Catalogo delle stelle
Finora non
ci avevo pensato.
A che mi
serve un catalogo delle stelle?
Nel
catalogo dieci milioni
di numeri
di telefoni celesti,
dieci
milioni di numeri
di telefono
di nebbie e mondi,
codice
pieno di luminescenza e scintillio,
elenco di abbonati
dell’universo.
Io so qual
è il nome della stella,
troverò anche
il suo telefono,
aspetterò il
turno della terra,
girerò l’alfabeto
d’acciaio:
L – 13 – 40 – 25
Io non so
dove cercarti.
Si
metterà a cantare la membrana del telefono:
Risponde Alfa Orione.
Sono in viaggio, io ora sono una
stella.
Io ti ho
dimenticato per sempre.
Sono una
stella – sorellina dell’aurora,
non
vorrò nemmeno venirti in sogno.
Di te non
mi importa più nulla.
Telefonami
tra trecento anni.
(1940-1945)
***
Tu, come
una farfalla bianca e nera,
non come
volevamo noi selvaggiamente e coraggiosamente,
nella mia
casa entrasti volando,
non fare
una magia su di me, non rendere
il mio
cuore più amaro dell’amaro.
La tenebra,
ispirata dalla luce,
la stessa
oscura fedeltà ai voti
e il
fazzoletto che scende dalle spalle.
Ma anche in
questa trepidazione
lo stesso
veleno e una conversazione non in russo.
(1946)
***
Ho studiato
l’erba, aprendo il quaderno
e l’erba ha
iniziato, come un flauto, a suonare.
Io coglievo
la corrispondenza del suono e del colore
e, quando
la libellula il suo inno intonava
andando tra
i verdi tasti come una cometa,
io
già sapevo che qualunque gocciolina di rugiada è una lacrima.
Sapevo che
ogni faccetta dell’enorme occhio,
in ogni arcobaleno
delle ali splendenti
dimora la
parola più ardente del profeta
ed il
mistero ad Adamo io, come per miracolo, schiudevo.
Io amavo il
mio straziante lavoro, questa costruzione
di parole,
collegate da luce propria, l’enigma
dei
sentimenti confusi e la semplice soluzione della mente,
nella
parola ‘verità’ mi pareva di vedere la verità stessa,
la mia
lingua era veritiera, come un’analisi spettrale
ma le
parole si prostravano ai miei piedi.
Ed ancora
io dirò: mio vero interlocutore,
ho sentito
un quarto di rumore, ho visto a mezza luce,
tuttavia
non umiliai né il prossimo né le erbe,
non offesi
con l’indifferenza la terra paterna
e finora ho
lavorato sulla terra, ricevendo
il dono
dell’acqua fredda e del pane fragrante,
sopra di me
stava un cielo senza fondo.
Le stelle
mi cadevano sulla manica.
(1956)
Il manoscritto
Ad Anna Achmatova
Ho finito
il libro ed ho detto basta
non posso
più rileggere il manoscritto.
Il mio
destino si è bruciato tra le righe
mentre
l’anima cambiava rivestimento.
Così il
figliol prodigo si strappa la camicia dalle spalle
così il
sale dei mari e la polvere delle strade terrestri
benedice e
maledice il profeta,
che da solo
camminava sugli angeli.
Io sono
quello che ha vissuto al suo tempo
ma non ero
io. Io il più giovane della famiglia
degli
uomini e degli uccelli, io ho amato insieme a tutti
e non
abbandonerò il banchetto dei viventi –
diretto
sigillo del loro onore familiare,
diretto
vocabolario dei legami di radice.
(1960)
Il
piffero della steppa
Vivevano,
combattevano, pativano la fame
morivano
serenamente da soli.
Io non sono
un pittore, non mi servono
i dettagli,
prenderò meglio un sol.
Di tutto il
largo consumo della terra
mi hanno
portato soltanto un piffero
ho preso poco
dalla terra per il cielo,
ho preso di
più dal cielo per la terra.
Scuotendo
il berretto, ho lasciato cadere gli astri,
dalla
manica ho lasciato partire gli uccelli.
Da tempo la
terra si è scordata di me
sebbene sia
viva per il mio rimeggiare.
II
Ad ogni
suono corrisponde un’eco sulla terra.
I pastori
bollivano il culesc sulla caldaia,
le pecore
si grattavano attorno a noi
e battevano
i neri ciabattini.
A che mi
servono i soldi? Gli onori, la gloria
nella
steppa serale senza fine e confini?
Voglio
mangiare con Ovidio il cacio pecorino
e gemere
sulla riva del Don
senza
distinguere le voci lontane,
senza
aspettare le vele benedette.
III
Dove Ovidio
ha tradotto
in latino
la tempesta,
io ho
bevuto l’azzurro della steppa
e ho
cucinato una zuppa di molluschi.
E col fuoco
della disgrazia da parte a parte
ho ripulito
soffiando il piffero
e per
questo gli accordi cantano, come Mariula
e per
questo nella nostra
famiglia
non manca la pecora nera
ed
è bella la mia
libertà del
Don.
Dove lui
scaldava per il freddo
una
focaccia sul palmo delle mani,
là la
stella del sud
sta nella
volta celeste.
IV
Terra di
steppa, infruttuosa,
infiammabile
ma dentro vi è per il cuore
l’osseo
violino del grillo campestre
e la gloria
umiliata dell’imperatore.
E dov’è il
mio violino? Lo sa Dio.
Ricordando
l’esilio di un altro,
con Ovidio
anch’io a dieci a dieci
ho
sfogliato il quaderno sulla riva del Don.
Per il
giallo e per il fiele ho amato questa regione
e dicevo:
“Canta, mio grillo!”
E dicevo:
“Sette anni di cammino fino a Roma!”
E adesso
sono lontano dalla steppa .
Vivi almeno
tu, sorso di secco respiro,
capanna,
pelliccia, latte di pecora.
(1960-1964)
Primi
appuntamenti
Dei nostri
incontri ogni istante
noi
festeggiavamo, come un’epifania,
soli nel
mondo intero. Tu eri
coraggiosa
e più leggera dell’ala di un uccello,
lungo la
scala, come una vertigine,
scendevi
saltando i gradini e conducevi
attraverso
l’umido lillà nei tuoi possedimenti
dall’altra
parte dello specchio.
Quando la
notte calava, la grazia
mi veniva
concessa, le porte degli altari
si aprivano
e nell’oscurità splendeva
e
lentamente si tendeva la nudità.
E,
svegliandomi, “sii benedetta”
dicevo e
sapevo che la mia benedizione
era
ingiuriosa: tu dormivi
e per te il
lillà si allungava dal tavolo
a sfiorare
le palpebre con l’azzurro del mondo
e le
palpebre, sfiorate dall’azzurro,
erano
tranquille e la mano tiepida.
Ma nel
cristallo pulsavano i fiumi,
fumavano le
montagne, rilucevano i mari
e tu tenevi
nel palmo la sfera
di
cristallo e dormivi nel trono
e – quant’è
vero iddio – eri mia.
Tu ti
svegliasti e trasformasti
il
vocabolario quotidiano dell’uomo
e le parole
si riempiono nella gola
del vigore
di un suono nuovo e la parola “tu”
svela il
suo nuovo significato: “re”.
Nel mondo tutto
si trasfigurò, persino
le cose
semplici – il catino, la brocca – quando
stava, come
di guardia, tra di noi
l’acqua
stratiforme e dura.
Ci condusse
non si sa dove.
Davanti a
noi cedevano il passo, come miraggi,
città costruite
come per miracolo,
la stessa
menta si stendeva ai nostri piedi
e gli
uccelli andavano con noi lungo la strada
ed i pesci
salivano lungo il fiume
ed il cielo
si spiegava davanti agli occhi…
Quando il
destino ricalcava le orme dietro di noi,
come un
pazzo col rasoio in mano.
(1962)
Ospedale
da campo
Girarono il
tavolo verso la luce. Io giacevo
con la
testa all’ingiù, come carne al peso,
la mia
anima palpitava nella rete
ed io mi
vedevo dal di fuori:
senza
aggiunte ero equilibrato
come un
grasso peso del mercato.
Questo avveniva
nel centro
di uno scudo di neve
scheggiato
nella parte occidentale,
nel circolo
di paludi che non gelano,
di alberi
con le gambe massacrate
e di
piccole stazioni ferroviarie
con crani
spaccati, nere
per i passi
nella neve, ora doppi, ora
tripli.
Quel giorno il tempo si fermò,
le ore non
passavano e le anime dei treni
lungo le
scarpate non sfrecciavano più
senza
lampade, nei grigi lasti del vapore
e non
c’erano né nozze di cornacchie, né tempeste
né disgeli
in quel limbo
dove io
giacevo, nella vergogna, nudo,
nel mio
sangue, fuori del campo di gravitazione
futura.
Ma io mi
spostai e cominciai a camminare sugli assi
intorno
allo scudo di neve abbagliante
ed in
basso, al di sopra della mia testa,
sette
aeroplani si spiegarono
e la garza,
come corteccia d’albero
si induriva
sul corpo e correva
il sangue
di un altro dal matraccio nelle mie vene
ed io
respiravo, come un pesce nella sabbia,
ingoiando
la dura, micacea, terrestre
fredda e
benedetta aria.
Avevo
le labbra arse ed ancora
mi davano
da bere col cucchiaino ed ancora
non potevo
ricordare come mi chiamavo
ma rinacque
nella mia lingua
il
vocabolario del re David.
Ma dopo
anche la
neve andò via ed una precoce primavera
si
sollevò in punta di piedi e coprì
gli alberi
col suo giallo scialle.
(1964)
Vita,
vita
I
Non credo
nei presentimenti e dei segni
non ho
paura. Né la calunnia né il sarcasmo
io fuggo.
Nel mondo non c’è la morte.
Tutti sono
immortali. Tutto è immortale.
Non bisogna
temere la morte né a diciassette anni
Né a
settanta. Esistono solo la realtà e la luce,
in questo
mondo non ci sono né buio né morte.
Noi tutti
siamo già sulla riva del mare
ed io sono
tra quelli che tirano le reti
mentre
passa a branchi l’immortalità.
II
Vivete in
casa – e casa non crollerà.
Io
evocherò uno qualunque dei secoli,
entrerò in
esso ed in esso una casa costruirò.
Ecco
perché sono con me ad un unico tavolo
i vostri
figli e le vostre mogli.
Ma c’è un
unico tavolo per il bisnonno e per il nipote.
Il futuro
si compie ora
e se io
sollevo la mano
tutti e
cinque i raggi rimarranno presso di voi.
Io ogni
giorno del passato, come una puntellatura,
con le mie
clavicole ho sostenuto,
misurai il
tempo con la catena dell’agrimensore
ed
attraverso esso sono passato, come attraverso gli Urali.
III
Io mi
sceglievo il secolo secondo la grandezza.
Andavamo al
sud, alzavamo la polvere sopra la steppa;
l’erbaccia
fumava; il grillo campestre faceva il birichino,
toccava con
i baffi i ferri dei cavalli e profetava
e, come un
monaco, minacciava per me la rovina.
Io il mio
destino alla sella allacciavo;
io, anche
adesso, in epoche future,
come un
bambino mi solleverò sulle staffe.
Sono
soddisfatto della mia immortalità,
che il mio
sangue scorra di secolo in secolo.
Per un
angolo sicuro di costante calore
io avrei
arbitrariamente pagato con la vita,
qualora il
suo mobile ago
non mi
avesse, come filo, condotto per il mondo.
(1965)
***
Nell’ultimo
mese dell’autunno
al
crepuscolo della mia amarissima vita,
colmo di
dolore,
io sono
entrato in un bosco senza foglie e senza nome.
Da un lato
era lambito
dal
bianco-latteo specchio
della
nebbia.
Lungo i
rami biancastri
colavano
lacrime limpide
quali soltanto
gli alberi piangono alla vigilia
di un
inverno completamente privo di colore.
E allora
avvenne il miracolo:
al tramonto
baluginò l’azzurro
da dietro una nuvola
e un raggio
luminoso si fece largo come in giugno
dai giorni
futuri del mio passato.
E
piangevano gli alberi alla vigilia
delle
grandi fatiche e delle grazie festive
delle
semplici tempeste che turbinano nell’azzurro
e le
cinciallegre danzavano in circolo
come mani
che lungo la tastiera
vanno dalla
terra alle note più alte.
(metà anni
’70)
* Presentazione di Giorgio Linguaglossa
Viene qui presentata una ampia scelta delle poesie del
poeta russo Arsenij Aleksandrovič Tarkovskij, tratte dal volume Stelle
sull’Aragaz, edito nel 1988 ad Erevan, che comprende oltre ad una raccolta
della sua personale produzione poetica, anche traduzioni in lingua russa di poeti
armeni a cura dello stesso Tarkovskij. Andreij Tarkovskij nasce nel 1907 ad
Elizavetgrad (oggi Kirovograd) in Ucraina, e si dedica fin da giovane alla
traduzione di numerosi poeti da svariate lingue (armeno, turkmeno, karakalpaco,
georgiano, ebraico e arabo). Quanto questo assiduo esercizio di traduzione
abbia influito sulla sua poesia è un problema aperto, ma certamente la
frequentazione di una palestra stilistica così vasta ha avuto un peso rilevante
nella elaborazione della peculiarissima aura di inattualità delle sue poesie e
conforterà il poeta nei lunghissimi anni di silenzio cui sarà costretto. Il
primo volume delle sue poesie vedrà la luce soltanto nel 1962, Pered snegom (Neve imminente, 1929-1940);
nel 1969 esce Vestnik (Il messaggero 1966-1971); nel 1974 Sticotvorenija
(Poesie); nel 1978 e nel 1979
escono rispettivamente Volsebnye gory (Le montagne incantate) e Zimnijden (Giornata d’inverno 1971-1979). Il 27 maggio 1989 muore a Mosca e
viene sepolto a Peredelkino.
La presente traduzione ha rispettato fedelmente la misura
del verso russo senza tentare una resa in un equivalente metro italiano,
operazione che avrebbe fatalmente corso il rischio di falsare i ritmi
colloquiali della lingua originale; la utilizzazione dell’a capo rigorosamente
conformato a quello del testo russo ha consentito, in qualche misura, la
conservazione anche nella versione italiana degli enjambements e delle cesure interne, così come dei tempi lenti di
progressione delle immagini.
Se la rivoluzione è incentivo al trasognato lirismo di
Chlébnikov, la «fame di spazio» occupa totalmente la mente dei grandi poeti
russi del Novecento. Chlébnikov percorre due volte, andata e ritorno, la linea
ferroviaria Chàr’kov-Kiev e attende la primavera appollaiato in cima a un
albero di ciliegio nei pressi di Chàr’kov, o osserva il cielo stellato
dall’alto di un treno in corsa. Così, Tarkovskij scrive una poesia ironica su
un immaginario improbabile «catalogo delle stelle», e Mandel’štam cita la
«lenta asmatica vastità» dell’orizzonte di Voronez ove «lo spazio ha perso
gusto e colore», ovvero, guarda «nel bellissimo binocolo Zeiss… tutte le rughe
dello gneiss», la catena dei monti dell’Ararat, l’odierna Armenia. Se
Chlébnikov è un «viaggiatore incantato», e Brodskij, invece, nel suo esilio,
rappresenta il «viaggiatore solitario», Tarkovskij è a metà, l’uno e l’altro, è
poeta del sogno e della storia, entrambe le dimensioni trasfigurate nell’alone
fiabesco della terribile storia russa, evanescente come un sogno. In Tarkovskij
è presente la imagery dominante della poesia russa del XX secolo che è stata
riassunta nella formula: specchio-candela-ombra-sogno, e che dalla Achmàtova
passando per Derzavin, Baratynskij e Mandel’štam, giunge oggi fino a Brodskij.
Il manierismo debole di certe immagini di Tarkovskij non ha nulla di gratuito o
di rococò, ma corrisponde ai movimenti lievi e improvvisi della memoria, d’una
memoria inutilizzabile nel mondo che ha conosciuto la barbarie della seconda
guerra mondiale; la sua è una poesia da camera, poesia d’un solitario che si
rivolge ad altri solitari nella assoluta estraneità al mondo del Potere e della
Storia. Lo spietato rigore della metrica e delle rime dei testi originali vuole
soltanto ribadire il carattere addomesticato, domato della materia, il
virtuosismo tecnico è virtuosismo formale che presuppone il dato
dell’esistenza. Il materiale poetico è ciò che rimane della materia viva e
palpitante della vita. La rivoluzione fa parte del trapassato remoto, e
l’armamentario degli slogans del suo tempo trova il poeta non ostile, bensì
completamente estraneo, come se abitasse un altro pianeta, la dacia dove
volavano le farfalle. Anche l’orrore degli avvenimenti della propria biografia
– come nella poesia «Ospedale da campo», ove viene rivissuto l’episodio
dell’amputazione della gamba, avvenuto nel 1943 a seguito della ferita
inferta da un proiettile esplosivo presso Velike Luki – viene trasfigurato in
atmosfere di sogno e irreali.
La struttura simbolica significativa che presiede la poesia
di Tarkovskij è rappresentata dalla opposizione tra la immobilità della storia
russa e la direzionalità, la verticalità, il moto unidirezionale della modernità
che irrompe con le immagini dei treni che sfrecciano e degli aeroplani che
volteggiano. Detta polarità è attraversata dalla figura del poeta-profeta,
«cronista del mesozoico», «il Geremia dei tempi futuri» che tiene in mano
«l’orologio e il calendario»; strumenti, marchingegni escogitati dall’uomo per
tentare di conciliare il tempo oggettivo e il tempo soggettivo, la storia e
l’anima, l’immortalità e la caducità. Nella poesia «Vita, vita», il tono
sacrale trova d’incanto l’esatta misura d’uno stile ieratico che si staglia in
grandiose metafore tridimensionali, dove la potenza delle immagini rimanda alla
integrità del poeta, alla sua forza interna, invincibile, che la fede
nell’«immortalità» gli restituisce dopo lo scacco del destino e della storia.
Sono versi di eccezionale altezza:
Nel mondo non c’è la morte./ Tutti sono immortali. Tutto è
immortale./ Non bisogna temere la morte né a diciassette anni/ né a settanta.
Esistono soltanto la realtà e la luce,/ in questo mondo non ci sono né buio né
morte./ Noi tutti siamo già sulla riva del mare / ed io sono tra quelli che
tirano le reti,/ mentre passa a branchi l’immortalità./ Vivete in casa – e la
casa non crollerà./ Io evocherò uno qualunque dei secoli,/ entrerò in esso ed
in esso una casa costruirò./… Io ogni giorno del passato, come una
puntellatura,/ con le mie clavicole ho sostenuto,/ misurai il tempo con la
catena dell’agrimensore/ ed attraverso di esso sono passato, come attraverso
gli Urali.
L’«immortalità» indica l’attraversamento che gli uomini devono
operare, nella negatività della storia, di quella distesa grigia e arida
rappresentata dal mondo infirmato dalla mortalità. La costellazione
simbolico-metaforica è qui: l’onda, la stella, l’uomo, l’uccello, la realtà, i
sogni, la morte… e, di nuovo, l’onda. L’epifania della verità avviene «tra gli
specchi – riflesso nel recinto/ dei mari e delle città che brillano nel fumo».
E la pace dell’«immortalità», dell’«onda» che va dietro l’«onda» è
rappresentata dalla «madre (che) piangendo, prende il bimbo in grembo». Le
immagini del «grembo materno», delle «erbe infantili», della «città col
Cremlino sul fiume» e le altre variazioni della immagine archetipica materna
acquistano plasticità e vigore se proiettate sullo sfondo delle «acque nere»,
della «riva», della «casa distrutta dalla guerra», etc.: lo sfondo luteo della
storia, il magma acherontico che investe la coscienza infelice. Compito del
poeta è cogliere «la corrispondenza del suono e del colore». La metafora è
combinazione di rappresentazioni in funzione di una più ricca unità semantica.
Come per Mandel’štam anche in Tarkovskij il mutamento dei significati diviene
evidente attraverso il contenuto delle parole nel contesto dell’opera, laddove
esse producono vicendevolmente nuovo senso mediante improvvise rimozioni e
profonde anamnesi. Con questo metodo si ottengono le parole portanti, si mette
in luce la ricchezza delle parole-chiave. Mandel’štam studiò la produzione di
queste parole-chiave nel simbolismo oggettivo e psicologico di Innokentij Annenskij.
La rifrazione della vita nei simboli poetici è per Mandel’štam accettabile,
inaccettabile è l’estrazione di un «simbolismo professionale»; «le immagini
sono sventrate come animali da impagliare -
scrive Mandel’štam criticando il simbolismo – e imbottite di un
contenuto a loro estraneo… Una spaventosa controdanza di “corrispondenze” – che
ammiccano l’una all’altra. Un eterno strizzar d’occhio… la rosa rimanda alla
fanciulla, la fanciulla alla rosa». Mandel’štam propone «una poetica organica
di carattere non normativo, bensì biologico», cioè di «considerare la parola
come un’immagine, una rappresentazione verbale… un complesso insieme di
fenomeni, un nesso, un sistema»* Tarkovskij ha studiato in Mandel’štam la
componente architettonica della sua poesia, la dislocazione spazio-temporale
del materiale linguistico, l’assoggettamento del materiale alle esigenze costruttive. Anche in Tarkovskij come in
Chlébnikov l’avvenire e il passato coincidono, così come primitivismo e utopia,
polarità contraddittorie, vengono risolte con l’indebolimento dell’utopia e con
la massiccia immissione di tracce della quotidianità all’interno delle
composizioni poetiche. Proprio come in Chlébnikov, il futuro diventa esperienza
anteriore, ciò che deve accadere è già avvenuto, il futuro non è ciò che sarà
ma ciò che è già stato. Probabilmente, una tale concezione rivela l’influenza
delle teorie di Fedorov, il suo concetto della storia come progetto e
simultaneità di tutte le generazioni. Per Tarkovskij il mondo tecnologico, la
modernità, sono inconciliabilmente ostili alla silvestre innocenza dello stato di natura; del resto, tutte le
sue metafore sono rigorosamente tratte dalla civiltà agricola («la svasatura
dell’imbuto», «la ruota del vasaio», «gli occhi dell’erba», «il catino, la
brocca», «la gonna di cotone stampato», etc. – Il tessuto quietamente
discorsivo dei testi stride con le metafore lampeggianti e le vertiginose
accelerazioni; v’è un’algebra delle corrispondenze, vi sono dei cunicoli
sotterranei, una densità semantica, rimandi espliciti e impliciti alla grande
tradizione della poesia russa, in particolare a Mandel’štam, con il quale
condivide il concetto di metafora come costruzione complessa fondata su
rapporti di inerenza. Non è affatto un caso che le ultime bozze di quello che
avrebbe dovuto essere il suo primo volume di versi (corre l’anno 1946) ad una
lettura attenta da parte di un funzionario di partito, eufemisticamente
denominata «recensione per uso interno», recitava: «poeta di grande talento,
Tarkovskij appartiene a quel Pantheon Nero della poesia russa a cui
appartengono anche Achmàtova, Gumilev, Mandel’štam e l’emigrante Chodasevič, e perciò quanto più
talento vi è in questi versi tanto più essi sono nocivi e pericolosi». La
recensione sfavorevole indurrà la casa editrice Sovetsjij pisatel’ a
distruggere il piombo delle matrici.
Il rifugio in una lirica della natura è lo stratagemma
residuo che resta al poeta che non intenda sottomettersi all’estetica
zdanoviana e che voglia sottrarsi al kitsch dell’arte del realismo socialista.
I processi autoritari di accumulazione forzata del capitale e la erezione di
uno stato socialista basato sulla socializzazione dei rapporti di produzione,
erano le condizioni più svantaggiose per la nascita della poesia, e tali
condizioni imposero l’assunzione della forma della poesia lirica.
Tarkovskij prende le distanze dalla assunzione acritica del
concetto di «natura»; dichiara il poeta russo: «non v’è libertà nella natura»,
ché altrimenti finirebbe dritta nell’anacronismo, non soltanto perché il suo
contenuto di verità è scomparso ma soprattutto perché la natura è inattuale; la
celebrazione del passato remoto sarebbe il ripristino di un rito museificato,
deificato. Per Tarkovskij «il nostro passato è in tutto simile a una minaccia».
È questa la posizione di partenza della sua poesia: la percezione che l’arte, a
fronte della stato socialista, non è altro che un diversivo all’orrore, «crittografia del dolore, anamnesi di ciò che
è stato sconfitto».(1)
Sotto le condizioni imposte dalla amministrazione totale
dello stato socialista sovietico, unica via di uscita è la certezza che «il
vento che irrompe violento nella vita – dissolverà – le farfalle che giocano
col fuoco». Sembra una chiarissima premonizione della fine dell’Impero, della
rovinosa caduta degli idoli. Soltanto un veggente che vive nella propria
veggenza poteva possedere strumenti di auscultazione così sofisticati e
sensibili da intravedere con tanto anticipo gli esiti finali. A ben leggere, i
testi dei grandi poeti ci indicano sempre il cammino del futuro: «La tempesta
qua e là per la Russia
/ scagliava loro dei bengala. «Ed era soltanto l’inizio», scrive Tarkovskij in
una poesia del 1976. I poeti del Pantheon Nero avevano già messo su carta il
colore nero dell’orrore. In Tarkovskij e in Chlébnikov la farfalla e il cigno
bianco sono ipostasi del poeta e della bellezza: il «candido angelo», il «cigno
morente», la «candida neve» sono simboli che annunciano la caducità della
bellezza; la «notte», ovviamente, è il luogo della morte, ove «più leggera
dell’ala di un uccello» trascorre la bellezza «come una vertigine». Ma la
«bellezza» può anche condurre «dall’altra parte dello specchio»: «Nel cristallo
pulsavano i fiumi, / fumavano le montagne, rilucevano i mari». Così, la morte
può essere detronizzata soltanto dall’amore che tutto trasfigura, perché la via
che conduce alla morte si chiama «destino»: «quando il destino ricalcava le
orme dietro di noi, / come un pazzo col rasoio in mano». Questa complessa rete
di simboli fondata sulla opposizione binaria luce-tenebra regge tutta la poesia
di Tarkovskij, ed infonde spessore analogico alle similitudini Il poeta è, di
volta in volta, «Nestore, cronista del mesozoico», «Geremia dei tempi futuri»,
perché il poeta sa «della morte più cose dei morti», e il suo romanzo è preda
dell’«orologio» e del «calendario», del «passato» e del «futuro»; soltanto la
morte, «la terribile bocca della regina Kore» può fornire il viatico per la
«verità». Ed ecco i simboli della «pioggia», del «mare» e del «ruscello» che
richiamano l’idea del fluire dell’universo nell’«irripetibile movimento
dell’erba», nella «immortalità»; il tempo soggettivo fluisce e sfocia nel tempo
oggettivo: «io mi sceglievo il secolo secondo la grandezza». La terribile
storia russa detta a Tarkovskij i versi tra i più commoventi e saldi della
poesia russa del XX secolo: «vivete in casa – e la casa non crollerà (…) il
futuro si compie ora». Una dichiarazione di fede così alta trova concrezione in
questi versi monumentali, scanditi con lenta, sacrale progressione.
(1) T.W. Adorno, Teoria
estetica Einaudi, Torino, 1975
Arsenij Aleksandrovič
Tarkovskij
(da:http://it.wikipedia.org/wiki/Arsenij_Aleksandrovi%C4%8D_Tarkovskij)
in russo: Арсений
Александрович Тарковский[?](Elisavetgrad, 25 giugno 1907 – Mosca, 27 maggio 1989) è stato un poeta e traduttore russo, di origine ucraina dal temperamento alquanto instabile, padre
del famoso regista Andrej Arsen'evič Tarkovskij.
Alla fine degli anni venti Arsenij Tarkovskij inizia la
collaborazione con alcune riviste e scrivedrammi per la radio sovietica. Nel 1932, accusato di misticismo,
deve abbandonare il suo lavoro e si dedica quindi all’attività di traduttore dall’arabo,
dall’ebraico, dall’armeno,
dal georgiano, dal turkmeno e da altre lingue ancora. Inizia,
sempre in quel periodo, a frequentare Anna Achmatova e Osip Mandel'štam, attirando su di sé
ulteriori attenzioni da parte del regime, che gli costeranno una censura durata sino agli anni sessanta.
Arruolato come soldato nella seconda guerra mondiale, nel 1943 viene insignito dell’Ordine della Stella Rossa per il suo eroismo in battaglia e in seguito, gravemente ferito, deve
subire l’amputazione di una gamba.
A partire dal 1962 inizia la pubblicazione delle sue poesie, che
consisteranno in una decina di raccolte in tutto. Muore a Mosca il 27 maggio 1989.
2 commenti:
dobbiamo essere grati alla traduttrice Donata De Bartolomeo per aver saputo entrare in simpatia con il poeta russo e averci dato questa mirabile resa in autentica poesia in italiano dell'originale russo. Tarkovskij indubbiamente appartiene a quella grande galleria dei poeti del Panteon Nero, come rileva con acutezza il censore del regime, a cui appartengono i maggiori poeti degli anni Dieci e Venti del Novecento russo.
Molto probabilmente i migliori critici sono proprio i censori: essi non sbagliano mai un colpo, sanno individuare con precisione massima i grandi poeti. Oggi che non abbiamo più una censura ma i letterati della medietà, assistiamo a una confusione babelica di aspiranti poeti editi nelle più prestigiose (un tempo) collane di poesia. Mi sento quindi di auspicare l'avvento dei censori di regime e non di questo regime della permissione assoluta dove si pubblica di tutto e di tutti, senza nessun vaglio critico. Tarkovskij appartiene a quel limbo quando ancora era possibile scrivere una lirica «pura» nell'impurità delmondo della Storia; oggi, purtroppo, non è più così, la lirica si è trasformata in discorso poetico, si è socialdemocratizzata, una democratizzazione senza democrazia, è avvenuto un capovolgimento di ciò che un tempo era lirica in lirismo pseudo elegiaco. Credo che bisogna ritornare alla poesia di tarkovskij, ai grandi maestri del Panteon Nero.
Laura Canciani
da Rita Simonitto 09.03.2013
Ho attraversato queste poesie di Arsenij Tarkovskij come quando si visita una mostra di icone, e il passo è trepidante e non leggero per tutto ciò che di simbolico l’icona porta con sé rispetto alla relazione umano/divino, in particolare modo se ci riferiamo alla tradizione iconografica russa. E poi anche perché le icone non si lasciano solo guardare, ma le loro figure ti coinvolgono nello sguardo, quasi ti seguono ad interrogarti.
C’è in queste poesie, almeno per me, una forte carica di sacralità immanente alle cose di cui il poeta ci parla. Una sacralità che non significa la presa di distanza tra il divino e l’umano bensì il contrario. E’ un atto di prendersi cura. E l’importanza di questa ‘non trascuratezza’ travalica l’esperienza specifica dell’epoca in cui lo scrittore vive, già insidiata dall’esperienza della guerra. E’ questa ‘attitudine’ che lega ogni soggetto alla sua realtà. In queste poesie vediamo che, pur nel dolore, anche l’atroce dolore fisico, Arsenij è sempre lì.
Nello stesso tempo, mi ha colpito quell’esperienza di non trans-mutazione temporale (* Non mi occorrono le date: io ero, e sono e sarò*): esiste quindi una continuità nel cambiamento? E come?
E poi quel legame tra soggetto e immagine: sogno e sguardo sono presi come da *vertigine* e in quella si intrecciano prima di prodursi in una icona verbale: le poesie *Primi appuntamenti* e *Nell’ultimo mese dell’autunno/al crepuscolo della mia amarissima vita*, le vedo molto rappresentative di ciò.
Infine la parabola che passa dalla frustrazione (*Ti destasti e cangiasti/il vocabolario quotidiano degli umani*, e * Alla luce tutto si trasfigurò, perfino/gli oggetti più semplici - il catino, la brocca …*) alla speranza. Speranza che non si declina soltanto in una visione di immortalità *che passa a branchi* ma in quel *futuro che si compie ora*. Oppure nell’esortazione: * Vivete in casa – e casa non crollerà./Io evocherò uno qualunque dei secoli,/entrerò in esso ed in esso una casa costruirò.* Dove il “vivere in casa” è l’invito a trarre forza dalla propria esperienza interiore che collega il passato al presente. La forza evocativa è potente e viene ripresa da G. Linguaglossa nel suoi versi *Sullo stipite del tempo, l'algida immortalità dell'angelo:/"Vivete in casa e la casa non crollerà.* (da “La grande casa immersa negli aranci”).
Acque, fuoco, natura sono i luoghi simbolici a cui la poesia di Arsenij attinge. E che vedremo poi illuminarsi nelle immagini misteriose e nelle storie struggenti dei film del figlio Andreij: in particolare “Andreij Rublev”, “Stalker” e “Nostalghia”. Arsenij scriveva spesso al figlio lettere e poesie: ed era come se a quei versi fosse stato dato, attraverso il cinema, sonorità, movimento e colore.
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