello di espungere queste categorie ma di vedere che ruolo giocano all’interno della configurazione culturale del momento di cui si sta parlando, configurazione culturale di cui lo scrittore fa parte.
Pertanto va bene la richiesta di *tenuta a distanza* solo a condizione che il tenere a distanza eviti di far collassare queste categorie dentro il discorso, ovvero ‘renderle reali’, ‘cosificarle’.
Né più né meno di come si dovrebbe evitare di fare anche per le categorie di ‘Moderno’, ‘Novecento’, ecc. come se si trattasse appunto di ‘cose’ anziché di relazioni. (Per Marx, invece, il ‘Capitale’ stesso non è una ‘cosa’, ma un sistema di relazioni).
E’ fin troppo facile sostenere che viviamo in una società in cui il soggetto si è disperso (società liquida), mentre dobbiamo essere in grado di individuare anche le differenze. Come afferma Ennio nella sua risposta ad Attolico: *Stiamo attenti a riempire di contenuti reali il concetto (vuoto e astratto) di libertà, se ne vogliamo capire il senso*).
Altrimenti rischiamo davvero, ma davvero-davvero, di trasformarci in massa di manovra, dove ogni briciola di pensiero è bandita e, come diceva Kierkegaard “ colui che… non ha opinioni di sorta, accoglierà l’opinione stessa della maggioranza e non altra, ovvero, nel caso sia di spirito battagliero, l’opinione della minoranza…”.
Quanto alla poesia, partiamo dalla affermazione *la poesia è una particolare forma di linguaggio*.
Se rimango dentro questa affermazione devo supporre che ci debba essere più o meno implicita una tendenza comunicativa rispondente grosso modo alle domande: chi parla, a chi, perché e come.
Il linguaggio orale, o scritto (poi esistono anche altre forme espressive), è una particolare forma di connessione espressiva che, nel caso dell’essere umano, veicola particolari ‘stati’, ‘condizioni’, mettendo in relazione un emittente con un ricevente e viceversa.
Sarebbe implicita quindi una intenzionalità e l’aspettativa che questa abbia successo. E, proprio in virtù di ciò, le capacità metaforico-simboliche rappresentano, in ordine cronologico-storico, l’auspicabile conquista di un processo sofisticato (e non certo facile) di pensiero che è in grado di trasformare la cosa-grezza esperita in rappresentazione.
Ma, per effettuare questa ‘comunicazione’, non disponiamo già del linguaggio corrente? Non abbiamo la prosa? Perché ricorrere a quella particolare forma linguistica che è la poesia?
Immagino che ciò abbia a che fare con delle caratteristiche specifiche del suo apparato linguistico e che poggiano sui cardini dell’immagine e del ritmo, modalità che vanno a toccare le parti esperenziali più profonde della nostra mente e quindi più facilmente ‘emozionabili’. Quanto alle parole utilizzate, esse vengono dotate di un’aura speciale, carica di significati ambigui che possono rappresentare più aspetti della stessa realtà.
Perché è vero che *la poesia apre l'impensato al pensiero, frattura l'impensato, ma dice l'impensato tramite le categorie del linguaggio, e quindi è una attività altamente razionale-fantastica*.
E fin qui, grosso modo, ci siamo se rimaniamo dentro l’ipotesi ‘comunicativa’.
Ma potrei anche affermare che la poesia sia soltanto un “oggetto linguistico” che ha valore di per sé a prescindere da qualunque relazione comunicativa e da qualsiasi contesto relazionale. E allora senza dubbio si accentua il bisogno di venire definita dall’interno, nei suoi specifici parametri, i “dispositivi”, con il rischio di isolarla dall’esterno in cui è collocata.
Mi viene alla mente Gertrude Stein (primi anni del Novecento) con le sue teorizzazioni sul linguaggio e le sue ricerche sperimentali su di esso attraverso un esautorare le varie parti del discorso poetico, la trama, il verbo, la punteggiatura e, soprattutto, il concetto della ricerca di senso, e quindi di comunicazione, e accentuando, di conseguenza, il divorzio tra significante e significato.
“…navighiamo a vista in una dimensione di assenza di senso, avendo oltrepassato le colonne d'Ercole del bisogno di assegnare a ogni significante il suo significato, verso il mare aperto di un'avventura in cui la lingua è una sorpresa” (N. Fusini. Prefazione a ‘Teneri bottoni’ di G. Stein).
La stessa Stein, in una conferenza del 1934 in America precisava che la poesia si poggiava sul sostantivo, mentre la prosa sul verbo. Ragion per cui il suo famoso “Una rosa/è una rosa/è una rosa/è una rosa” lo chiamò poesia perché aveva “accarezzato e chiamato un sostantivo”.
Poi, a dispetto della poesia così intesa (ovvero della realtà così intesa), la guerra, con le sue tragiche conseguenze, avrebbe fatto scoprire che non si trattava solamente di *accarezzare il sostantivo* (come dire “il sangue, è sangue, è sangue”, oppure “i morti, sono morti, sono morti”), ma che intorno a tutto questo c’erano sì delle connessioni, dei significati orrendi e terribili.
L’”avventura” non riguardava più o soltanto, le sorprendenti capacità della lingua, ma trattava dell’”avventura” tragica dell’essere umano esposto alle più cruente nefandezze al punto che la lingua stessa non avrebbe potuto trovare parola (“E come potevamo noi cantare”, Quasimodo in “Dalle fronde dei salici”).
Ecco. Anche oggi, che siamo dentro in un altro tipo di guerra, molto più subdola perchè mascherata da paludamenti ‘democratici’ e ‘umanitari’, la lingua fa fatica a trovare parola.
Io penso, però, che la poesia potrebbe trovarla proprio per la sua peculiarità di essere in contatto con l’impensabile.
Impensabile che non ha nulla a che vedere con la <<“pre-espressione che precede la parola articolata”, di “sinonimi in filastrocca” e “parole che si raggruppano per sole affinità foniche”>> o con gli <<“smarrimenti dell’identità razionale” delle parole, di “balbuzie ed evocazione fonica pura”>>.
Non ha nemmeno nulla di ‘divino’ o di ‘orfico’: è un pensiero in ‘fieri’ ma del cui ‘essere in atto’, del suo ‘divenire’ non abbiamo sicurezza alcuna.
Così come non ne abbiamo alcuna in merito alla cosiddetta realtà.
Ma questo non accade solo nel paese della tecnica, perché fior di filosofia nei secoli passati si è scontrata interrogandosi sul significato della ‘percezione’ della realtà.
Oppure: *Il «reale» così si sottrae, progressivamente, in una progressiva escalation, alla visione dell’«io», si dà in frammenti e in frantumi*.
Il “reale” non ‘sottrae’ nulla, né si ‘sottrae’; si limita a ‘fare il suo lavoro’, di essere quello che, in un particolare momento storico, ‘è’, dando a questo ‘essere’ una accezione né immanente né trascendente bensì ‘storica’.
Nella nostra esperienza infantile il mondo viene percepito attraverso un continuo processo di frammentazione e di sintesi ma c’è qualcuno (una figura genitoriale) che ci aiuta a portare avanti questo processo di elaborazione, di composizione e di senso.
Se un bambino viene invece mantenuto in uno stato di ‘caos’ e viene persuaso che così ‘veramente’ stanno le cose, viene a mancare la seconda parte del processo.
Quando si afferma *come non c’è più una struttura stabile dell’essere, così non ci può essere una ontologia immutabile del linguaggio poetico…* sembra che quel “non esserci più” faccia presupporre che prima, un tempo addietro, questa “struttura stabile” ci fosse per davvero e non si trattasse invece di una ‘costruzione ipotetica’ funzionale al periodo storico in cui essa veniva formulata.
Allora il problema che si pone non è quello di espungere queste categorie ma di vedere che ruolo giocano all’interno della configurazione culturale del momento di cui si sta parlando, configurazione culturale di cui lo scrittore fa parte.
Pertanto va bene la richiesta di *tenuta a distanza* solo a condizione che il tenere a distanza eviti di far collassare queste categorie dentro il discorso, ovvero ‘renderle reali’, ‘cosificarle’.
Né più né meno di come si dovrebbe evitare di fare anche per le categorie di ‘Moderno’, ‘Novecento’, ecc. come se si trattasse appunto di ‘cose’ anziché di relazioni. (Per Marx, invece, il ‘Capitale’ stesso non è una ‘cosa’, ma un sistema di relazioni).
E’ fin troppo facile sostenere che viviamo in una società in cui il soggetto si è disperso (società liquida), mentre dobbiamo essere in grado di individuare anche le differenze. Come afferma Ennio nella sua risposta ad Attolico: *Stiamo attenti a riempire di contenuti reali il concetto (vuoto e astratto) di libertà, se ne vogliamo capire il senso*).
Altrimenti rischiamo davvero, ma davvero-davvero, di trasformarci in massa di manovra, dove ogni briciola di pensiero è bandita e, come diceva Kierkegaard “ colui che… non ha opinioni di sorta, accoglierà l’opinione stessa della maggioranza e non altra, ovvero, nel caso sia di spirito battagliero, l’opinione della minoranza…”.
Quanto alla poesia, partiamo dalla affermazione *la poesia è una particolare forma di linguaggio*.
Se rimango dentro questa affermazione devo supporre che ci debba essere più o meno implicita una tendenza comunicativa rispondente grosso modo alle domande: chi parla, a chi, perché e come.
Il linguaggio orale, o scritto (poi esistono anche altre forme espressive), è una particolare forma di connessione espressiva che, nel caso dell’essere umano, veicola particolari ‘stati’, ‘condizioni’, mettendo in relazione un emittente con un ricevente e viceversa.
Sarebbe implicita quindi una intenzionalità e l’aspettativa che questa abbia successo. E, proprio in virtù di ciò, le capacità metaforico-simboliche rappresentano, in ordine cronologico-storico, l’auspicabile conquista di un processo sofisticato (e non certo facile) di pensiero che è in grado di trasformare la cosa-grezza esperita in rappresentazione.
Ma, per effettuare questa ‘comunicazione’, non disponiamo già del linguaggio corrente? Non abbiamo la prosa? Perché ricorrere a quella particolare forma linguistica che è la poesia?
Immagino che ciò abbia a che fare con delle caratteristiche specifiche del suo apparato linguistico e che poggiano sui cardini dell’immagine e del ritmo, modalità che vanno a toccare le parti esperenziali più profonde della nostra mente e quindi più facilmente ‘emozionabili’. Quanto alle parole utilizzate, esse vengono dotate di un’aura speciale, carica di significati ambigui che possono rappresentare più aspetti della stessa realtà.
Perché è vero che *la poesia apre l'impensato al pensiero, frattura l'impensato, ma dice l'impensato tramite le categorie del linguaggio, e quindi è una attività altamente razionale-fantastica*.
E fin qui, grosso modo, ci siamo se rimaniamo dentro l’ipotesi ‘comunicativa’.
Ma potrei anche affermare che la poesia sia soltanto un “oggetto linguistico” che ha valore di per sé a prescindere da qualunque relazione comunicativa e da qualsiasi contesto relazionale. E allora senza dubbio si accentua il bisogno di venire definita dall’interno, nei suoi specifici parametri, i “dispositivi”, con il rischio di isolarla dall’esterno in cui è collocata.
Mi viene alla mente Gertrude Stein (primi anni del Novecento) con le sue teorizzazioni sul linguaggio e le sue ricerche sperimentali su di esso attraverso un esautorare le varie parti del discorso poetico, la trama, il verbo, la punteggiatura e, soprattutto, il concetto della ricerca di senso, e quindi di comunicazione, e accentuando, di conseguenza, il divorzio tra significante e significato.
“…navighiamo a vista in una dimensione di assenza di senso, avendo oltrepassato le colonne d'Ercole del bisogno di assegnare a ogni significante il suo significato, verso il mare aperto di un'avventura in cui la lingua è una sorpresa” (N. Fusini. Prefazione a ‘Teneri bottoni’ di G. Stein).
La stessa Stein, in una conferenza del 1934 in America precisava che la poesia si poggiava sul sostantivo, mentre la prosa sul verbo. Ragion per cui il suo famoso “Una rosa/è una rosa/è una rosa/è una rosa” lo chiamò poesia perché aveva “accarezzato e chiamato un sostantivo”.
Poi, a dispetto della poesia così intesa (ovvero della realtà così intesa), la guerra, con le sue tragiche conseguenze, avrebbe fatto scoprire che non si trattava solamente di *accarezzare il sostantivo* (come dire “il sangue, è sangue, è sangue”, oppure “i morti, sono morti, sono morti”), ma che intorno a tutto questo c’erano sì delle connessioni, dei significati orrendi e terribili.
L’”avventura” non riguardava più o soltanto, le sorprendenti capacità della lingua, ma trattava dell’”avventura” tragica dell’essere umano esposto alle più cruente nefandezze al punto che la lingua stessa non avrebbe potuto trovare parola (“E come potevamo noi cantare”, Quasimodo in “Dalle fronde dei salici”).
Ecco. Anche oggi, che siamo dentro in un altro tipo di guerra, molto più subdola perchè mascherata da paludamenti ‘democratici’ e ‘umanitari’, la lingua fa fatica a trovare parola.
Io penso, però, che la poesia potrebbe trovarla proprio per la sua peculiarità di essere in contatto con l’impensabile.
Impensabile che non ha nulla a che vedere con la <<“pre-espressione che precede la parola articolata”, di “sinonimi in filastrocca” e “parole che si raggruppano per sole affinità foniche”>> o con gli <<“smarrimenti dell’identità razionale” delle parole, di “balbuzie ed evocazione fonica pura”>>.
Non ha nemmeno nulla di ‘divino’ o di ‘orfico’: è un pensiero in ‘fieri’ ma del cui ‘essere in atto’, del suo ‘divenire’ non abbiamo sicurezza alcuna.
Così come non ne abbiamo alcuna in merito alla cosiddetta realtà.
9 commenti:
Certo non possiamo negare «l’impoverimento dell’esperienza vissuta» nel mondo d’oggi. Ma si tratta di impoverimento rispetto a dei modelli precedenti coi quali ci confrontiamo (es. la vita di periferia rispetto a quella della grande metropoli; il sapere unitario degli antichi rispetto a quello parcellizzato d’oggi). E se andassimo a guardare meglio in cosa consiste questo impoverimento dei singoli, dei gruppi, delle società? Se non ci contentassimo di constatarlo? Anzi - peggio - di ripetere la diagnosi di qualche grande pensatore del passato, fosse Benjamin o altri?
Pur sottoposti a tale impoverimento della nostra esperienza, esperienza ancora facciamo ( magari dell’”impoverimento”). E mi pare che comunque i più insistano a rappresentarsi qualcosa della “realtà” («uno strato di realtà, non tutta la realtà»,Simonitto). Lo fanno come possono. Lo fanno facendosi largo nel ginepraio dei mass media. Lo fanno per agire o reagire nella realtà che li/ci sovrasta. Lo fanno «nel paese della tecnica» ( o della Tecnica, subendo l’influsso dell’heideggerismo) in modi più o meno distanti da quelli dei filosofi dei secoli passati. Interrogandosi sul significato della ‘percezione’ della realtà. O rinunciando ad interrogarsi proprio sulla percezione. ( E uno dei saggi del già da me citato «Bentornata realtà», quello di Maurizio Ferraris, pur sottolineando che la realtà non consiste nell’esperienza percettiva, sottolinea proprio che «la prima mossa del realismo consiste sempre in un richiamo alla percezione (così come l’antireralismo parte sempre dalla critica della percezione)»(p. 141). E ricorda che nel secondo Novecento l’attenzione alle grandi questioni del linguaggio ha fatto diventare irrilevante il tema della percezione. E fa pure una lista di grandi filosofi - da Derrida, a Foucault, a Rorty, a Putnam, a Vattimo che non si sono occupati di percezione). Mi pare giusto allora quanto scrive Rita: «Il “reale” non ‘sottrae’ nulla, né si ‘sottrae’; si limita a ‘fare il suo lavoro’, di essere quello che, in un particolare momento storico, ‘è’, dando a questo ‘essere’ una accezione né immanente né trascendente bensì ‘storica’». Si potrebbe aggiungere che abbiamo perso i filosofi ( le figure genitoriali) che ci aiutino «a portare avanti questo processo di elaborazione, di composizione e di senso che “sta addosso alla realtà”. Ed è , dunque, più facile convincerci (e convincersi) che «non c’è più una struttura stabile dell’essere» e «così non ci può essere una ontologia immutabile del linguaggio poetico…» (Linguaglossa), ammesso che ci fosse in passato e non fosse appunto «una ‘costruzione ipotetica’ funzionale al periodo storico in cui essa veniva formulata»(Simonitto). Questo stato dei saperi (qui filosofici, ma possiamo riferirci a tutti i campi) davvero aiuta a «trasformarci in massa di manovra, dove ogni briciola di pensiero è bandita».
E allora potremmo anche, per reazione, ricorrere alla poesia. Ma a quale? Fa bene Rita a rievocare la concezione della poesia di Gertrude Stein e a come essa cozzò contro la “realtà” ( della guerra). Volete/vogliamo quella poesia che si disfa della responsabilità di dire «chi parla, a chi, perché e come»? Volete/vogliamo la poesia che esplori l’«impensabile»? Ma questo impensabile ha a che vedere con la «pre-espressione che precede la parola articolata», gli «smarrimenti dell’identità razionale» delle parole, la «balbuzie ed evocazione fonica pura»? Ha qualcosa di «divino» o di «orfico»? O è «un pensiero in ‘fieri’ ma del cui ‘essere in atto’, del suo ‘divenire’ non abbiamo sicurezza alcuna» ma che… tende a qualcosa che chiamiamo “realtà”?
L'impoverimento è individuale; è impoverimento economico, intellettuale e psicologico dei singoli dovuto alla realtà sottratta al quotidiano e portata su dimensioni extraumane globalizzanti, tali da stabilire valori e direttive sovrastanti a chiunque. La conoscenza non parte più dal fervido impegno intellettuale, dal basso verso l'alto, dal singolo alla moltitudine, ma s'inverte nella rotta e l'alto cade su chiunque in forme e contenuti che si manifestano come pre-stabiliti. Da qui l'uniformità delle tematiche che finiscono col ruotare attorno allo specifico dei nuovi media, che si tratti di pro e contro quanto si vuole, e da qui l'impoverimento dell'io, nell'arte, che tanto infastidisce chi auspicherebbe il suo innalzamento oppure il suo annullarsi in chiavi storiche, filosofiche o metafisiche. Di fatto tutti siamo vittime del crollo della dimensione umana che vedeva nel singolo, nella figura intellettuale innovatrice, come anche nel collettivo delle avanguardie capaci di produrre nuove istanze, la possibilità di prospettare nuovi segnali evolutivi. Non si tratta più tanto di contrastare questo o quell'altro potere perché questi sono a loro volta sovrastati da un potere non definibile in quanto si tratta di meccanismo (sociale ed economico), privo di volto eppure pragmatico e determinato nelle scelte al punto da creare l'emarginazione di interi settori della conoscenza ( scienze umanistiche, arti eccetra), a meno che non s'adattino, appunto, agli interessi dei mercati da esso stabiliti. La realtà (urbana e rurale) è stata violentemente modificata, semplificata, ridotta ai minimi termini. E' un contesto in cui anche la voce più altisonante finisce col perdersi nel dialogo di in un formicaio. Diventa perciò ridicolo stare a guardare se si sono fatti degli sbagli, se sia giusto o no alzare i ponti levatoi delle università di fronte alla marmaglia scrivente, perché l'impoverimento è collettivo e riguarda tutti, nessuno escluso. Altro che smarrimento delle identità, altro che balbuzie pre-espressive della parola, qui serve un cambiamento di rotta su larga scala! Persino versi come questo di Tarkovskij " "…sopra di me stava un cielo senza fondo. / Le stelle mi cadevano sulla manica." che sono espressioni di un io oggi quasi perduto , non hanno più il valore che avevano nel novecento (il secolo del rinnovamento artistico di Picasso e di Ezra Pound. E mettiamoci anche Gertrude Stein). Oggi la realtà ha perso i connotati del suo presente/passato quanto quelli del futuro, e ciò dipende dal fatto che l'umanità non scorre più nel torrente naturale della vita, perché siamo portati su ritmi forzati e innaturali che sanno di sconfitta (ecologica, produttiva, esistenziale).
(continua)
Il tema della sconfitta, dice bene secondo me Ennio, andrebbe come minimo constatato. E poi rivisto, aggiungerei, perché solo chi lotta può dirsi sconfitto, non chi si ferma e s'arrende. Arrendersi qui ha il significato di uscire dal gioco ( dalla ruota, direbbero in oriente), dire basta e intraprendere un nuovo cammino, fatto di molti in solitaria, non accodati ma semplicemente volti nella stessa direzione e compartecipi della stessa insicurezza. Insicurezza che andrebbe espressa rinunciando a lamentele e nostalgie, ma come atto di vera consapevolezza nella temporanea, ma necessaria, contro-tendenza.
La poesia, così come arriva viene colta, non è secondo me un fatto comunicativo (a meno che non si tratti di poesia d'impegno civile, e anche in questo caso non sempre), scorre nel torrente della vita naturalmente, comunica quanto comunicano le nuvole. E' evento, e come tale viene ancora oggi dai più percepita. Probabilmente l'agognato metalinguaggio si formerà da se' grazie alla commistione di linguaggi propri che interagiscono. E interagiscono oggi come mai nel passato grazie alla rete che subentra al monopolio televisivo. Si scriverà wireless invece di telepatico, e cambieranno via via le architetture. Scorre naturalmente, non cala dall'alto, se mai dall'altro (e così via per chi ama arrovellar-vi-ci-si).
Quando si parla di poesia, cambiano le parole ma il discorso è sempre quello. Forse non c'è più niente di nuovo da dire. Il nuovo è in mano ai giovani o a chi li segue da molto vicino, essi faranno della loro poesia una scoperta così lontana dal mio modo d'intendere poesia che sarà per me una grande e forse triste sorpresa. Scusate l'intromissione. Emy
In “La scrittura e la differenza” Jacques Derrida, nel parlare della poetica di Jabés, evidenzia il tema della separazione o dell’assenza e solleva la maschera dell’ambiguità che si cela nella scrittura.
Derrida dice: «Scrivere significa ritirarsi. Ma non nella tenda per scrivere, ma dalla scrittura stessa. Arenarsi lontano dal proprio linguaggio, emanciparlo o sconcertarlo, lasciarlo procedere solo e privo di ogni scorta. Lasciare la parola. Essere poeta significa saper lasciare la parola. Lasciarla parlare da sola, il che essa può fare solo nello scritto».
Scrivere significa ritirarsi - Lasciar parlare la parola= Qui, con una percentuale del discorso che è altissima, in pochissime parole Derrida dirime una questione delle più spinose tanto per il poeta quanto per il critico. E mi sbaglierò pure, ma a me sembra che l’affermazione di Derrida risponda in pari modo sia all’ ”impensato” di cui parla Linguaglossa sia a quel guardare “fuori dal testo” di cui parla Abate.
Trovo interessanti le osservazioni di Rita Simonitto, tanto in riferimento alla realtà quanto in merito a ciò che lei pensa della parola, quando dice che “ la lingua fa fatica a trovare parola. Io penso, però, che la poesia potrebbe trovarla proprio per la sua peculiarità di essere in contatto con l’impensabile.”
A mio avviso però la poesia “è” parola. Ne consegue che, in assenza di parola (se la parola non sgorga), non può esserci poesia. Ma sono d’accordo con Rita sul fatto che a volte (o molto spesso, dipende) non è facile trovare la parola giusta.
Incisiva è poi l’affermazione di Ferraris, sopra riportata da Ennio Abate, quella secondo cui «la prima mossa del realismo consiste sempre in un richiamo alla percezione (così come l’antireralismo parte sempre dalla critica della percezione)», perché conferisce alla “realtà” non già un senso di vago indefinito, bensì di “presa d’atto” di un “particolare momento storico” (Simonitto).
Quando ciò avviene, quando si prende atto della realtà, l’individuo, il singolo, prende allora coscienza di sé e del mondo che lo circonda. Credo che ognuno di noi abbia avuto, ciascuno a proprio modo, esperienze tali per poter intendere simili passaggi di crescita, passaggi che possono darsi anche in modo doloroso, ma che sono pur sempre importanti.
L’analisi lucidissima che Mayoor fa mette bene in vista le molteplici contraddizioni di una società governata non più da soggetti in carne ed ossa ma da oggetti parlanti, una società della quale siamo sempre più spesso spettatori inermi.
(continua)
(segue)
«Quanto più primitiva – cioè coinvolta con i problemi del cibo e del riparo dalle intemperie – è una società tanto più importante è la poesia per la sua sopravvivenza», afferma Northrop Frye in Anatomia della critica.
Oggi siamo agli antipodi dalla visione del critico canadese, tant’è che le domande poste da Ennio testimoniano di un malessere che è, a sua volta, figlio diretto dell’idiotismo di un’intera società ormai consumata.
E tuttavia penso che alla poesia, e quindi al poeta, spetti l’assunzione delle responsabilità di ciò di cui va dicendo.
Essere responsabili. La responsabilità presuppone una scelta e, in quanto uomini pensanti, non siamo coartati; così, come nessuno ci vieta di spegnere i telefonini, nessuno ci vieta di scrivere poesie, come anche nessuno ci paga per scriverle (piuttosto è vero il contrario, che paghiamo per pubblicare); ma rimane pur sempre una scelta che il singolo fa re-spon-sa-bil-men-te.
Parafrasando non ricordo bene chi (Ortega?) su un discorso relativo all’utente in biblioteca, credo che finché ci sarà un solo lettore che saprà trovare nella poesia almeno un’emozione riposta o un rimando alla sua sete di conoscere, continuerà ad avere senso scrivere poesia.
Se la poesia sa dire - come in effetti fa - l’impensabile, o l’inesprimibile, vuol dire che il suo messaggio non sarà banale; allora ben venga l’impensabile, ma non con la balbuzie, bensì per dire ciò che non potrebbe essere detto se non con le parole della poesia.
Per la terza domanda di Ennio, relativamente alla poesia in-fieri, rimando al passaggio di Derrida sopra riportato.
Giuseppina Di Leo
A Mayoor:
Alcuni appunti su quanto hai scritto:
1. Non è che esisteva prima una “realtà quotidiana”, che ora è stata «sottratta al quotidiano e portata su dimensioni extraumane globalizzanti». La realtà quotidiana degli schiavi greci non era la stessa dei loro signori. E non c’è niente di extraumano in certe realtà percepibili solo da chi (scienziati, economisti, governanti) possiede la strumentazione e il potere di “affacciarvisi”. Per loro quella realtà è quotidiana, cioè abbastanza familiare, abbastanza controllabile. Come per noi è esperienza quotidiana prendere il tram, fare la spesa al supermarket, per loro è esperienza quotidiana decidere sulle sorti di una nazione o eliminare un collega “dittatore” o indagare con strumenti sofisticati i “segreti” della materia o del cosmo.
2. Accogli un mito consolatorio, di origine romantica, dicendo che la conoscenza parte dal popolo, dal basso e va verso l’alto. In alto non ci sono solo parassiti o tonti che approfittano di quel che arriva dal basso. Ci sono fior di scienziati, filosofi, artisti che lavorano “a corte” e producono conoscenza, che è quasi da subito accessibile ad altri potenti e usata per progetti di dominio. A volte solo dopo decenni o secoli si hanno delle ricadute (ambigue), di cui si avvantaggiano anche gli altri, quelli che stanno “in basso”. Marx non arrivò a conoscere il funzionamento del Capitale girando per le fabbriche ma studiando l’economia più in vista del suo tempo, detta poi “classica”. E gli esempi si sprecherebbero.
3. I nuovi media, su cui tanto si discute (e la discussione accesa è il sintomo di un conflitto non limitato certamente al settore), permettono di sostituire le precedenti “dimensioni umane”, quelle a cui anche noi acculturati dell’ultima ora abbiamo avuto accesso (letteratura, poesia, pittura) con nuove dimensioni, altrettanto “umane”, ma che a noi sfuggono o di cui abbiamo appena un’infarinatura. Il controllo del Web (che poi significa: di un pezzo di “realtà”) da parte dell’azienda di Casaleggio, il “guru” di Grillo è inconfrontabile con quel granellino da formiche che noi trasciniamo faticosamente facendo un blog o un sito. Noi oggi, con la nostra cultura umanistica, siamo “poveri” e “arretrati” rispetto a lui (e ad altri). Come lo erano i pittori del Medio Evo quando cominciarono ad imporsi in quell’arte i pittori che sapevano di prospettiva. Noi siamo forse più vittime che protagonisti di questa “rivoluzione tecnologica”. Accadde anche ai contadini, quando arrivò la rivoluzione industriale, che dovettero “riciclarsi” in operai di fabbrica. Questa la dura “realtà”. Ma sbaglieremmo però a gridare al «crollo della dimensione umana». Il crollo è del “nostro” mondo e del nostro immaginario (comprese le «avanguardie»). E non è forse neppure vero, secondo me, che il nuovo potere o i nuovi poteri siano senza volto. Siamo noi, tanto tagliati fuori dai luoghi del potere, che non riusciamo a individuarli e a nominarli e, ancora peggio, a capire come sia possibile contrastarli o difenderci dalle loro “gioiose macchine di guerra” (povero Occhetto, che pensava ancora di averne una!).
Ora nel «formicaio» (con scarsa soddisfazione in verità, a meno di non godere di essere raggiunti nell’inferno anche da quelli che si vantavano di essere nel purgatorio o si erano allenati per entrare nel paradiso), stanno finendo appunto anche i settori umanistici delle università o i partiti strutturati ancora alla vecchia maniera dei partiti di massa che in passato contavano molto di più.
[continua]
(continua):
4. Concordo in parte con quello che dici sui versi di Tarkovskij. Dentro ci sento il brivido di una infanzia onnipotente che egli viveva - consapevole o meno - dentro una precisa “realtà”, quella della Russia contadina (e finora ho lavorato sulla terra, ricevendo / il dono dell’acqua fredda e del pane fragrante, / sopra di me stava un cielo senza fondo. / Le stelle mi cadevano sulla manica) che quei brividi poetici forse ancora li permetteva (Io amavo il mio straziante lavoro, questa / costruzione /di parole, collegate da luce propria, l’enigma / dei sentimenti confusi e la semplice soluzione della mente). Ma chi di noi, coi discorsi che oggi ci passano per la testa e il tipo di realtà metropolitana che ci ha invaso se la sentirebbe di scrivere con convinzione: «io, anche adesso, in epoche future, /come un bambino mi solleverò sulle staffe./ Sono soddisfatto della mia immortalità»?
Con questo non mi sento di negare che la poesia possa nascere dovunque, anche in “realtà sorpassate“. Ma non è detto che verrà riconosciuta e apprezzata da quelli che vivranno nelle “nuove realtà”. È bene che ne siamo consapevoli. Non credo che, per arrivare ai posteri, bastino le fregole “futuristiche”, ammesso che alcuni di noi siano in condizioni di permettersele, di “sentirle”. E tuttavia non credo neppure che, tagliati fuori dalle “nuove realtà”, possiamo abbandonarci quasi per disperazione ad una generica nostalgia del passato. Non escludo che questa possa essere una via da tentare. Ma non può essere una generica nostalgia. Non può essere, cioè, nostalgia del tutto ignara di quello che, appunto nella “realtà” da noi inafferrabile, sta avvenendo velocemente e drammaticamente. Qualcosa di essa dovrà pur percepire. E, per farlo, è bene - ripeto - non pensare che noi abbiamo vissuto in modi “umani” e altri ormai vivono in modi “disumani”. I confini dell’umano non sono mai fissi. E l’”umano” è spesso anche “disumano” (per una parte degli “umani”).
5. Quale poesia per oggi o per domani? È una domanda a cui non bisogna rispondere in fretta, con faciloneria e supponenza. Proprio perché le trasformazioni della “realtà” non incidono automaticamente sulla forma che la poesia potrà assumere e sulla sua stessa esistenza. Non basta adeguare il linguaggio ad alcuni degli elementi più visibili della “postmodernità”, come fecero i futuristi con quelli della loro epoca. E, come ho detto prima, neppure dare con leggerezza un colpo di spugna alla Tradizione o al Passato. Io sarei molto cauto nel fare ipotesi, che pure vanno tentate.
A Giuseppina Di Leo:
In Derrida, che molti giudicano insopportabile, ho trovato sempre qualche spunto che mi ha suggestionato. Ma poi ci rumini su e a volte si rimane delusi.
Prendiamo la citazione che proponi.
«Scrivere significa ritirarsi» riesco a intenderlo. Corrisponde abbastanza all’esperienza di molti che scrivono (non di tutti, se ci riflettiamo bene, anche perché i modi di “ritirarsi” sono vari. Sartre, anche se non era un poeta, pare che scrivesse in pubblico in un bar di Parigi, se non ricordo male…).
Ma che vuol dire «lasciar parlare la parola»? Quale parola? Quella dei libri che leggiamo? Quella di un libro che per noi è il Capolavoro? E parola va intesa con la minuscola o la maiuscola? E la parola è quella che ci viene in mente o sulla punta della lingua in dati momenti, mentre viviamo particolari stati d’animo? Nel dormiveglia? In preda a una passione, all’angoscia, a qualche sentimento più o meno definito?
Insomma resto perplesso. Lo stesso vale per la tua definizione che la poesia *è* parola. Perché solo parola? Mi pare la visione ristretta e un po’ sacerdotale degli ermetici che la privilegiavano. La poesia è stata ed è anche costruzione sintattica, discorso, narrazione, immagine, pensiero, suono. La sua tastiera mi pare ben più vasta.
[fine]
a Ennio Abate,
con le parole si dichiarano anche le guerre, così come si scrivono trattati di pace.
E' evidente che la poesia non è solo "la" parola, ma è altrettanto vero che senza le parole Gutemberg avrebbe avuto poco da stampare.
Giuseppina Di Leo
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