Iniziamo con questo racconto di Rita Simonitto un esperimento: apriamo di tanto in tanto il blog Moltinpoesia anche a altri tipi di scritture non strettamente poetiche o riguardanti la poesia. [E.A]
“Buon giorno!
So che mi aveva cercato.”
“Buon giorno.
Sì. Ah, è lei” aveva risposto una voce fredda al di là della cornetta.“Senta, è
da un po’ che tento di mettermi in contatto. Ma che cazzo sta succedendo! Non
va mica bene, così, sa? Se ne renderà conto. Oppure… no! Non se ne rende conto......Ma
dove….?”.
Lui ascoltava,
senza proferire verbo, quelle parole che gli scivolavano nelle orecchie come un
brusìo, e anche i suoi pensieri si erano ammutoliti. Tutti tranne uno che
martellava fisso nella sua mente “E, adesso, che faccio?”.
Non ci sarebbe
stato niente di altro da fare, lo sapeva bene, se non quello di mettersi finalmente
ad ascoltare ciò che il suo capo gli stava dicendo dall’altra parte, che però
percepiva come se venisse dall’altra parte del mondo. Ma non ne aveva né la
voglia né la forza.
Così, di
colpo, non potendo reggere più la situazione, mollò la voce che continuava
a parlare lungo quel filo penzolante, e,
ottuso ormai, abbandonò il tutto e uscì dalla stanza.
Sulle prime,
il leggero cambio di clima lo sturbò. E poi si sentì preso alla gola quando fu
fuori dal palazzo: il caldo, afoso oltre ogni limite di sopportazione, era
davvero soffocante. Si passò meccanicamente ambedue le mani sul collo come a
voler mettere uno spazio di respiro tra sé e quell’opprimente afa che lo
attanagliava.
“E, adesso,
che faccio?” continuava imperterrita la domanda interiore.
“Dirigersi
innanzitutto all’auto” fu la sua prima risposta. Lì, avrebbe potuto accendere
un po’ l’aria condizionata e trovare del refrigerio.
Già. Ma dove
l’aveva parcheggiata?
Da qualche
tempo aveva preso l’abitudine di non utilizzare il parking dell’azienda. Si
sentiva a disagio nell’affrontare le frotte di colleghi che, intruppati in
ascensore, parlavano di politica come un tempo si parlava di calcio, quel modo
simpatico ed innocuo per sentirsi al lunedì, alla ripresa del lavoro, pieni di
idee ‘rivoluzionarie’ su come avrebbe dovuto svolgersi una partita e su quali
tecniche sarebbero state più vittoriose. Era un piccolo momento di onnipotenza
quello di avere in mano, a giochi fatti, il campo intero, giocatori, allenatore
e arbitro compresi, prima di immettersi,
sbuffando, nel pieno delle pratiche da sbrogliare. Ma, parlare in quello stesso
modo di politica, gli faceva venire la nausea: non c’era nessun gioco
onnipotente da esibire, nessuna verità da propagandare ma soltanto il peso di
una incredulità che cresceva sempre più e che era difficile da portarsi.
Giorni prima, Mirella, la sua
dirimpettaia d’ufficio – sezione contenziosi - lo aveva guardato con
sufficienza, né più né meno di come ultimamente lo stava guardando sua moglie.
Che gli aveva urlato dietro, dopo
uno stanco litigio “Ma che vuoi di più dalla vita…”.
Stanco litigio, sì … non
ricordava nemmeno più su che cosa c’era stato da ridire. Già.
Non era che non sapesse quello
che avrebbe voluto dalla vita, ma era come nella canzone “"Vitti 'na
crozza", quando un verso diceva “ chiamu la morti i
idda m’arrispunni” e lui che storpiava sempre con un “chiamu la vita e a morti
m’arrispunni”.
Così,
parcheggiando la macchina lontano, ne approfittava per sgranchire un po’ le
gambe e con esse la mente, lasciandosi andare ai suoi pensieri.
Si alzava anche
presto alla mattina, in modo da poter fare il tragitto. Sua moglie lo lasciava
fare, limitandosi a scuotere la testa. Nel loro rapporto era giunto quel
momento della vita di coppia in cui si passa dal gioco degli adolescenti
innamorati, che si stimolano a far andare lo cose a loro piacimento, ad una
gestione più complessa a fronte della quale è necessario prendersi delle
responsabilità in senso stretto e in senso lato. Ma, mentre lei sentiva che
quel richiamo equivaleva a rispondere ad un dovere, e prendere quindi le
distanze dai moti e dai sogni dell’adolescenza, lui non ci vedeva tutto quel
distacco né quella necessità. Si potevano sempre trovare delle mediazioni! Ma
per mediare bisogna essere in due e anche disposti a farlo. Così, pur essendo ancora
giovani, vivevano come vecchi, preso ognuno dalla inflessibilità delle proprie
costruzioni mentali.
Questi erano,
grossomodo, i pensieri che lo accompagnavano nel suo percorso dall’auto
all’ufficio e viceversa.
Ed essi si calavano
sempre più in profondità e si ramificavano sempre più in estensione, come
accade quando si getta un sasso in uno stagno. E avendo essi la peculiarità di coinvolgere
la sua vita privata così pienamente, senza residui, o altro che potesse
distrarlo, sentiva ogni volta il bisogno di chiarirseli meglio in modo da
essere in grado poi di esporli, eventualmente, alla sua compagna. La necessità
di avere più tempo per pensarli includeva, ça
va sans dire, anche gli eventuali
contradditori che potevano essergli mossi. Il passare da sé all’altro, come un
giocatore di scacchi che gioca da solo, non era però esente da fatica, perché
non era sempre facile ricordare il punto mentale in cui si era fermato
trovandosi già alle soglie dell’ufficio: così il dialogo interiore doveva
essere ripreso da capo.
Tutto ciò
aveva fatto sì che parcheggiava sempre più lontano, a volte senza nemmeno farci
caso; così che, al ritorno, gli capitava spesso di dover trascurare i suoi pensieri,
ormai ossessivamente prendenti, per fare mente locale sui suoi passi della
mattinata. C’era stato perfino un giorno che, dopo aver girato invano, era
rientrato a casa a piedi, ormai a notte fonda. Solo al mattino seguente, si era
ricordato che aveva parcheggiato proprio sotto l’ufficio visto il ritardo con
cui si era svegliato.
Quel
pomeriggio, non riuscendo a ricordarsi dove l’aveva messa, decise di non farci
caso: il ricordo sarebbe venuto da sé. Ma non poteva certo permettersi di
vagabondare per la città dentro quel clima da Cajenna: si sudava soltanto a
respirare.
Non voleva
rinchiudersi in un bar in attesa che, verso il tramonto, la morsa della calura
si rendesse più tenue. Non era il tipo capace di attendere.
Il pensiero “adesso
che faccio?” diventava sempre più assillante. Oltretutto, non faceva più parte
di una estemporanea richiesta di fronte ad una situazione critica, ma era diventato
un suo compagno di viaggio, fedele al suo fianco, che lo stimolava sempre ad
agire. Anche i suoi pensieri, così coatti e ossessivi, non erano altro che una
forma di azione.
Preso dalla
morsa di quell’interrogativo decise che avrebbe camminato fino a raggiungere il
piccolo parco che occupava la parte centrale della città; polmone attorno al
quale essa si era sviluppata e che, attualmente, lo stava stringendo a tenaglia
in una battaglia dove i gas e i miasmi stavano avendo la meglio asfissiando le
piante più sensibili e ancora non assuefatte.
Là si svolgeva
una continua lotta per la sopravvivenza e lui sentiva la sintonia con quel
verde che si manteneva costante durante tutte le stagioni, pur cambiandosi
nelle tonalità e nei rapporti vuoti/pieni. Ritrovava un sentire giovane, quando
le forze si combattono tra le ansie claustrofobiche della prigione familiare in
cui ci si trova e le ansie della fuga verso un futuro che sa da ignoto. In quel
piccolo spazio del parco egli sentiva che, come in un teatro all’aperto, si
rappresentava la storia del rapporto della natura con l’uomo. Essa che, da un
lato, veniva piegata, irreggimentata in percorsi, vialetti il cui nome
richiamava le strade della cintura urbana che, da fuori, la delimitavano. Mentre,
dall’altro lato, essa cercava di forzare, a partire dalle radici fino alle
chiome più alte, ogni condizionamento. Ma la sensazione con la quale si sentiva
maggiormente in fratellanza, aveva a che fare con quel senso di assedio che
permeava quel vitale polmone fino a farlo sentire asfittico.
Quando arrivò
al cancello trasse un respiro di sollievo. Un primo obiettivo era stato
raggiunto. Ma, e poi? Ce ne sarebbero stati un secondo, un terzo?
In assenza di
un pro-getto in avanti il suo pensiero scivolò all’indietro, all’indietro
prossimo.
Come si sarebbe
interpretato il suo andarsene brusco dall’ufficio lasciando il suo capo a
blaterare a vuoto, la voce dondolante appesa al filo del telefono? Fece un
sorrisino fra sé all’idea di come l’altro ci sarebbe rimasto nell’ accorgersi
che aveva continuato a parlare senza che alcuno lo stesse ad ascoltare
dall’altra parte! Ma fu soddisfazione di breve durata. Un atto di
insubordinazione, ecco come poteva essere letto. Certo, lui avrebbe potuto
anche accampare un momento di malessere, ragion per cui la comunicazione
bruscamente interrotta avrebbe avuto un suo senso. Ma, se uno si sente male,
chiama soccorso e non si trova poi a passeggiare nel parco! Già.
Nello stesso
tempo era fuori dubbio che lui davvero si era sentito male. Eppure come
qualificarlo, quel male. Male esistenziale? Residui dello spleen adolescenziale?
Ultimamente i
rapporti all’interno dell’azienda non erano granché buoni. C’erano state delle
tensioni legate a politiche aziendali che lui, in quanto addetto ai bilanci,
non stava condividendo. In molti anni di lavoro la sua serietà e preparazione
erano sempre stati un ottimo lasciapassare per giustificare scelte economiche
di un certo rilievo o per scartarne altre. Oggi, invece, non era più così. Era
come se la partita si giocasse contemporaneamente dentro e fuori campo, un
luogo in gran parte ignoto i cui confini non erano più così definiti, per lui, ma di cui doveva condividere,
aprioristicamente, le condizioni che comunque lo reggevano. Si era venuta a
creare una situazione abbastanza anomala. Quella sua parola finale che doveva
costituire il placet perché ai
vertici si potessero assumere determinate posizioni, non aveva più il peso che
aveva avuto un tempo. Si sentiva espropriato della sua funzione: come chi passa
da maggiordomo, che tiene in mano le chiavi e le sorti della casa, a cameriere.
Anche se ‘primo cameriere’, certamente. Non gli era estranea però l’impressione
che lo aspettassero al varco di una possibile mancanza per poterlo prendere in
castagna e liquidarlo. Per quale motivo, poi! Onde evitare ciò, si impegnava
fino allo stremo per non dargliela vinta. Ma, il dover essere sempre a posto,
per dimostrare che erano loro a tendergli delle trappole, stava diventando un
impegno molto debilitante.
Anche se di
natura diversa rispetto ai pensieri di carattere più intimo che lo
accompagnavano durante i tragitti giornalieri, anche questi, legati al lavoro, ne avevano identica struttura: era come
muoversi in un ginepraio e bisognava trovare una soluzione. Che fare? Al
momento, che fare?
La frescura
del parco, se gli aveva allentato la tensione, non aveva dato granché tregua
alla sua inquietudine. Così, anche in questa circostanza, ricorse alle
strategie note: darsi degli obiettivi minimi oppure, in mancanza di questi, che
al momento non potevano essergli chiari, darsi dei piccoli compiti. Come, ad
esempio, trovare una panchina. Oppure, dopo aver fatto un giro tortuoso,
ritrovarsi al laghetto dei cigni. Ma erano obiettivi facilmente e prestamente
raggiungibili, dato che, quel parco, lo conosceva a menadito.
Forse doveva
darsi un obiettivo più complesso, che avesse in sé qualche cosa di impossibile,
in modo da assorbirlo profondamente e far durare il più a lungo il senso della
ricerca. In fondo, non era stato questo il modello che aveva sempre perseguito?
Mai accontentarsi, mai fermarsi, c’è sempre di più e di meglio. E questo si
poteva ben dimostrare! Solo che in quel modo aveva potuto gustare ben poco di
quello che aveva raggiunto, sempre preso dalla ricerca del nuovo…
Ma non volle
dare peso a quei pensieri devianti: era ancora troppo coinvolto nel suo bisogno
di uscire dalla pesante sensazione di disagio.
Così gli
balenò l’idea di voler trovare, lì nel parco, un ippocastano fiorito. Trovarlo,
oltretutto, sarebbe stato anche un segno benevolo del destino, visto che
l’unica cosa che gli ippocastani stavano dando in quel periodo di fine agosto
erano frutti avvolti in ricci verdi, con le spine ancora imberbi e tènere, anche
se lasciavano già presagire, da qualche fenditura, un filo di lucido marrone.
Alimentato da
questa nuova tensione, si mise dunque alla ricerca. Gironzolò, per un poco,
senza darsi una meta: il fazzoletto con cui si asciugava il sudore - anche lì
si sentiva il caldo umido - era ormai diventato una cordicella zuppa. Si
sentiva calmo, quella calma che deriva dalla sensazione di controllo sulla
propria emotività: infatti i suoi pensieri martellanti si erano dati un po’ di
pace. Non importava se stava già imbrunendo: in quella stagione la sera tiene la
luce ancora un po’ a lungo anche se, sotto la radura, si nota poco la
differenza, solo un senso maggiore di freddo.
Fu in quella
calma che “lo” vide.
Era un
ippocastano imponente che era stato colpito da un fulmine. La ferita della
bruciatura si estendeva quasi in tutta la sua altezza risparmiando solo una
fascia verde alla base. Sembrava diviso nel mezzo. Una parte, un tempo
svettante e ora completamente bruciata, planava con i suoi rami secchi appoggiandosi
perlopiù alle chiome delle piante vicine, e un’altra parte, un po’ più piccola
ma ancora vitale, i cui minuscoli frutti attestavano il ritardo con cui era
avvenuta la maturazione, cercava uno spazio fra le alte fronde. Ad una certa
altezza, però poco distante da terra, aveva pollato un giovane ramo che si era
fatto vittoriosamente strada verso l’alto e mostrava tenere foglie verdi e
timidi fiori bianco/rossi al suo apice.
Quella anomala,
e pur ricercata, visione lo colpì come una frustata improvvisa, un lampo sonoro
che lo abbacinò e lo frastornò. Nella luce tuonante in cui “lo” vide, si vide.
L’impossibile
possibilità che la natura gli aveva messo davanti agli occhi lo aveva fatto
sentire stupido e inetto. Pensava, oh, sì, pensava, che il misurarsi con
l’Assoluto, l’Irraggiungibile lo avrebbe, in un certo qual modo, reso partecipe
di quell’aura di divino e consolato, in caso di fallimento, beh, non si vince
facilmente con la divinità.
Invece, eccolo
lì, se stesso, ancora e sempre piccolo, arrabbiato e inerme: e non poteva
assolutamente permetterselo. Ma vide anche, contemporaneamente e con lucidità, come
il seguire le sue ossessioni lo aveva portato ad uccidere, giorno dopo giorno, ogni
forma vera di vita, anche se piccola e non grandiosa. E che adesso la cosa era
andata così avanti che non poteva farci niente.
Era finito.
Tutto era finito.
Ancora
allucinato, trasse il fazzoletto zuppo dalla tasca e, con l’occhio fisso a quel
miracolo della natura di cui non sapeva che farsene e che ora odiava, lentamente
se lo strinse attorno al collo. Poi si sfilò la cintura dai pantaloni, se la
passò tra collo e fazzoletto e con quel gancio si appese al giovane ramo e si
lasciò cadere giù, a penzoloni.
La lettrice
rimase sbalordita così tanto da quel finale inaspettato che chiuse il libro di
botto lì, dov’era arrivata, al fondo della pagina. D’altronde, si sa, la morte
porta con sé non solo la percezione dell’irreversibilità, ma anche l’esperienza
tragica del taglio netto, oltre il quale c’è il vuoto, il nulla.
Così mise il
dito indice a segnare il punto ultimo a cui era arrivata, ruotò il libro di
racconti, ormai chiuso come una tagliola su quel dito, e chiese alla
scrittrice: “Ma perché lo hai fatto morire? E’ stato un gesto di crudeltà il
tuo. In fondo, aveva bisogno di un premio nel senso che la sua speranza, per
quanto gestita in questo modo infantilmente onnipotente, gli aveva dato una
qualche risposta”.
L’accusa di
cinismo era evidente, anche se non conclamata. Erano amiche, certo, ma la
lettrice, dopotutto, faceva fatica a concepire che la realtà nascondesse oscuri
enigmi. Paradossalmente tendeva più a credere all’esistenza di forze magiche,
potenti nella cattiveria e nella bontà, ma mai ciniche o sprezzanti. Il Fato è
il Fato e la Volontà è la Volontà.
La lettrice
intendeva che il Destino, forse, sarebbe stato benevolo nei confronti del
protagonista, mentre la scrittrice, volontariamente lo aveva condotto alla
brusca fine.
“Perché lo hai
fatto morire?”.
Quello che
risultava, invece, difficile per la scrittrice non aveva tanto a che fare con
il rispondere a quelle domande, ammesso che quelle domande fossero pertinenti. La rèponse est le malheur de la question,
asseriva Blanchot. Oltretutto, il protagonista del racconto se l’era andata a
cercare. Al limite, lei si sarebbe posta altre domande: quando e come si supera
la barriera tra la tolleranza verso ciò che accade e l’intolleranza, il non
farcela più? Quali passaggi interiori, quali vicoli oscuri la mente attraversa
con il suo carico emotivo quando si trova davanti ad uno sbarramento, come succede
quando, percorrendo un labirinto, pensi di essere arrivato alla soluzione e
invece una parete ti blocca lì?
Già. Però una
soluzione “è” una fine. Uno sbarramento significa invece che si può ancora
tornare indietro e cercare di nuovo.
E la
scrittrice seguiva questi suoi percorsi mentali nel mentre, con l’altro orecchio,
ascoltava i discorsi della lettrice. Quasi soprapensiero, prese il libro di
racconti che la sua amica teneva ancora tra le mani, tolse il dito indice da
pagina n. 93, e la girò.
La pagina 94
si apriva con poche righe. Ma fu come un fulmine a ciel sereno perché la sua
apertura tradì ogni aspettativa: non era una pagina bianca né dava inizio a una
nuova storia. Spaventata, come fosse alla presenza di un fantasma, la lettrice
seguitò a leggere.
La stretta attorno
al collo fu la prima forte sensazione che percepì. La percepì con rabbia e, si
sa, la rabbia fa una strana alleanza con il dolore perché va a richiamarlo,
sempre più, sempre di più. Ma ciò non gli impedì di percepire, in contemporanea,
un leggero alito di fresco alle natiche, un fresco piacevole, quasi una carezza
in quella calura. Carezza che scendeva giù fino alle caviglie e immediatamente realizzò.
Le brache, tolta la cintura, erano miserabilmente cadute. No, anche umiliato,
no. Era troppo!
Così si mise
ad armeggiare febbrilmente, orientando la sua rabbia verso quella cintura
sdrucita che non voleva saperne di sfilacciarsi. Non la cintura, ma fu il ramo
a cedere a tutti quegli scomposti movimenti e si spezzò. Lui precipitò a terra.
A terra ora si
stava muovendo, come in un parto arcaico, un groviglio scomposto di membra
sanguinanti, di rami secchi, fiori ora strapazzati e sdrucite vesti: da lì
qualche cosa avrebbe preso forma e si sarebbe svelata.
Sì, era stordito
ma ancora in sensi per alzarsi e riassettarsi un po’.
Si incamminò
da qualche parte e nessuno seppe, poi, quel che accadde di lui.
Rita
27.08.2010
9 commenti:
Ho cercato di rileggere questo racconto per modificare la prima impressione, modifica che è sicuramente intervenuta a favore della scrittrice Simonitto ma non in modo sufficiente a con-pensare mettendomi sia dalla sua parte sia dalla parte della sua ipotetica lettrice ed ex suicida, sia nello spazio vuoto fra le due.
Non sono un critico quindi non so esprimere su criteri/parametri "oggetttivi" vuoi ciò che non mi convince sul piano dello stile vuoi sui contenuti.Inoltre per il genere ecumenico pedagogico scelto da Rita, sono troppo condizionata da autori come Jodoroswky che sono stati e rimangono un punto di riferimento notevole della mia formazione.
Manca l'asciutezza,quindi anche i tempi del racconto, cosa che incide sulla lezione che si vorrebbe infliggere rapida rapida alla presa di coscienza di un determinato suicidio di classe, anzi di classi/ceti/mestieri e professioni etc, che ha portato alla situazione attuale eclatante (anche per essere cavalcata sfruttata da u punto di vista mediatico dove tutto fa brodo) .
Manca anche la conoscenza sia per empatia sia per compenetrazione, sia per esperienza diretta e indiretta del linguaggio usato dagli "ap_pesi" di cui al racconto.Vedi esempio " parking".Mi spiego. In azienda, perlomeno su suolo italiano, tutto ciò che finisce per "ing", compreso chi inizia per ing ed è l'ingegnere, non è visto di buon occhio, anzi proprio escluso soprattutto nel linguaggio franco(come quello del protagonista iniziale e il suo tormento) da una classe medio bassa o alta, dirigenti compresi(i dirigenti a loro volta in parte casta, in parte alienati come gli altri sottoposti allo stesso ciclo di distruzione)...ridotti ad unica alienazione in un unico blob di super-microcompetenze, competenze da cui peraltro estraniati. Nel caso concreto è la contabilità da cui vengono estraniati gli stessi contabili, ma gli esempi da vero e proprio sotto o infra proletariato del lavoro sono infiniti a seconda dei settori, compresi quelli scientifici.
quetsa era "la cosa" che doveva essere meglio messa in luce se il racconto voleva analizzare e colpire il processo di alienazione peggiore rispetto ai primi cicli industriali legati piu alla fabbrica o settori economici a larga popolazione tuta, operaia, così come l'aveva analizzata Marx , autore che credo sia di riferimento per questo racconto o per "la scrittrice" di questo racconto. Questo inoltre non è cinico, è sadico , cioè contiene quasi un atteggiamento di disprezzo per chi non ha visto prima quale sarebbe stata la sua fine. Inoltre non analizza tutte le motivazioni,intendo anche quelle extralavorative, che hanno determinato altri vuoti.Forse mi condizionano sia per il primo gruppo di motivazioni alienazione che per il secondo, esperienze ovviamente indirette sui suicidi, anche nel posto di lavoro o fuori, senza nemmeno cercarsi un albero, ma è meglio che non mi ci inoltri altrimenti arriverei allo scontro sia sul piano esistenziale che sul piano politico.
E' interessante invece la conclusione poichè altre parti del racconto,forse per voler essere terapeutiche finiscono per essere sconclusionate rispetto alla lucidità difficile da cogliere ( credo per chiunque anche il piu grande scrittore, compresi quelli dell'elogio della morte e il suo sollievo) del circuito improvviso e molto lucido che determina il piano verso il vuoto. Onesto il fatto da parte della scrittrice di non saper raccontare quali le strade verso cui si avvia il risorto.
Rimane però la frattura fra chi scrive e chi legge, si fa profonda come se la prima si facesse al posto di un dio da un parte e i suoi burrattini/lettori dall'altra a cui imporre di girare pagina senza poi proporre il come, questo sia per un problema di segni/linguaggio, sia per un problema di strade/contenuti . ho sentito peraltro anche un'altra frattura, o meglio incoerenza, nei richiami alla terra/natura /alberi, che non mi sarei mai aspettata da Rita..ma sicuramente è mia responsabilità/ignoranza, non aver capito( e indagato) nulla del suo vero rapporto con la natura, limitandomi a un'impressione superficiale per la quale vista la sua forte componente ideologica credevo fosse esclusa come ingrediente troppo romantico. Peraltro occorrerebbe un'indagine approfondita sul sistema "antico", o da antico "villaggio" scelto da Rita per il suicidio terapeutico del suo racconto, di intere "classi" svuotate e consegnate pertanto al vuoto già prima che scelgano di rafforzarlo o prenderne atto o certificarlo, negli atti che conosciamo della cronaca.
Nella realtà "la percezione" anche alchemica per il controllo sociale voluto dall'alto, è affidata al fuoco; le fredde statistiche dicono altro, mentre il racconto di Rita, non so se da lei voluto o meno, se rileggendo voluto solo dalla "lettrice" accenna a un'altra valenza dell'a_ppeso nella magia finale a segno di una strada discesa ascesa, quasi da tarocco, o comunque quasi da film, quasi stile kubrick e a.i. nella scena dei rottami dei brandelli di metallo che si parlano con la consapevolezza di essere stati sfruttati come pro-tesi di "uomini" molto piu meccanici in quanto padroni con la licenza esclusiva di vita e morte-rottamazione delle protesi stesse.
@Ennio: mi sembra una buona idea.
@Rita: partendo dal concetto che la forma racconto ha delle peculiarità stringenti, ovvero che "nascita, vita e morte" devono avvenire in uno spazio ristretto (quindi teoricamente più consono al poeta che al romanziere), poco favorevole alle digressioni, solo un'annotazione di forma narrativa, detta in tutta franchezza: in questo racconto non accade "davvero" nulla. Tutto è raccontato, dettagliatamente, dal narratore. I sentimenti, i pensieri, le pochissime azioni, le digressioni di carattere sociologico. Tutto. Con minuzia, direi rasentante la pedanteria. Sorpendente da parte di Rita, una poetessa, quindi abituata alla sintesi, al "non detto", all'idea che possa esistere un "sottotesto", etc. Il protagonista non riesce a respirare, a prendere vita, a emanciparsi dal proprio creatore. Non nasce (quindi, di conseguenza, non può morire...), e non va oltre la condizione di "creatura letteraria" del proprio autore.
Il tocco di "realismo magico" (l'ippocastano fiorito fuori stagione) e il "coup de théatre" metaletterario finale, a mio avviso non risollevano l'esito del racconto.
Un caro saluto,
Flavio
Rita Simonitto
Grazie a Ennio per avermi dato la possibilità di fare questo ‘esperimento’ e grazie anche ai commentatori per la loro pazienza e per gli spunti che mi hanno fornito. Esperimento che, trattandosi di piccolo racconto, si presta meglio al confronto fra lo scrittore e la sua scrittura, che non può abusare troppo del ‘non detto’, del ‘sottotesto’, cosa che è più facile fare in poesia.
Sono pienamente d’accordo con i rilievi fatti alla forma: *la minuzia che rasenta quasi la pedanteria* (Flavio) e *manca l’asciuttezza e quindi anche i tempi del racconto* (In soffitta).
E’ che, per me, scrivere è ANCHE strumento per pensare, de-scrivere il mio essere nel mondo (il lavoro, le relazioni) e, a seguito, partecipare in modo sufficientemente chiaro e non enigmatico,‘pensare-con’ (o *con-pensare* come dice Rò); quando scrivo *non parto quindi da una *lezione che si vorrebbe infliggere rapida, rapida*, né da un progetto dimostrativo *questa era "la cosa" che doveva essere meglio messa in luce se il racconto voleva analizzare e colpire il processo di alienazione peggiore rispetto ai primi cicli industriali legati più alla fabbrica o settori*. Non c’è un intendimento che, forse, si verrà a scoprire in seguito e anche con un certo stupore perché la nottola di Minerva (la conoscenza) appare alla fine del giorno, a giochi fatti. Non c’è nessun sadismo in ciò (*è sadico , cioè contiene quasi un atteggiamento di disprezzo per chi non ha visto prima quale sarebbe stata la sua fine*). Anche la scrittrice è stupita della domanda della lettrice. Fra l’altro, questo racconto era stato scritto due anni fa, ben prima della ecatombe di suicidi, e davvero una lettrice mi ‘accusò’ di essere stata crudele nel portare il protagonista alla morte. A seguito di quella‘accusa’, il testo si è rimesso in moto per un altro finale (oltretutto non volevo fare la fine dello scrittore nel film “Misery non deve morire”). ‘Finale’ in cui inclusi il fatto ‘reale’ accaduto, e cioè il dialogo mio con la lettrice.
‘In soffitta’ dice: * Rimane però la frattura fra chi scrive e chi legge, si fa profonda come se la prima si facesse al posto di un dio da un parte e i suoi burattini/lettori dall'altra a cui imporre di girare pagina*.
La scrittrice non sa proprio quali siano le pagine che il protagonista deve girare, l’importante è che, per farlo, si deve rimanere in vita. Ma rimanere in vita significa smettere di ruminare ossessivamente: spezzare il circolo vizioso. Anche nel tra-collo c’è un filo che bisogna raccogliere.
Da lì potrà iniziare una nuova storia che non si sa. La mia, è finita lì.
Flavio, giustamente, sostiene che *in questo racconto non accade "davvero" nulla. Tutto è raccontato, dettagliatamente, dal narratore […] Il protagonista non riesce a respirare, a prendere vita, a emanciparsi dal proprio creatore*.
Il fatto è che, trattandosi di un personaggio ‘ossessivo’, nulla può e deve accadere. Non c’è vita in cui si respiri perché così è la vita di chi è vincolato dagli schemi che lui stesso (cioè *il proprio creatore*) si è dato e ai quali non si può rinunciare. Il pensiero ‘magico’, la confusione tra l’impossibile e l’improbabile, o la cata-strofe sono le vie di fuga dall’oppressione di quel clima, a meno che… non intervenga un caso fortuito.
E’ però importante che il lettore percepisca quel non ‘accadere’ come la cifra del personaggio a cui la stessa scrittura si piega. Ma anche la scrittrice è lo strumento per far recepire quanto sia ‘vuota’ la ‘falsa’ problematicità di chi gira su se stesso. Che poi la scrittrice non sia all’altezza di farlo (e di sicuro io non lo sono) e impasticci le cose, questo è un altro paio di maniche.
A partire da quanto dice Flavio, *e non va oltre la condizione di "creatura letteraria" del proprio autore*, mi chiedo quanto non sia anche lo scrittore ad essere ‘prigioniero inconsapevole’ del personaggio cui dà vita. E quanto queste ‘prigioni’ condizionino la resa letteraria se non vengono riconosciute.
Cari saluti.
... ma per tutti fu come morto, dal momento che nessuno ne seppe più nulla. Vorrei ma non posso commentare questo racconto perché tratta un tema che va oltre la cronaca dei recenti suicidi. Magari avrei tagliato di sana pianta tutto l'inizio dialogante per dedicarmi alla narrazione dei fatti, e ci sta il cambio di sguardo sul lettore, solo che lo coinvolge sul finale triste o lieto e si va nella commedia.
Che pensi?
Al suicidio che stanca meno del parlar di morte. Io non riesco a stare nel racconto. Quindi per me è riuscito.
mayoor
voglio ringraziare Rita per essersi confrontata con i suoi lettori, sia come scrittrice, sia come lettrice, sia soprattutto fuori dai ruoli. molto importante inoltre "il come" da lei scelto per il confronto, che non era semplice viste le considerazioni non proprio leggere che sia io che poi Flavio gli avevamo sollevato.
non sono d'accordo con l'intervento di Mayoor , non perché non intuisca l'importanza dei temi che ha sollevato, ma perchè ritengo cruciale la valenza doppia del racconto di Rita, sia sul piano esistenziale che su quello politico...la comunicazione nel corpo , del corpo, che sceglie il suicidio è cosa antica ma anche nuova, inoltre tutta la cronaca attuale era già stabilita negli anni precedenti..scavando potremmo vedere profeti dei crolli attuali , che hanno impatto sia sul piano della vita extralavorativa che lavorativa. La insostenibile pesantezza delle emozioni , modificate così come da disegno dei poteri antiuomo, determina tutta uan serie di comportamenti che sono gia suicidio prima di farsi fuori , prima che si appelsi strictu sensu nelle cronache. Basta pensare a tutti quei ragazzini o quasi adulti, che lo tentano o metton in atto, per essere stati mollati o per un rimprovero sul rendimento scolastico.
Forse questo esperimento se Rita vorrà, e così anche Ennio, potrebbe diventare nel tempo un esperimento nell'esperimento di scrittura plurale, in cui letteralmente da un'idea di Rita si possa scrivere a più mani, il tema è centrale al passato in un modo e al presente in un altro, strettamente collegato.
un caro saluto a Rita e a tutti.
rò
ec
le avevamo sollevato
"... fratello suicida / fratello dolce come il miele invecchiato nella credenza e bello come un cavallo / imperiale. Volevo soffiare bolle di sapone alla sua finestra invece / di fargli una telefonata, ma le bolle se ne volavano via. / Servirebbe una magia che non conosco, un faro diurno pulsante/ un albero di gomma elastica, un grido di protesta melodico, una vittoria."
Dalla poesia "Certi ragazzi".
mayoor
"Il fatto è che, trattandosi di un personaggio ‘ossessivo’, nulla può e deve accadere. Non c’è vita in cui si respiri perché così è la vita di chi è vincolato dagli schemi che lui stesso (cioè *il proprio creatore*) si è dato e ai quali non si può rinunciare."
Cara Rita, grazie per la cortese risposta, vorrei solo aggiungere: 1) anche un personaggio ossessivo vive, perfino chi è rinchiuso in un polmone d'acciaio o in una cella o in un convento di clausura vivono. Sta a chi si prende la briga di metterli in scena di dargli vita.
2)Il rapporto fra creatore (autore), narratore e personaggi è quanto mai complesso. Una regola a cui ci si dovrebbe attenere è non fare confusione fra tali ruoli.
Un caro saluto
Flavio
Posta un commento