giovedì 3 novembre 2011

Ennio Abate
Riflessione di un commentatore di blog
e omaggio a Elvio Fachinelli




Nel mio lavoro (sì, lavoro, anche se non pagato...) di “commentatore - contrabbandiere”, che cerca  cioè di riportare la voce della campana suonata nel villaggio X anche nel villaggio Y (e viceversa) e di  esercitare il suo diritto di critica sui testi pubblicati in vari blog (Nazione Indiana, Le Parole e le cose, ecc.) o mailing list, ho ricevuto parecchie reazioni infastidite o aggressive. Fino alla censura o al blocco della discussione. Colpa mia, colpa altrui? Mi sono andato a rileggere in questi giorni da una sbrindellata copia di "Quaderni piacentini", n.36, nov. 1968 lo scritto di Elvio Fachinelli, «Gruppo chiuso o gruppo aperto?» e ne ripropongo la parte iniziale e finale. Le sue  lucide riflessioni andrebbero prese in considerazione da chiunque intenda “fare gruppo” o si affaccia da "estraneo/a" in un gruppo più o meno già strutturato. [E.A.]




GRUPPO CHIUSO O GRUPPO APERTO?
Frammento di un'analisi di gruppo
a cura di Elvio Fachinelli

Nell'inverno '67-'68, all'Istituto Superiore di Scienze Sociali di Trento si
organizzava, come in altre Università italiane nello stesso periodo, un con-
trocorso intitolato "Psicoanalisi e società repressiva", che intendeva utiliz-
zare la psicanalisi come strumento per una
« alternativa e verifica di ipotesi,
tesi, strumenti di contestazione al sistema, che una parte del movimento
studentesco trentino aveva precedentemente elaborato ». Lo scopo dichiarato
era quello di «verificare e sottoporre a critica tutte le precedenti acquisi-
zioni »; si precisava peraltro che
« criticare non significa distruggere, ma può
essere costruttivo, al punto che le precedenti acquisizioni possono risultare
ulteriormente verificate e confermate, fornendo contemporaneamente una
serie di tesi complementari» a quelle elaborate in una prospettiva politica,
sociologica, economica ecc. (Documento di Aldo Ricci sul controcorso, punto
b: Significato di un controcorso di psicoanalisi).
Il controcorso, come tutti gli strumenti di questo tipo elaborati in quel
periodo in Italia, ebbe vita difficile, che qui non è il caso di delineare. Basti
dire che una discussione molto animata accompagnò la lettura di alcuni libri,
la visita degli psichiatri del gruppo goriziano e la elaborazione di vari docu-
menti (tra i quali, « Potere e
Società » di Davide Bernardi). Più tardi, in
primavera, venne invitato a Trento lo psicanalista Elvio Fachinelli che, in
luogo di una discussione inevitabilmente astratta delle tesi correnti in quel
periodo, propose ai partecipanti al controcorso di costituirsi in
gruppo
d'analisi,
allo scopo di verificare concretamente, di sperimentare nel gruppo
stesso
le modalità di repressione, autoritarismo, esclusione e così via che
fino allora erano state considerate e criticate in modo più o meno ideolo-
gizzato. Dopo una lunga discussione, nel corso della quale si chiarì che il
metodo applicato sarebbe stato quello psicanalitico, vale a dire basato sul
materiale (verbale o di altro tipo) emerso spontaneamente nel corso delle
riunioni e sulla sua interpretazione, la proposta venne accettata.
A questo punto però si presentò una difficoltà, apparentemente mar-
ginale, ma che subito si rivelò decisiva. Se un insieme di persone decide di
studiare il «gruppo», se stesso come gruppo, evidentemente esso presuppone
una certa definizione preliminare di gruppo. Che cos'è un gruppo? Chi ne
fa parte? E quante persone fanno un gruppo?
L'analisi di gruppo a scopo terapeutico si restringe per lo più a sei sette
persone, non di più, sulla base di varie considerazioni empiriche di ordine
psicologico. Accettare questo numero significava, secondo alcuni partecipanti,
dare già per definita e acquisita una delimitazione di gruppo che si intendeva appunto verificare; significava accettare a priori un canone che non veniva posto in questione, ma considerato pacifico e vincolante per tutti. Sarebbe stato ovvio aspettarsi, da parte di studenti impegnati ogni giorno, da mesi, in un asro lavoro antiautoritario e antidogmatico, sia a livello accademico sia a quello strettamente politico, una adesione immediata alle tesi del «gruppo aperto» a tutti; un contro corso limitato a poche persone sarebbe potuto sembrare in contraddizione con le finalità di base del movimento studentesco, che tutti condividevano. Invece la discussione con i sostenitori del «gruppo chiuso» risultò straordinariamente intensa e lunga.

[Segue la parte registrata della discussione]

Dopo la lunga discussione […] venne presa la decisione di proseguire il lavoro di analisi in un gruppo sostanzialmente chiuso. La biarriera contro l’intrusione degli estranei era stata dunque creata. Si sarebbe potuto pensare, e la maggioranza dei partecipanti senza dubbio pensava, che ogni difficoltà di questo genere fosse ormai, bene o male, risolta. Si era però già visto emergere nel corso della discussione, come si è detto, qualche accenno a un «esterno» ostile già presente nel gruppo […]; e il fatto
che il pericolo esterno potesse essere, anche, interno, era già stato segnalato
dal supposto interprete della situazione […], sia pure in modo vago, per il
disorientamento creato in lui dalla inattesa intensità del problema.
Infatti, creato il gruppo chiuso, il processo di dìff'erenziazione dagli estra
nei, o dagli elementi di estraneità presenti nel gruppo, continuò con quasi
intatta violenza; e parallelo ad esso, intimamente collegato, il processo di
progressiva adeguazione a un'immagine di gruppo omogeneo, perfettamente
fuso nella unità dei suoi membri. L'estraneo, il
diverso, concreto, tangibile
(fin troppo tangibile), doveva essere eliminato, così pareva, per far posto a
un
uguale sempre più perfetto, e dunque sempre più intangibile quanto più
vicino a chi lo ricercava. Si venne così chiarendo la modalità privilegiata
utilizzata per raggiungere questo scopo; una modalità
che, seppur presente
e attiva anche nella discussione riportata, risultava in quel momento ancora
velata e attutita.
Il processo comincia con la rilevazione, fatta dal leader, (o da una per-
sona che deriva dal leader un particolare prestigio), di un elemento effettivo
di difformità, di diversità dal gruppo presente in uno dei suoi membri. Per
essere efficace, cioè per dare inizio al processo, la rilevazione deve essere
acuta ed esatta, il che è di solito. Si tratta di un dato concreto, percepibile
da tutti dopo la rilevazione (un'idea, un aspetto del linguaggio o del com-
portamento). Di questo dato, nell'atto stesso della sua rilevazione, viene data
un'interpretazione che è esclusivamente negativa - perché essa si basa sullo
scarto esistente fra il dato concreto di difformità e il modello
ideale di gruppo,
di comportamento e così via. Se il confronto fosse tra il dato concreto, da
un lato, e la norma
concreta del gruppo dall'altra, l'interpretazione non
potrebbe più essere totalmente negativa, in quanto chi fornisce l'interpreta-
zione dovrebbe anch'egli in un certo senso entrare nell'interpretazione, do-
vrebbe tener conto del suo essere egli stesso concreto, parziale, difforme
dunque rispetto al modello ideale. L'interpretazione sarebbe allora costretta
a integrare in sé una maggiore o minore ambiguità, o bivalenza, del dato
rilevato. Si otterrebbe un
giudizio più « giusto », più « ragionevole », o meno
« spietato» - ma in ogni caso un giudizio che non riuscirebbe mai a creare
nel gruppo la tensione specifica creata dal giudizio che appare facilmente
«ingiusto» e «spietato» agli occhi di chiunque non appartenga al gruppo.
Difatti, chi fa la rilevazione del dato di diversità presente in uno dei
membri, proprio perché si pone dal punto di vista del modello ideale non
coglie, non vive, l'aspetto discriminante, escludente, del suo intervento; e
ancor meno lo coglie il resto del gruppo, nella misura in cui anch'esso si
pone dallo stesso punto di vista, e contemporaneamente riconosce l'esistenza
« oggettiva » della diversità. Da questo lato, il processo tende dunque ad essere
vissuto esclusivamente come un'azione di salvezza del bene più alto, e da
tutti condiviso - tranne che da colui che si è rivelato,
nei suoi atti, un
amico sospetto, se non un nemico, del bene comune e quindi del gruppo.
Si tratta perciò di un'azione « santa
», che è volta a « purificare » il gruppo
un elemento «impuro» che si è insinuato in esso: il «falso » amico o com
pagno, il « falso» dottore ...
Sull'altro versante, la persona trovata difforme, proprio nella misura in
cui partecipa con gli altri al bene comune, tende anch'essa a viversi come
impura, si potrebbe dire: come deforme. Anche qui l'aspetto concreto del
dato rilevato tende ad essere vissuto senza ambiguità, in una interpreta-
zione totalmente negativa. Con questa differenza. A chi fa la rilevazione, e in
misura anche maggiore al gruppo che lo segue, l'oggettività (apparente, par-
ziale) del rilievo consente di non vivere, di non dover sopportare l'aspetto
accusatorio-aggressivo del proprio modo di agire; al limite, consente di
viversi come aggredito. D'altra parte, questa stessa oggettività, venendo in-
terpretata nel medesimo senso, negativo, anche da chi,è stato colpito, fa sì
che egli si senta - egli solo - manchevole rispetto al gruppo, al limite  aggressore del gruppo. Di conseguenza, chi colpisce tende a non sentirsi responsabile, o colpevole, del suo attacco, proprio perché riesce, attraverso il richiamo a un bene ideale condiviso anche dal colpito, a introdurre in lui
la sua responsabilità e la sua colpa. La violenza dell'accusa tende a non
essere percepita da chi la fa, nella stessa misura in cui la percepisce come
violenza di un'accusa giustificata, cioè come autoaccusa, chi la sopporta.
Da questo momento in poi, il comportamento di costui dipenderà, in
modo prevalente o esclusivo, dal modo adottato per trattare la manchevo-
lezza che è stata
iscritta in lui dal gruppo. Potrà rompere col gruppo, accompagnando il movimento di allontanamento degli altri nei suoi confronti con un proprio allontanamento, l’esclusione con l’autoesclusione. E questo è uno degli esiti più frequenti. Oppure potrà decidere di rimanere nel gruppo, accettando la posizione che gli è stata fatta, e assumerà quindi in realtà una fun
zione subordinata, che si presterà facilmente a diventare una funzione
« espia-
toria
». Oppure ancora, fatto maestro dall'esperienza, tenterà di ribaltare
all'esterno
ciò che è stato fatto a lui, unendosi altri nella sua condizione:           nasce l'opposizine interna, la frazione, che contende all 'altra parte, e con le stesse armi, il possesso di un unico, irraggiungibile bene. E così via.
••
Il contro corso trentino che si era costituito in gruppo di analisi cercò,
nel corso di alcuni mesi; di chiarire e controllare questa dialettica, mari mano
che, ne emergevano i vari momenti. Ma soprattutto la visse, con una parte-
cipazione totale che fece ben presto saltare il tono di discorso accademico
[che è ancora ben presente nel brano riportato]. Nel concorso simultaneo e 
violento di ciò che si può chiamare la fuga dall'estraneo e la ricerca del-
l'uguale si manifestava un'esigenza profonda, che sembrava costretta, si
sarebbe detto, a consumare il gruppo dopo averlo
creato .
 Esisteva un'alternativa?O  perlomeno, era esistita? Vale a dire, nel momento in cui il gruppo si era chiuso agli estranei, aveva anche eliminato uno sviluppo completamente diverso? Sembra necessario, per un momento solo, esaminare le tesi di coloro che si erano dichiarati favorevoli all'apertura.  
In buona parte, sembrano semplici correzioni e limitazioni delle tesi
opposte: la chiusura del gruppo rappresenta un eccesso di schematizzazione
e di formalizzazione […]; essa implica una sopravvalutazione dell'aspetto
puramente funzionale del lavoro […] e insieme una certa violenza astratta
fatta alla realtà […]. E' però facile rendersi conto che questi rilievi par-
tono dall'assunzione di un atteggiamento radicalmente diverso rispetto agli
estranei: questi, in quanto
« gente nuova» […], possono dare origine a
reazioni interessanti col nucleo di base […]
, anche quando la loro inten-
zione di partenza sia ostile […]; il nucleo di base li « trascinerà» con sé
[…]; di conseguenza, non c'è motivo di temere le loro reazioni […]. Quest'ultimo corollario nega semplicemente l'esistenza di una situazione difficile […] per tutti […], ed è quindi facile smontarlo […]. Ma anche  il momento probabilmente più alto del discorso, l'accenno a
« qualcosa che
ci accomuna tutti» […], a cui segue, più specifica, la prospettiva di un
« rapporto dialettico » con gli altri […], anche questo cade sotto i colpi della
critica […], che sembra partire da un'accusa sottesa di irrealtà, di utopia.
Rispetto dunque, all'effettivo svolgersi dei fatti, il modello alternativo
 è rimasto ipotetico, veramente utopico, e ne possiamo tentare una descrizione soltanto ideale. Se nell'estraneo al gruppo non viene colta l'ostilità, ma il suo contrario, vale a dire se nell'estraneo noi troviamo non il diverso, come è successo in questo caso, ma l'uguale, il comune a noi, che pure esiste,
allora tutto il movimento di elaborazione del gruppo che abbiamo descritto
si svolge con un senso diverso. Quella che si è chiamata rilevazione del dato
difforme in uno dei membri, fatta dal leader, non riguarderà più una estra-
neità ostile che cerca di insinuarsi nel gruppo, ma il suo contrario, l'intimità
gelosa che si
oppone all'espandersi del gruppo in direzione degli elementi
comuni presenti fuori di esso. La stessa rilevazione non avrà più il carat-
tere accusatorio-escludente che aveva nel gruppo chiuso, perché ciò che la
determina non è più un bene privato da difendere contro gli estranei, ma la
comunanza stessa come bene da estendere.
 Nel primo caso, il modello ideale che deve essere difeso tende al limite
a identificarsi, man mano che il processo avanza, con quello del leader,
tende a identificarsi col leader stesso come unico e ultimo bene. Nel secondo
caso, esso si stacca dal leader e diventa l'azione stessa di accomunamento. La
figura del leader cambia allora carattere: da rappresentante e quasi proprieta-
rio dell'ideale del gruppo, egli ne diventa partecipante, privilegiato rispetto
agli altri nella misura in cui riesce a fare entrare altri nel processo,
nella misura cioè in cui tende a far sorgere altri leader dello stesso tipo. I suoi .interventi
non vengono più percepiti come una condanna, come una esclusione da
qualcosa che si chiude in uno spazio sempre più piccolo, ma come una solle-
citazione ad entrare in qualcosa diventa sempre più grande. Di conseguenza, il tipo di
risposta dei membri sarà interamente diverso. Al posto di un in-
sieme di persone dipendenti dal leader, sempre sul punto di diventare oggetto
della sua riprovazione, si avranno soggetti che, condividendo una stessa
          tensione rivolta all’esterno, andranno man mano conquistando la propria autonomia.
Si ritrova qui quella distinzione tra gruppo di bisogno e gruppo
di desiderio, a cui si era accennato in un precedente articolo (Q.P., 33).
La premessa maggiore comune a questi due svolgimenti è, come si è
già detto, lo stato di angoscia condiviso da molti degli appartenenti agli
strati sociali che si riconoscono oggi, in modo insieme diretto e emble-
matico, negli studenti. Le analisi politiche di questa situazione sono ormai
numerose, e ad esse si rimanda, anche se si ha l'impressione che talvolta lo
strumento marxista, reificato, diventato
« scienza », serva a costituire schemi
di sicurezza volti a esorcizzare il nuovo e a confermare posizioni sconvolte.
Ciò che importa notare qui, ciò che si cerca di cogliere, è la specificità delle
risposte che la situazione dei fatti e, più ancora, la loro prospettiva, sembra
evocare nei protagonisti.
Abbiamo delineato due movimenti di gruppo che, usando modalità for-
malmente simili, giungono a conclusioni radicalmente divergenti. La prima
soluzione, quella che porta al gruppo sempre più chiuso, appare all'inizio
come la più
« realistica », la meglio motivata sul piano dei compiti pratici,
effettivi; ma il suo sviluppo tende a smentire nettamente le sue motivazioni
  di partenza. Le inevitabili espulsioni e frammentazioni interne, che sono il
frutto di una continua difesa dell’ideale di gruppo continuamente minacciato, segnano il percorso di un processo di settarizzazione. La seconda soluzione, quella che dà inizio a uno svolgimento opposto, di tipo espansivo - nel nostro caso non ha neppure avuto la possibilità di cominciare; è chiaro dunque che ad essa si oppongono grosse difficoltà, tali da renderla, non irreale, ma certamente rara. Potremmo chiamarla processo di accomunamento, anche se il termine non rende affatto l'intensità dello svolgimento,  che si incarna compiutamente nel punto più alto, più espansivo, di uno sviluppo rivoluzionario. La difficoltà di trovare una parola che centri il fenomeno corrisponde dunque alla rarità del fenomeno stesso.
Esso presuppone infatti un uso assolutamente inconsueto di uno degli
schemi più forti di comportamento e di formazione del gruppo: quello che
ne fonda la coesione sulla presenza di un altro gruppo esterno ad esso. Storicamente, lo straniero, l'uomo che spunta sconosciuto all'orizzonte, è stato, ed , più spesso nemico che amico. Di qui il riflesso di chiusura del gruppo nei suoi confronti, che è tanto più forte quanto più il gruppo è internamente debole, incerto, diviso, e che riesce a dargli momentaneamente una sua unità e una sua forza. Il processo di settarizzazione sembra dunque ripetere, esasperandolo, moltiplicandolo, questo riflesso di difesa rispetto a un
« esterno »  percepito quasi esclusivamente come nemico, come negativo. Ovviamente, è la presenza effettiva e continuativa di questo negativo che consente alla percezione di esso di venir condivisa da più persone, anche se esso si carica rapidamente di tutte le angosce, di tutti i fantasmi personali. In correlazione con questo nemico esterno, si crea come abbiamo visto un « interno » personale e di gruppo, un nucleo, che per contrastare la forza e la minacciosità esterna deve assumere una simmetrica, straordinaria forza ideale. Questa angosciosa situazione di partenza si può dire condivisa anche dal processo di accomunamento rivoluzionario. Tanto che si potrebbe dire: dovunque non esista, o non si venga creando, questa tensione di polarità, non si può parlare né di setta di rivoluzione. Ma il processo di accomunamento, ed è qui la sua eccezionalità, riesce a capovolgere questo riflesso sedimentato nella collettività, e da cui anch'esso trae origine: l'esercito agguerrito che schiaccia la setta diventa per esso la massa sterminata offerta alla propria comunicazione. E', in altre-parole, quella diversa valutazione dell'estraneo che abbiamo visto profilarsi nel nostro gruppo. Perché questo avvenga, occorre però che la comunicazione, la generalizzazione, l'affermazione e la ricerca di ciò « che ci accomuna tutti », sia la parte essenziale del bene interno che viene  comunicato. Se all'esterno del gruppo esistono di fatto, seppure latenti, gli elementi comuni ad esso, il processo comincia a propagarsi.
Certo non ha vinto! Ogni ostacolo incontrato, esterno o interno, tende
infatti a far sì che il gruppo, o una sua parte, sia tentato di abbandonare, nei'
fatti, l'azione di comunicazione iniziata; sia tentato di cercare la propria
sicurezza in un proprio
« interno» indiviso. A questo punto il processo di
accomunamento rischia continuamente di capovolgersi, in modo talora rapidissimo, nel processo opposto, pur mantenendo apparentemente invariato il proprio discorso esplicito.
Se questo svolgimento è frequente, perché gioca a suo favore tutta la
vischiosità della vecchia « spontaneità », altrettanto infrequente e difficile
è quello in direzione opposta. La setta, di per sé, proprio perché setta, soltanto di rado riesce ad aprirsi. Rimane, ed è questo il suo significato, come testimonianza della rivoluzione fallita e come promessa di quella futura.
Ma in fondo, si chiederà, di che setta, di che rivoluzione si sta parlando?
In fondo, si dirà, qui si tratta di uno psicanalista che ha scoperto una setta
psicanalitica fiorita ai margini del movimento studentesco, fuori di esso,
estranea ad esso. Estranea ad esso... o interna alle sue difficoltà, ai suoi
problemi? Il presupposto fondamentale su cui si basa questo scritto è che
chiedersi che cosa sia la
« psicanalisi» per i sostenitori del gruppo chiuso
significa anche chiedersi che cosa sia la
« politica» per i sostenitori del
gruppo aperto. Significa cercare di intendere, nelle sue vicissitudini e nelle
sue trasformazioni, che non sono certo inconoscibili, quella
« passione» (Leidenschaft) , che è nello stesso tempo urgente «bisogno» (Not) di autorealizzarsi da parte dell'uomo - di cui parlava Marx; quella esigenza « radicale» che fa dire a Bloch, in modo duplicemente ironico, che non si vive di solo pane soprattutto quando non se ne ha, Non si fa dunque cieca e irrazionale apologia, quando se ne constata la presenza, quando se ne seguono le vicende sia nel rivoluzionario che nel settario; semplicemente, si approfondisce l'analisi a quel livello in cui l'uno e l'altro riescono forse a ritrovare, come in uno specchio, i tratti della loro straordinaria somiglianza e diversità.




13 commenti:

Anonimo ha detto...

Molto "spontaneamente" penso che il gruppo abbia sempre molte difficoltà nel proseguire su una strada comune e questo lo trovo naturale. Nel nostro caso visto che si tratta di poesia si dovrebbe
trovare una via da percorrere senza scontri ne offese , questo si ottiene solamente con la partecipazione e l'ascolto di tutti. Non è semplice neppure fare questo ma se non ci crediamo tanto vale restarsene per i fatti nostri così non ci prendiamo in giro. Qualcuno dice che anche le amicizie che poi nascono tra i componenti di un gruppo possono disturbare il lavoro, ma suvvia siamo tutti adulti o bambini?? E poi se l'amicizia è vera e senza legami può dare esiti eccezionali in questo caso.Resta a noi capire fino a che punto si deve arrivare per capire la suscettibilità dei componenti, ma di solito chi è troppo critico o molto suscettibile è perchè non ha nessuna voglia di collaborare o di lavorare per il gruppo, allora a loro ripeto: -Fatevi i fatti vostri, non sprecate il vostro prezioso tempo!!!- EMY

Unknown ha detto...

Mi è piaciuto molto fare questa lettura ,perchè alla mia biografia manca moltissimo quel periodo a cui si rilega questo quaderno di presa diretta al lavoro su un tema che mi ha parecchio lacerato.Se avessi avuto più strumenti quale anche quelli che emrgono da questa lettura, avrei attivato in me canali energetici migliori per continuare a credere alla natura "sociale" dell''individuo, persona, o essere umano o pensante che dir si voglia.

Io alla fine ho sempre fatto lo scemo del villaggio, e questa parte che ormai mi viena anche facile, mi ha però vieppiù scaricato tanto quanto e come mi scaricavano "i gruppi" di cui avevo estremo bisogno.

Nel lavoro personale, o autocoscienza, è cresciuta in me una virtù che non avevo o se avevo non sapevo essere mia: la tenacia .
Ma alla fine che me ne sono fatta se la forza dell'introspezione è stata solo mia sbilanciandosi con quella ,che a livello collettivo, non ho potuto vivere in un rapporto più arricchente per entrambe le parti?

sicchè di rado o meno, ho saputo vivermi in solitudine il vivi e lascia vivere di gruppi che credevano di esserlo o che lo erano, senza poter ricavare alcuna legge o verità, consolatoria nè per me nè per il gruppo stesso..ero e sono sul filo di un "noi" immaginario, in cui comunque il mio singolo io era ed è continuamente tutto e niente, nessuno..

la grande tensione da io a noi di pezzi uguali e diversi che fanno mosaico continuamente all'opera,ognuno con il suo strumento, è rarità come nelle bellezze della natura, dell'arte, dell'artigianato, della vita nel pieno ventaglio di ogni sua emozione,riflessione, visione, dalla coppia alla famiglia o di questo o quel collettivo.

E' difficile trasferire tale tensione LAICA da tutti e tutto di un "noi" fuori da ogni farsa e omologazione ed è per questo che ogni gruppo "tematico", di politica o poesia, di giardinaggio o letteratura, rischia di confondere , per un bisogno di psuedoidentità,di rimanere schiava delle sue visioni, ergo tale e quale identica alle sette religiose sia che si occupi di battesimi che di sbattezzamenti, sia che si occupi di veleni mafiocattolici che di altra spiritualità, o di geopolitica o di politica.


Il leader si trasforma spesso in un santone o in un santino, come peraltro di questi tempi occorre; cosi al leader avviene solo se stesso quale bocca della verità, oppure avvengono i suoi aiutanti come adepti oppure il controleader e suoi aiutanti..ogni feroce antagonismo scambiato per conflitto produttivo.

nel gruppo le pantonime piu diverse da quelle in cui si salva capra e cavoli, a quelle che si mettono prone alle sue leggi, ad altre e altre ancora.

Non conosco la vostra comunità, e posso dire di conoscere poco poco anche colui che vi ha voluti in "molti", ma in lui , il caro Ennio, (ri)conosco quella tensione verso l'esperimento di un "noi" come lo sento nelle mie vibrazioni, consapevole cioè delle bellezze di un incessante costruzione sinfonica dal dolore alla gioia in ogni gamma emotiva intelletiva di un sè profondo, in cui quel "chiuso o aperto" diventa domanda continua in se stessi che , rimbaud docet, poeti e non poeti,critici o meno, espande quel mosaico dal proprio pezzo all'altro e l'altro ancora, spegnendo accendendo e rispegnendo continuamente un io vero,profondo,denudato di muri, falsi specchietti,complessi,paure, per un mantello mosaico che ricopre quel noi continuamente istanza di chi sono, chi siamo, cosa ci facciamo o non ci facciamo qui , di quell'io di quel noi, come andare da soli e insieme etc etc.

Unknown ha detto...

ec
un'incessante

Anonimo ha detto...

Tentar di unire psicanalisi e politica. Se ben ricordo, fu l'unica vera conquista a cui si arrivò sul finire degli anni '70. Il discorso fini lì.
Forse perché ciò "che accomunava tutti", in definitiva, non era più lo stesso.

mayoor

Anonimo ha detto...

E mentre ancora ci pensavo sono arrivate le parole di Insoffitta, particolarmente quelle sulle vibrazioni del "noi" che ho condiviso all'istante.
E dunque, mi son detto, il limite potrebbe stare proprio in quel ciò-che-ci-accomuna di cui forse si potrebbe fare a meno.
Il "noi" come lo si intende in politica, in psicanalisi non ha molto senso, anzi per lo più si presta ad essere un ricettacolo di malattie. E torno al "mosaico" ben descritto da Insoffitta che non esclude l'io vero con ciò che ne consegue, soprattutto perché chiarisce l'illusorietà di fondo di ogni noi. E dunque, se gruppo c'è, non sta più nel suo avvenire quanto nel continuo divenire.

mayoor

Anonimo ha detto...

Caro Enzo,
Sai che non cel'ho con te personalmente, perchè sei persona educata, anche se abbiamo pareri diversi. Ma ho appena trovato una frase che secondo me ti si addice. Nell'originale si riferisce alla figura di un grande intellettuale della prima metà del '900 che non ti nomino.

La frase dice:
He was the opposite of Dr Watson who saw but did not observe: he observed, but did not see.

Ciao
L.

Unknown ha detto...

Mayoor

grazie di avermi dato idea,di movimento:dal mio pensare al tuo chegià così, semplice semplice, è un io + io dentro un noi e viceversa..
piu ci si illude di un noi irragiungibile, cercando di autovenderselo e/o venderlo come chissa quale noi pieno pieno pienissimo , più si perde quel noi,nucleo non illusorio, più facile o meno, a seconda dell'incontro o dello scontro con una parte "altra" e il desiderio di entrambe a fare un pzzo insieme per quel mosaico al d la degli ostacoli reciproci .. "Altro " è sempre un quid presente o assente , conosciuta o sconosciuta in ogni "io" rispetto all'altro "io", che compongano o meno una coppia, o una famiglia o un gruppo .

Peraltro il noi tendenziale è già dentro ognuno, già dentro ogni singolo , fra l'io piu illusorio e il sè piu profondo, come la foglia per un ramo di foglie o l'albero al bosco..il noi è solo piccola piccola espansione di questa micro a macro coscienza, dal proprio genere a un altro, che lo si contenga o meno, o ne sia adiacente o più lontano , da una biografia più elemntare a una piu composita...non c'è illusione se lo si prende come dato di fatto presente negli esempi nella natura,anche con le sue tempeste, predatori o prede , bellezze e catene,cascate o scatenamenti, per sentirsi gocce , avolte più rapide altre "fiume lento".

Sul piano politico valgono i rapporti di forza e dominio, ma in gruppi ad esempio come questi dei "molti", tutto è personale e tutto è politico, il tema centrale rimane poetico quindi , se autentico, teso di per sè ad essere oltre le illusioni della realtà, vicini agli scogli o ruscelli,i rami o pozzanghere, oceani calmi o in tempesta, di universi di universi infiniti di noi piu reali di qualsiasi farsa scambiata per realtà.

Stasera è' stata una bella "camminata " pasoliniana, quindi perdona l'abbondanza di spiritualità in accento a quel noi più allegorico, ma reale e concreto, come la natura sa esprimere di quel noi che abbiamo afferrato insieme.

Anonimo ha detto...

Spiace di non esserci stato alla serata pasoliniana.

m.

Unknown ha detto...

m.
04 novembre 2011 02:06

possiamo rifarne un'altra camminando su queste pagine molticorsare
:-)

Larry Massino ha detto...

Abate, è sacrosanto che il gruppo dovrebbe essere aperto. Ma in quale società? Stupisce tu non voglia accettare che è chiuso per ovvie ragioni di interesse di chi lo promuove. Però le barriere di accesso che ogni gruppo si costruisce sempre più alte, compresi i partiti e i movimenti, possono essere utilizzate dalle persone come te (e come me) per rinforzarsi, per collegarsi davvero alla realtà che ci circonda, compresa la realtà poetica, che non è affatto in crisi, ma è in crisi solo il gruppo chiuso che ritiene di averne in esclusiva le griglie interpretative, in ogni caso il diritto a inventarne sempre di nuove e sempre più sballate, che alla fine alla fine altro non è che il diritto a stilare gerarchie in nome dell'autorità che si danno da se medesimi... Il gruppo è una semplice appendice del potere, che si nasconde dietro tante forme, e non può in alcun modo essere aperto. Aperta può essere solo la formazione continua di gruppi chiusi, e la loro continua dissoluzione. Te lo dico da uno che neanche a venti anni faceva parte di un magnifico gruppo aperto, piuttosto ingenuo nei suoi contenuti, ma fortissimo nella forma organizzativa, assolutamente includente, che faceva squagliare attorno a sé qualunque struttura di potere (inutile che ti dica che il PCI ne favorì la fine, includendo i suoi componenti in luoghi di lavoro e di comando, a parte chi non ci volette stare, nonostante lusinghe di tutti i tipi...)

Ps: te l'ho detto altre volte, bisogna studiare le forme organizzative... perché bisogna inventarne di nuove, a partire da organizzazioni desoggettivanti (è un parolone questo, no?), perché finché il gioco sarà che chi sta al vertice della gerarchia di un gruppo riceverà onori e prebende...

Moltinpoesia ha detto...

Abate a Larry Massino:

Così ingenuo da pensare che un gruppo sia chiuso per natura e non per ragioni d'interesse? Eh, no. Io mi circondo di mura, metto la porta corazzata e sofisticati congegni di allarme perché ho da difendere la "proprietà" (il privilegio, l'interesse, la mia "famiglia", ecc).
Ma il testo di Fachinelli è interessante perché studia da vicino una dialettica tra gruppo chiuso e gruppo aperto. Tu chiudi, ti corazzi, scacci, coopti solo quelli che hai passato al setaccio, ma c'è una spinta irresistibile , magari inconsapevole del vero obbiettivo, ad aprire, entrare, guardare, contestare, far valere altri bisogni in quel gruppo con contemplati o affermati solo a parole.
Nella storia infiniti esempi. dai barbari rispetto all'Impero romano, ai cristiani delle catacombe, agli eretici stermionati dalle inquisizioni, eccetera.
Sono poi il primo ad essere connvinto che la soluzione organizzativa non c'è. E ho larlato di rompicapo tra spontaneità e organizzazione, appellandomi a Rosa Luxemburg da una parte e a Lenin dall'altra nel commento al post di De Carolis su LPLC.
Quindi, d'accordo. studiamo le forme organizzative.
Non so bene cosa tu intenda per forme organizzative "desoggettivanti", ma ci possiamo riflettere.

Moltinpoesia ha detto...

Ennio Abate corrige:

1.
, far valere altri bisogni in quel gruppo non contemplati o affermati solo a parole.

2.
Nella storia infiniti esempi. dai barbari rispetto all'Impero romano, ai cristiani delle catacombe, agli eretici sterminati dalle inquisizioni, eccetera.

3.
E ho parlato di rompicapo tra spontaneità e organizzazione, appellandomi

4.
Quindi, d'accordo. Studiamo le forme organizzative.

giorgio linguaglossa ha detto...

la peculiarità dimoltinpoesia è proprio quella di non costituire un gruppo ma di essere un luogo aperto al confronto, anche serrato, con chiunque e con tutte le idee. Chi ha idee le può mettere in campo, perché avere paura delle idee? Il fatto è che con il coformismo delle idee, conla CRISI DI STAGNAZIONE DELLE IDEE che c'è oggi nel campo della poesia, non ci può essere neanche l'idea di un libero dibattito. Questa è la forza di moltinpoesia, credo. E questo il suo inestimabile valore.