Appunti presi da articoli apparsi sul Corriere della Sera a partire dal 10 luglio 20011 (qui)
Si potrebbe dire che negli scritti in questione emerge la necessità di mettere in risalto la capacità “Eroica” di alcuni critici e poeti di sottrarre il linguaggio della poesia alla dimensione della letteratura commerciale.
Si potrebbe anche dire che dagli scritti traspare la “Volontà Responsabile” di salvaguardare il linguaggio della poesia messo a repentaglio dalle comunicazioni di massa: meglio tenersi lontano dal mondo delle immagini e dello spettacolo dove persino un cantautore può occupare nell’immaginario collettivo, gli spazi del poeta.
Si potrebbe dire inoltre che dagli scritti traspare la “Nostalgia” di un passato in cui le case editrici davano grande spazio alla poesia e alle recensioni dei “Grandi” e i “Poeti” erano funzionari o anche consulenti editoriali di riferimento e quindi importanti nelle decisioni.
Si potrebbe dire che molti discorsi portano alla conclusione che in Italia solo una decina di “Veri” poeti “ … sanno cos’è un Verso” e “che bisogna differenziarsi senza per questo voler proporre facili aristocrazie”.
Insomma la poesia è per pochi, non è “democratica” anche se non si capisce a chi possa giovare un giudizio così netto.
Sarà la paura di aver perso quegli “strumenti critici” e quelle leggi che sarebbero applicabili ad ogni poesia.
Negli scritti nessun accenno alla poesia diffusa dal web. La poesia dei blogger, dei giovani e dei poeti caduti “nelle fauci” delle “vanity press”, è un altro mondo. Nessun accenno alla dialettica nella rete tra società/comunità, spinte corporative, dinamiche autoreferenziali come distanziamento dalla realtà (tipo Face book “Soli insieme”) e fattori aggregativi trasformativi e dinamici.
Ma soprattutto bisogna dire che mentre si leggono questi scritti c’è il pericolo reale di subire il fascino di certe concezioni che vedono la poesia come il prodotto di una ristrettissima élite. Si può essere soggiogati e contaminati da pensieri che prediligono la solitudine poetica delle società segrete, che più che salvare il linguaggio servono a separarsi e distinguersi dalla marea degli invisibili ma soprattutto portano alla conclusione che per ottenere la “gloria eterna” bisogna solo emulare i “veri poeti”. Una concezione elitaria che per rinnovarsi usa l’analisi critica della lacerazioni dei saperi apportate dalla società consumistica..
PS . Speravo di essermi liberato dall’annosa questione della poesia d’élite quando mi è capitata tra le mani la Repubblica del 19 luglio (molti giornali me li fornisce il bar sotto casa) . A pag. 56, R2Cultura, ho trovato un interessante articolo di Alberto Asor Rosa dal titolo “Se basta una poesia a ridarci le parole”. Molto bello! L’incipit però mi ricordava qualcosa: “Io penso che ai poeti, intendo naturalmente, poeti “VERI” e …….”
3 commenti:
Ho seguito con attenzione gli articoli apparsi su Corriere, Unità, Avvenire e Repubblica del mese di Luglio 2011. I critici che li hanno firmati sono tutti più o meno autorevoli, e l'istantanea della poesia che esce dalla lettura è. a dir poco, desolante: pare che di poeti "veri" ce ne siano pochi o nessuno del tutto. I critici si astengono dall'indicarne i nomi, se non in qualche caso, e si tratta sempre di poeti avanti con gli anni e pluridecorati. Le voci femminili, infine, ho notato che non vengono quasi mai menzionate, o menzionate in negativo: clamorosa l'affermazione del critico circa la "fortuna biografica" della Merini, la cui produzione sarebbe stata ben accolta solo perché la poetessa ha saputo vendere la sua malattia; mi chiedo perché non basti eventualmente stroncare sul profilo tecnico un poeta, e mi rispondo che ci si aggancia alla biografia probabilmente quando non si hanno altri argomenti, così come si è fatto per secoli di fronte al meccanicismo/pessimismo leopardiano.
Concordo con le conclusioni dell'autore di questo post, e con gli intenti generali della testata Moltinpoesia: invece di continuare a sostenere che l'unica consacrazione risiede nella carta stampata, che sorgono in rete sedicenti poeti come funghi nel bosco; invece di arroccarsi su posizioni teoriche, di rispolverare il canone (quale, dopo le neoavanguardie, la poesia/prosa di Pavese, e tutte le sperimentazioni/contaminazioni degli ultimi trent'anni?), di considerare il web come una discarica, si dovrebbe correggere la visuale e togliere qualche paramento (laico, ecclesiastico, commerciale o semplicemente ottico) che ingombra la mente degli intellettuali attualmente accreditati nel panorama letterario.
E' chiaro che la poesia richiede una sua tecnica nel comporre, una sua peculiarità che si è tramandata nei secoli, pur essendo stati operati dei profondi cambiamenti dagli stessi poeti. Tuttavia, è altrettanto chiaro - a mio defilato parere - che l'arte è soggetta al gusto, e che il gusto lo fanno le persone, la loro cultura, i mutamenti storico-sociali, e molte altre variabili. Infine, ma non ultimo per importanza, c'è il "sentire": potete darmi un libro di un poeta contemporaneo o passato, che è universalmente considerato eccelso, e io lettore ho la facoltà di dire che non mi trasmette niente a livello emotivo.
Il discorso è lungo, magari lo continuo in calce a qualche vostro altro interessante post. Per ora, Vi auguro buon lavoro.
Ennio Abate:
Gentile Fiorella D'Errico,
grazie di queste pertinenti e sagge considerazioni.
Si faccia viva anche con proposte ( a naso suppongo che ne abbia...) e non solo nello spazio per i commenti. Può scriverci ad es. a:moltinpoesia@gmail.com
Se poi fosse a Milano o nei dintorni, potrebbe anche affacciarsi a qualcuna delle nostre riunioni.
Un saluto
Oggi ci sono motivi interni e motivi esterni a determinare la cattiva salute della poesia. Sicuramente, parlando dei problemi interni, molte patologie della poesia, che qualche tempo fa ho definito poesiosi, poesite e poesiopenia, dipendono da fattori intrinseci al fare poesia come il fatto che di poesia se ne scrive troppa e se ne legge poca, perdendo di vista riferimenti e canoni, al punto tale che per motivi giustappunto patologici il prodotto poesia è poco e povero. “Di tali patologie della letteratura, incapace di prendere le distanze critiche da una realtà strutturata del nostro Paese, si indebolisce la poesia, oramai per happy few” afferma Daniela Marcheschi. Questo non significa che oggi non abbiamo una buona schiera di poeti, come Cucchi, Conte, Mussapi, Rondoni, Maffia, lo stesso Oldani, Maria Pia Quintavalla, Gabriella Sica e tantissimi altri, tanto che concordo con Di Stefano quando afferma che “gli ottimi poeti oggi non mancano, ma hanno pochissimo seguito, a differenza dei tanti narratori mediocri”. I fattori esterni non sono da meno a creare problemi: le politiche editoriali, soprattutto delle maggiori case editrici, che oggi privilegiano quasi esclusivamente la narrativa; i librai, - per lo più, ma ci sono le eccezioni, - che se va bene, riservano alla poesia un piccolo cantuccio; la visibilità mediatica e la creazione del personaggio-poeta, come Alda Merini, e pertanto il ruolo dei mass-media e soprattutto della televisione; i giornali quotidiani e settimanali, che secondo Di Stefano, parlano poco e niente di poesia. Ma uno dei problemi più gravi che riguarda la poesia è quello della lingua. A tale proposito è necessario tenere presente che il pedale basso, a imitazione della prosa, alletta molti poeti collocabili in quello che viene definito il minimalismo. Ancora: dalla modernità in poi, fino ad arrivare alla recente post-modernità, è venuto meno e si è annichilito il concetto di oggettivo – e pertanto di una poesia oggettiva e condivisa – e si è ipertrofizzato l’io al punto che la soggettività è degenerata nel solipsismo, anche della poesia, dove sembrerebbe che non solo il canone non c’è, ma non sia necessario, in quanto ogni poeta avrebbe il suo canone. Andrea Cortellessa è molto acuto nella sua analisi e sostiene che una volta “le voci dei poeti facevano ancora parte d'una koinè, si riferivano a codici condivisi; in seguito hanno assomigliato sempre più a monadi non comunicanti”. Sempre Cortellessa afferma perentoriamente, e sono in pieno accordo con lui, che “più in generale dovremmo far sì che la separatezza sociale della poesia, il suo scisma dai dogmi del profitto, la sua nevrotica cura del linguaggio, da privilegi - e maledizioni - individuali, divengano strumenti di conoscenza per l'intera comunità. Come altre ricchezze che si è deciso di non lasciare alle industrie del cinismo anche la poesia, insomma, deve divenire un bene comune”. La comunanza di intenti è anche con Maria Grazia Calandrone, quando afferma la necessità di una con-vivenza di persone parlanti in una dimensione fisico-biologica e metafisica nella quale “il fondamento del fare poesia è una compassione etimologica e primaria, ovvero la identificazione con il bene e il male dell’altro”. Perché fondamentalmente la poesia si manifesta attraverso la parola e la parola non sono i poeti a farla, ma è essa stessa che passa attraverso di loro e fuoriesce per rientrare nell’oggettività, per appartenere ad una comunità di persone che vivono insieme e condividono le gioie e i dolori della vita. Tutti noi pertanto dobbiamo interrogarci anche su quanto ci sia di soggettivo e di oggettivo nella poesia, quanto significhi comunanza di valori fisici e metafisici, ma soprattutto quanto ci sia nella poesia di ontico e di ontologico, ai fini di una poesia personalista che ricerchi nella realtà il bene comune. In questa dimensione il poeta troverebbe il suo ruolo.
Maurizio Soldini
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