sabato 9 marzo 2013

DISCUSSIONE
Giorgio Mannacio,
Su "Come leggere
e interpretare la poesia".


Desidero  intervenire nel fitto dialogo tra Abate, Linguaglossa ed altri (qui). I miei rilievi – che vogliono essere osservazioni su singoli punti (precisazioni, dubbi, aperture su orizzonti paralleli etc.), nella ritenuta impossibilità di una sintesi esaustiva – seguiranno,più o meno fedelmente,l’ordine che hanno assunto,nel blog, i vostri contributi.

LINGUAGLOSSA (1 )

Dici: la poesia apre l’impensato al pensiero. La correzione che farei è questa: la poesia apre all’impensabile. Non c’è mai nulla di impensato nella poesia (questa la mia esperienza ) sia nei contenuti che nelle modalità. Si “ cattura “ l’impensabile – cioè quanto non è definibile in termini concettuali e/o scientifici – nei confini di un dire in qualche modo intellegibile. Tale intelligibilità si raggiunge attraverso una “ scienza “ . In questo senso va inteso l’aforisma “ars sine scientia nihil" attribuito ad uno dei costruttori del Duomo di Milano.
Il rapporto tra l’impensabile e il pensato della poesia si può anche descrivere in termini di mimesis (Aristotole, Tommaso) mediata però dal pensiero leopardiano di cui a Zibaldone, 6
( almeno nella mia lettura ) che privilegia “ la tensione nell’imitazione” piuttosto che il suo risultato.

ABATE ( 1 )

Credo che l’osservazione di Fortini (una vera ossessiva presenza, per te, Ennio : absit iniura verbis) circa la relazione tra ciò che il testo non è e la Realtà possa stare tutta nel precedente punto, esservi compresa senza difficoltà logiche e secondo lo specifico contenuto che si dà al secondo termine.
Nessuno nega le condizioni invisibili di cui parla Van Dijk ,si tratta solo di dare ad esse la
“ giusta collocazione “ nel testo che è poi il “ banco di prova del nostro fare “ ( poiesis ).
Le condizioni materiali ( idest storiche del nostro fare ) non servono a dire se una poesia è bella o brutta ( uso tali termini euristicamente ) ma solo a vedere quel “ non visibile “ o impensabile che è stato pensato.
Anche Fortini nega a più riprese che si possa trasferire volgarmente una opzione marxista nell’analisi estetica di una poesia, ma la sua insistenza mi sembra una excusatio fin troppo scoperta davanti agli esiti – francamente indifendibili  - di alcune sue poesie.

ENNIO ( 2 dopo gli interventi di Attolico e Mayoor )

Stento a credere che la “ diversità “ tra Sereni e Fortini derivi dalla loro condizione socio-economica. Piuttosto vedrei la differenza in una adesione o non adesione a tale condizione. Ma si tratta – mi pare – di una “scelta “ e dunque ancora di un passaggio di tipo emotivo, ma anche razionale, che dipende da molti fattori . Che ancora una volta ci aiutano ad individuare linee di ricerca non la bontà della realizzazione della ricerca.

LINGUAGLOSSA ( 2 )

Non è che Sereni abbia influenzato Mondadori e neppure che Mondadori abbia influenzato
Sereni. Si sono incontrati. Gli incontri tra autori ed editori sono ( quasi ) sempre matrimoni di convenienza, più o meno lunghi. Ne potrebbe sapere qualcosa Fortini che – dopo essersi congiunto a Mondadori – è oggi dimenticato. Ennio ne sa qualcosa.
Su tale punto ho già scritto qualcosa che tu , caro Linguaglossa  non ricordi o non hai letto
( non è un rimprovero: non è possibile leggere tutto e la selezione tra tutto ciò che si scrive,oggi, è già una impresa che ci esaurisce ogni altra ,pur doverosa,possibilità )
La storia letteraria e soprattutto della poesia è piena zeppa di pregiudizi,omologazioni,
mistificazioni,incomprensioni in cui entra sovrana “ la politica “ ( lato sensu ).
Croce “ non comprese “ Mallarmè, ma lodò Gaeta,poeta della sua terra. Honny soit qui male y pense. Da ciò si vede come la maldicenza non appartiene al poeta che si limita a dire la sua.
La riproducibilità di cui parla Benjamin deve riferirsi – a mio giudizio – solo alle arti di tipo per così dire manuale. Anche questo l’ho già scritto. Chi riproduce alla perfezione la Tempesta
compie un falso. Chi trascrive L’Infinito fa il copista. In questo senso la poesia è veramente immortale che significa – filosoficamente – il sopravvivere come “unicum” di un autore nel suo testo e che non può fare più nulla contro di esso o in suo favore. Significa anche – più banalmente – che quella poesia si può conservare in eterno ( si fa per dire ) purché ci sia qualcuno disposto a ciò.

ANONIMO

L’esclusione di Caproni ( poeta, per me,eccezionale ) prova molto a favore di quello che ho detto.

LINGUAGLOSSA (3 )

Hai ragione. Il reale esiste ma muta continuamente. Si può aggiungere che il reale – ciò che vediamo, sentiamo,tocchiamo e che si sintetizza nel “ vissuto “ – varia per le modificazioni che il Tempo ( dai “ contorti pensieri”: Omero ) apporta su di noi ad ogni “ nuovo sole “ ( Eraclito )
Hai ragione anche nel ritenere superato il Futurismo. Sarei più drastico. Il Futurismo è sempre superato. Lo si deve studiare ,certamente, perché è una ideologia la cui falsità ci aiuta a capire.

SIMONITTO

Sarei rigoroso nel distinguere cos’è la poesia dal problema, tutt’affatto diverso,di come si pone la poesia nella società di oggi.

ANONIMO

La poesia è una forma di comunicazione? L’interrogativo non mi appartiene ma lo formulo in presenza di alcuni che negano ad essa tale qualità. Forse è utile, in questo caso, ricercare il principium individuationis nel paragonare la funzione della sua comunicazione a quella delle altre “comunicazioni sociali “. La poesia non serve a concludere contratti, né a prescrivere regole di comportamento. L’aforisma di G.Stein è una scorciatoia neppure tanto convincente per risolvere il problema. L’inutilità sembra essere alla base della comunicazione poetica anche se – ogni affermazione perentoria è una trappola – ci possono essere “ comunicazioni utili “ con suggestioni poetiche.  Penso ad alcune formule giuridiche latine in cui è potente il  rimando “ ad altro orizzonte possibile “. Il fatto sta che quelle formule non furono scritte per “ quell ‘altro orizzonte “. In questo caso quelle formule possono entrare “ come mattoni” in una “ comunicazione altra”. L’intenzionalità mi sembra inscindibilmente legata al fare poesia. Questo è almeno il mio pensiero come poeta,figura che sfuma un po’ nelle interessanti considerazioni che ho letto.
Se tale inutilità investe la comunicazione poetica,investe anche il suo autore. La conclusione – che ha anche risvolti etici – non è pessimistica se si amplia il concetto di utilità comprendendovi la “ costruzione di una memoria “ .
Mi sembra che tale conclusione – giusta o sbagliata che sia – possa avere ricadute anche sul piano di una “ rilegittimazione della critica “ e nell’individuazione dei suoi corretti strumenti di indagine.

Giorgio Mannacio,marzo 2013.

    

7 commenti:

Anonimo ha detto...

La poesia non serve./? Come tutte le cose belle, in genere non sono funzionali. La poesia vuole essere libera da qualsiasi legaccio, (talvolta si rifiuterebbe persino di comunicare), e forse anche di essere considerata bella.

Anonimo ha detto...

Io penso invece che la poesia oltre che ad essere bella è anche utile per farci riflettere su quanto la sua bellezza possa trasmettere messaggi così importanti da fare di una vita incolore, un percorso meravigliosamente interessante . Resta ilfatto che bisogna saperla fare e ascoltare, oggi si urla e l'urlo è un suo grande nemico. Emy

giorgio linguaglossa ha detto...

gnet.li interlocutori,

il problema possiamo porlo in questo modo:
se noi pensiamo al linguaggio come a un insieme di proposizioni, siamo già fuori strada, le proposizioni, come i segmenti in geometria, sono infinite e, nell'infinito non c'è nulla che possa essere definito.

Così un romanzo o un libro di poesia. Dapprima occorre avere uno spartito musicale, un pentagramma di toni e semi toni e di «cose» appese al pentagramma; ma se il romanzo offre un grande numero di digressioni e di complicazioni possibili, la poesia invece offre solo una ristrettissima gamma di variazioni, per eccellenza limitate a quelle simboliche (leggi iconiche). Sì, lo so, oggi si scrive in assenza di forme simboliche (ed iconiche), si scrivono poesie affidate solo all'empiria e alla improvvisazione. Così tutto diventa facile, gratuito e arbitrario. E se una cosa è arbitraria non c'è più bisogno di un "arbitro" che fischi il rigore dell'infrazione massima.

Oggi si scrive in assenza di una cognizione del Logos. Non c'è più bisogno di un arbitro perché non c'è più partita. Accettiamo per un momento la metafora tratta dallo sport. E interroghiamo il Logos.

La posta in gioco è alta. Se io (autore) penso il linguaggio, il linguaggio mi pensa, è il linguaggio che, prima o poi, se vorrà, mi indicherà le forme simboliche del (mio) linguaggio poetico. Il pensiero del linguaggio è anche il linguaggio del pensiero. Non è solo un gioco di parole ma il punto di partenza del linguaggio poetico (e anche di quello critico).

Pensare il linguaggio significa spalancare il pensiero al proprio linguaggio: in ciò risiede il carattere fondamentale della meditazione sul Logos. Senza questa meditazione preliminare come possiamo pensare di intercettare il linguaggio del pensiero (poetico)? Mettersi nella posizione di chi intende il pensiero del linguaggio è la pre-condizione per il linguaggio del pensiero (poetico). Senza questa meditazione preliminare sul linguaggio, il nostro linguaggio si perderà inevitabilmente nelle forme abusate del linguaggio (quindi nell'uso e nell'abuso delle forme dei linguaggi preesistenti).

Aprire l'impensato (o l'impensabile) al pensiero poetico, è questa la giusta posizione del poetico; ma aprire l'impensato ha un costo, non si dà gratis. Senza il pensiero del linguaggio il linguaggio del pensiero si dissolve (di fatto e di diritto), si scioglie come neve al sole: il pensiero poetico non tollera conformismi perché questi diventano subito dis-formismi, forme brutte, abusate, già usate e riutilizzate; ciò comporta la utilizzazione parassitaria del Logos.

Quanta poesia contemporanea sta in rapporto parassitario con il Logos?
Beh, per rispondere a questa domanda dovrei fare una rassegna della poesia contemporanea e dovrei emettere un verdetto di severa condanna.
La questione del Logos è dunque la questione fondamentale del pensiero poetico. Perché Fondamentale? Perché non riposa su alcuna pre-condizione preliminare; non c'è alcuna Domanda che la precede e la fonda. È Fondamentale perché è ciò che Fonda il pensiero poetico.

Anonimo ha detto...

10.03.2013
da Rita Simonitto

Sono grata a Giuseppina Di Leo la quale in un suo intervento precedente ha chiamato in causa Ortega per sostenere la citazione che qui riporto: *Se la poesia sa dire - come in effetti fa - l’impensabile, o l’inesprimibile, vuol dire che il suo messaggio non sarà banale; allora ben venga l’impensabile, ma non con la balbuzie, bensì per dire ciò che non potrebbe essere detto se non con le parole della poesia*.
Ciò mi ha richiamato alla mente una citazione di Ortega y Gasset, che si trova nelle Meditaciones del Quijote, e che io prediligo, e che recita: “Yo soy yo y mi circunstancia, y si no la salvo a ella no me salvo yo” (“io sono io e la mia circostanza e se non salvo questa non salvo neppure me”).
Questo solo per richiamare il legame consustanziale tra noi e le *condizioni materiali ( idest storiche del nostro fare )*.
E questo legame entra giocoforza a far parte della poesia anche se, ovviamente non serve a *dire se una poesia è bella o brutta*.
*Il rapporto tra l’impensabile e il pensato della poesia si può anche descrivere in termini di mimesis (Aristotole, Tommaso)* sostiene Mannacio , ma a questa Mimesi si accompagna anche la ‘convenzione’, come sostiene Orlando, o il sistema di codici (Auerbach) o, come direi io, piuttosto, alla ‘costruzione’ che prevede una scelta individuale e non necessariamente omologata.
Se il pensiero poetico non si fa Logos, ovvero non diventa un “pensiero che si ascolta” (il ‘si’ è riflessivo) e, nel dirsi non si fa discorso dove si confronta con i codici linguistici specifici alla comunicazione e i loro limiti e condizionamenti, non può sperimentare l’entrare in contatto con il sacrificio e con la morte, ovvero l’impossibilità al dire la parola del Dio, la parola che ‘connette i contrari’ (Eraclito) o sfidare l’enigma, “connettere cose impossibili” (Aristotele, τά άδύνατα συνάψαι).

Rispetto all’appunto su cui Mannacio sollecita la mia attenzione:
*Sarei rigoroso nel distinguere cos’è la poesia dal problema, tutt’affatto diverso,di come si pone la poesia nella società di oggi* sono perfettamente d’accordo.
Ovviamente con delle precisazioni e dei distinguo (fatto questo che, ad esempio, sarebbe impensabile e impraticabile a fronte di una comunicazione ‘poetica’: sarebbe come ‘spiegare’ una barzelletta!). Da qui si evince già una differenza, anche se non sufficiente a stabilire il * il principium individuationis nel paragonare la funzione della sua comunicazione a quella delle altre “comunicazioni sociali”* (Mannacio).
Non si tratta del come la poesia si ponga ‘nella società di oggi’ intendendo in quel ‘come’ le posizioni che assume, se di critica, di plauso; e nemmeno di ‘svelamento’, termine troppo ambiguo tra l’altro, come se si trattasse di svelare gli scheletri nell’armadio. Non credo sia ‘compito’ della poesia bensì di qualche cosa che appartiene al poeta, a chi scrive, in quanto inserito nella sua ‘circostanza’, nel suo ‘essere nel mondo’.
‘Circostanza’ che lo può portare a vedere quel “ non visibile “ o a pensare quell’ impensabile che ancora non è stato pensato.

[continua]

Anonimo ha detto...

[continua]

Ma, anche qui: svelamento è da intendersi come denuncia? Quando Linguaglossa dice: *Ma il problema è che la CRISI economica del Paese non è solo economica (guai a chi la vedesse solo in termini economicistici) ma anche di cedimento morale di quei ceti che hanno sorretto il Paese in questi ultimi due decenni. Di fatto, per il prevalere di interessi corporativistici, il Paese ha perso i due ultimi decenni. Due decenni senza riforme e il vagone Italia si è fermato.*
Si potrebbe ‘svelare’ che non si tratta affatto, o soltanto, di *due decenni senza riforme* e nemmeno di *cedimento morale* (così come si predica da qualsiasi pulpito), ma di una progressiva svendita del proprio futuro agli interessi di un paese dominante.
Ma questo ‘svelamento’ potrebbe essere detto in un comizio o scritto in un ta-tze-bao: a che servirebbe la poesia? Ma se utilizzo delle immagini ‘evocative’ e ‘poetiche’ come quella del film “Il Giudizio Universale” di De Sica (1961) in cui Alberto Sordi veste i panni di un commerciante di bambini, orfanelli e no, acquistati nei quartieri popolari della città e venduti a ricchi americani, forse un ‘impensabile’ comincia a prendere forma.
Mi si potrebbe obiettare che è impensabile fare queste associazioni!! Ecco, appunto. Ma almeno proviamo a pensarlo! L’impensabilità ha anche a che fare con il tenere lontane tra di loro le associazioni.
Farà la differenza sentirsi un paese di fatto ‘libero’, però oppresso da malversatori per cui è sufficiente una scossa moralizzatrice, dall’essere un paese-colonia che non può prendere decisioni perché l’apparato decisionale è asservito? Come dice Mayoor *erano anche semplicemente incapaci di farsi venire anche la minima idea di come si potrebbe uscire dai ricatti economici internazionali. Di fatto ne sono conniventi, e secondo me questa è la triste verità. Fa paura doversi prendere delle responsabilità*.
Mi si dirà: ma allora la poesia ‘fa politica’? Non precisamente, fa il suo lavoro di poesia, ovvero cerca di (ha intenzione di) comunicare ciò che il poeta ha percepito rispetto al mistero dell’esistente e quindi va a svelare le mistificazioni.
La domanda che legittimamente si pone è: ma questo è sufficiente a decretarla come poesia? La risposta è categorica: “NO”.
Proprio per quanto si diceva sopra.
Ma se, come dice Mannacio * La storia letteraria e soprattutto della poesia è piena zeppa di pregiudizi,omologazioni, mistificazioni,incomprensioni in cui entra sovrana “ la politica “ ( lato sensu )*, le cose si fanno più complicate.
E ancor più se prendiamo per buona la battuta di Aldous Huxley che paragonava la cultura ad una cerchia familiare i cui membri evocano tra loro le grandi figure dell’album di famiglia, ragion per cui, avere cultura, significa chiamare tutti i membri con il loro nome di battesimo. Possiamo ben capire come l’estraneo, che non fa parte della famiglia, venga catalogato come un ‘non avente cultura’.

Forse, bisogna mettere in conto il fatto che la poesia anche travalichi il presente. Mi vengono in mente questi ultimi versi della poesia “Morire in levità” di Tarkovskij: *morire in levità/e al riparo d’un tetto di fortuna,/accendersi postumi/come una parola.*

[Fine]


Anonimo ha detto...

Rita fa sempre pensare, Rita va sempre ascoltata, Rita insegna. Grazie . Emy

Anonimo ha detto...

Grazie anche a Giorgio Mannacio che, come al solito, propone argomenti interessanti e coinvolgenti. Emy