mercoledì 29 agosto 2012

Flavio Villani
Il canto di Semmelweis



Le mani… Lavarsi le mani. Una fra le tante azioni fisiche che ogni giorno mettiamo in pratica quasi automaticamente. Il più delle volte ce ne dimentichiamo subito dopo. Irrilevante, si direbbe. Eppure…

Le mani costituiscono l’interfaccia fra noi e il mondo. Nel bene e nel male. Attraverso le mani facciamo esperienza. Di noi stessi, degli altri. Stringiamo amicizie, ci difendiamo e offendiamo. Acquisiamo e trasmettiamo “sostanze” invisibili. Milioni di germi colonizzano le nostre dita. Può sembrare cosa scontata, ma ancora oggi l’igiene delle mani è considerata momento fondamentale nella prevenzione delle infezioni, almeno, secondo l’OMS[1], [2]. Ma non possiamo considerare l’atto di lavarsi le mani dal solo punto di vista igienico: di cosa ci liberiamo con quell’atto? Da cosa prendiamo le distanze quando pronunciamo, magari stizziti, il fatidico “me ne lavo le mani”?
Una normale e per lo più lodevole azione/pulsione si può trasformare in compulsione rituale, sequenza motoria stereotipata, forse necessaria ad attenuare ansie altrimenti incoercibili[3], [4].


Ponzio Pilato affonda le mani nel catino pieno d’acqua di fronte alla folla in tumulto: già agli occhi della turba di duemila anni fa quell’azione doveva avere un forte impatto simbolico. Pilato lo sapeva bene, ma certo non poteva immaginare le conseguenze a lungo termine di tale atto. Per la cristianità l’acqua si è tinta di rosso. Il nome del prefetto di Tiberio in Giudea viene riverberato nei secoli dei secoli da quella singola azione, anche se noi, magari meno tragicamente, facciamo più o meno lo stesso, metaforicamente parlando, ogni giorno, e spesso senza neppure rendercene conto.

È dalle mani, e dalla semplicissima azione di lavarle che inizia la storia tragica di Ignazio Filippo Semmelweis, il medico, ungherese di Buda emigrato a Vienna, che intuì la modalità di trasmissione della febbre puerperale[5], principale causa di morte fra le donne che avevano appena partorito in ospedale. La malattia uccideva fra il 10 e il 15% delle puerpere (con vette fino a un caso ogni 5 parti!), con differenze eclatanti fra le diverse cliniche ostetriche, come per esempio quelle dei professori Barcht e Kline presso l’”Ospizio Generale”, a Vienna: nella prima, la mortalità puerperale, pur sempre elevata, non raggiungeva le vette da macello della seconda. La differenza fra le due? Da Barcht l’assistenza al parto era effettuata da ostetriche mentre presso la clinica di Kline da medici e studenti di medicina.
Semmelweis intuì che in buona parte dei casi erano le mani dei medici e degli studenti appena usciti dalle sale anatomiche a trasmettere, attraverso il contatto con i genitali delle partorienti, quel “qualcosa” che acquisito dai tessuti cadaverici doveva essere alla base della malattia[6], [7].

Le ostetriche di Barcht non avevano infatti accesso alla sala anatomica.

La batteriologia era ancora di là da venire: per scoprire la causa di tutte quelle morti ci volevano il genio di Pasteur e gli studi di Joseph Lister sull’antisepsi in chirurgia, diversi anni dopo[8].

E le donne povere che per necessità dovevano partorire presso l’”Ospizio Generale” continuarono a morire nonostante l’intuizione di Semmelweis. Ecco perché chi aveva le possibilità economiche preferiva partorire in casa o, all’estremo opposto, per strada, lontano da quelle mani. Perfino lì le chance di sopravvivere erano maggiori che in ospedale. E le donne lo sapevano, spesso opponendosi tenacemente al ricovero presso le cliniche ostetriche.
Era la metà dell’800. Nemmeno due secoli fa. Alle porte del ’48, per la precisione. Con tutte le conseguenze del caso. Quanto era necessario il cambiamento, la sovversione dell’ordine costituito? Le idee, nonostante i lumi, ancora piegate a una visione del mondo rigida, gerarchica, indiscutibile. Anzi, paradossalmente, in questa storia è la gerarchia “scientifica” a condannare l’intuizione apparentemente “a-scientifica” di Semmelweis. Palese dimostrazione che quando le basi del pensiero sono sbagliate, l’”oggettività” scientifica può diventare alibi e strumento del pensiero dominante, facendosi complice delle peggiori nefandezze. E ad ulteriore dimostrazione della mancanza di “purezza” in certe prese di posizione, ecco la voce secondo la quale l’avversione nei confronti di Semmelweis aveva anche natura politica, essendo il professor Kline un “ardente monarchico” mentre Semmelweis aveva forti simpatie repubblicane[9].

Semmelweis però aveva solo intuito la modalità di trasmissione, non aveva scoperto la causa dell’infezione, e oltretutto era privo di strumenti statistici. Non fu pertanto in grado di dare una dimostrazione “scientifica” di ciò che andava dicendo sempre più disperatamente. Fu considerato un pazzo visionario, incapace di adeguarsi al “metodo” scientifico. I colleghi si rifiutarono di applicare la sua prescrizione di lavarsi le mani prima di entrare in sala parto. Ritenevano tale azione “poco dignitosa”, come se avvicinarsi con mani sozze a chi stava per donare la vita fosse azione piena di dignità. Il fatto (indiscutibile) è che nel periodo in cui il lavaggio delle mani fu applicato con continuità presso la clinica di Kline la mortalità passò da una media del 10% a non più dell’1%, valori simili a quelli riscontrati – sembra incredibile – nel secolo precedente, prima dell’introduzione dell’anatomia patologica negli ospedali. Nonostante ciò Semmelweis fu isolato. Additato. Il lavaggio delle mani interrotto. Lui definitivamente allontanato dalla clinica ostetrica. Alla fine morì, colmo della tragedia, a soli 47 anni in un manicomio, della stessa malattia di quelle donne (setticemia), forse iniziata dalle ferite conseguenti alle “cure” subite in quello stesso manicomio.

Quante vite avrebbe potuto salvare nell’attesa di Pasteur quell’azione banale al punto da diventare pressoché irrilevante nel nostro bilancio giornaliero?

Un altro visionario, Louis Ferdinand Céline, poco meno di un secolo dopo, intuì la portata di quella storia, il suo valore umano e simbolico, e la raccontò nella sua tesi di laurea in medicina[10]. C’è già in quell’opera il germe dei temi e delle modalità narrative che caratterizzano l’opera di Céline (oltre, dobbiamo ammetterlo, ad una malcelata tendenza verso iperboliche modificazioni della realtà a proprio uso e consumo). Certo, non ancora nel pieno della loro potenza narrativa; ma è interessante seguire il percorso mentale dell’artista, che porterà in breve ad un’opera come il “Voyage”[11], apice della sua produzione narrativa.
Da questo scritto si percepisce chiaramente l’identificazione fra l’artista ribelle e il genio intuitivo di Semmelweis. Denominatore comune: il rifiuto dell’ordine costituito, il sentirsi accerchiato e rifiutato, l’odio per le gerarchie e le burocrazie, fonte primaria, secondo Céline, di ogni stupidità e di ogni male.
È drammatico e paradossale pensare all’adesione di Céline al nazismo: regime burocratico all’ennesima potenza, massima espressione di quella “banalità del male” che sembra essere l’obiettivo principale della critica insita nella parabola del “Dottor Semmelweis”. Una catastrofica cantonata che ben rappresenta Céline, uomo certamente contraddittorio, psicologicamente problematico, ma non sempre limpido nelle proprie prese di posizione. La frustrazione per il parziale insuccesso di “Mort à crédit” (per me assai meno sincero e più di maniera rispetto al “Voyage”), spostano il baricentro di Céline verso un estremismo sempre più esasperato, all’insegna di una volontà di “épater le bourgeois” ma anche di assecondare e vellicare il diffuso antisemitismo presente nella società francese (e non solo) dell’epoca, volontà funzionale alla ricerca di un successo finanziario e di pubblico che troverà con le ottime vendite del pamphlet “Bagatelles pour un massacre” (1937) (circa 75.000 copie vendute), ma che non bisserà con il successivo “L’école des cadavres” (1938), accolto con distacco dal pubblico e con un certo imbarazzo perfino negli ambienti antisemiti francesi per la presa di posizione nei confronti di Hitler e dei tedeschi[12]. E se “Bagatelles” va forse giudicato, in accordo con André Gide, poco credibile (tutto sommato un “gioco letterario”), una bagatella dunque, “L’école” è da prendere assai più seriamente costituendo il passo definitivo, politico, verso il punto di non ritorno rispetto alla valutazione che la posterità ha dato e darà nei confronti dell’uomo Céline, al di là dell’indubbio valore della sua opera letteraria nel complesso.
    
Ed è al lavoro di Céline che s’ispira il “Canto di Semmelweis”. Un racconto, scritto per il teatro, parte in versi parte in prosa, di cui sottopongo a Moltinpoesia alcuni estratti della parte in versi.


INTRO

Si sono svegliati
di buon mattino
 mentre
sotto, per strada,
oltre le finestre
spalancate,
nessuno ancora passa.

Tutto è pronto
a quanto pare:

la cameretta
(ne hanno parlato
fino a tardi
ieri sera)
 è
del colore giusto
(rosa/azzurro, dipende
dal sesso, ovviamente),
i vestitini piegati
nei cassetti
bene ordinati,
i quadretti divertenti
appesi alle pareti
finalmente.

Lei dice: ho fatto avanti
indietro
fra il letto e il bagno,
tutta la notte,

ti sei accorto?

Ora c’è del sangue
sulla bianca porcellana,
una chiazza rossa
sola
che lenta cola 
nell’acqua si scolora.

La pancia è tesa,
lento
lento il dolore
viene
e va
ancora lieve
troppo lieve
per suggerire
una qualunque
verità.

Sprofondano le pupille
nelle orbite
mentre
si chiedono che fare
(nulla sanno
di queste cose,
ed è normale).

È pronta la valigia?
Prendo l’auto?,
ieri sera
l’ho lasciata nel parcheggio
poco distante.

Silenzio in strada,
il sole è caldo,
oggi forse è festa,
e
comunque
a ben guardare
qualunque giorno sia
la cameretta è pronta,
l’auto è nel parcheggio
in attesa
poco distante,
la Frauenklinik
sempre là,
in Bastiengasse al 36,
da casa di chilometri
suppergiù un paio,
dieci minuti se non
c’è fretta,
certo, andando piano.

L’auto la puoi portare
fin sulla porta,
attende una carrozzina
per non farti affaticare,
poi scivoli fra le stanze
luminose,
spinta senza scosse
fastidiose
da una nurse
proprio gentile,
e tutto è color pastello,
il mondo intero
è
color pastello,
per occhi stanchi
colori riposanti
davvero molto
molto
rilassanti.

Forse è il momento.
Forse.
Dicono.
Tutto è pronto,
per fortuna,
stanza, culla,
vestitini
cassetti
muri
perfino i pannolini.

Il sole è caldo,
le strade vuote,
qualcuno
potrebbe perfino credere
che è festa

festa
davvero.


L’Ospizio Generale non è distante…
cinque minuti, o poco più,
 ma senza fretta – certo,

certo, andando piano
piano.

I PADIGLIONI PER IL PARTO

All’Ospizio Generale giungono
partorienti a frotte
in giorni e notti
tutti uguali.

Due i padiglioni per il parto,
identici quanto opprimenti,   
s’innalzano
nel mezzo del giardino
dell’Ospizio Generale.

Dicono: sono luoghi da evitare,
solo donne perse
puttane reiette
poveracce per lo più
lì, proprio lì, finiscono
per partorire e subito morire.

Da una parte la clinica di Barcht
di fronte all’altra,
trenta passi o poco più,
quella di Kline:
ovunque il puzzo della morte
è forte,
ma da Kline
è
insopportabile.

Il fatto è noto a tutti,
ma nessuno, nessuno riesce a immaginare
né desidera sapere

perché

……………………………………

SEMMELWEIS

A ventotto anni solamente la soglia varcai
la soglia varcai dell’Ospizio Generale senza volerlo:

“esercita fra le donne – mi sussurrò una voce –
fra le donne partorienti, e non ti pentirai,
onori, gloria, poi un bel ritratto nell’atrio della clinica
a memoria imperitura
in mezzo a tutti gli altri,
ai confratelli”

credo non avessi scelta e, sono certo, neppure loro.
Era – ricordo bene – la fine del febbraio quarantasei.

Fu allora che persi i genitori, entrambi, e Vienna si trasformò in matrigna.
Fu allora che il fiato iniziò a mancarmi mentre dalla stanza lassù
nell’abbaino guardavo i tetti aguzzi, distesi all’infinito, della città.

Mi sentivo estraneo, rifiutato, l’accento? la faccia? chissà?
e io allora nulla accettavo di quel luogo, presentivo forse
ma non potevo, non potevo (chi potrebbe, in fondo?)
ribellarmi al mio destino.

Guardate ora il mio ritratto (nonostante tutto me l’hanno fatto):
devo confessare, ora mi riconosco ancora meno,
così confuso fra le tante ombre di quei medici famosi.
Guardate bene. Vedete? Con gli stessi baffi e favoriti, lo stesso
sguardo ispirato la stessa donna aperta
e
violata

violata da tutte quelle mani e da strumenti acuminati
sono uguale in fondo – non addossatemi la colpa –
sono uguale a tutti loro,

ai confratelli.


DIALOGO DELLA PARTORIENTE CON IL GUARDIANO

PARTORIENTE Per carità signore, aprite questa porta, non c’è più tempo, il bambino preme, da me pretende ciò che gli è dovuto.
GUARDIANO Signore…?! Ah donna, ma che dici?! Devi essere impazzita! Hai sbagliato, è alla clinica di Klin che devi andare. Di lì, vedi? Trenta passi o poco più. Bussa là, l’ora è scoccata, e questa porta per te rimarrà sbarrata.
P. Cos’hai in petto?! Non ti batte un cuore?!
Lo sanno tutti cosa c’è di là. (fra sé) Quale forma può avere il cuore di chi non ascolta la voce di chi sta per…
G. Ma che vuoi! Cosa ti rode, donna, in quella pancia?!
Un mostro? un ratto? Chi t’ha ingravidata, donna? Quale bestia t’ha penetrata? Di quale marcio seme t’ha riempita? Un marinaio sul lungofiume, certamente, per un coito contro un muro o in un antro muffo…
P. Lo sapete cosa m’aspetta, oltre la porta dove mi spedite
con tanta leggerezza?
G. Senti donna, io non so nulla di ‘ste faccende, faccio
solo ciò che mi è ordinato. Ora è da Kline che s’accettano le partorienti,
questi sono gli ordini, donna, vattene! non m’annoiare.
P. Guardami bene, uomo, guardami bene.
Ricorda questo viso misurato dalle lacrime. E i miei stracci,
e questa pancia tesa, tesa, e le mani raggrinzite dal freddo e dal lavoro.
Ricordati di me quando guarderai i tuoi figli…mentre il loro sonno veglierai d’innocenti.
G. Lascia perdere ‘ste cose, e non menar gramo. Stanne certa, mi ricorderò di te, e come potrei scordare chi è uguale ad altre mille? E mille e ancora mille ne ho viste bussare a questa porta, ed implorare. Mica mi commuovo, per voi, gentaglia.
E poi non è in mio potere fare ciò che chiedi, donna.
Non è mio l’arbitrio. Sono padrone di nulla, io, neppure di me stesso.
P. Dio mio, ora è sempre più forte, il mio ventre
si contrae come morso da cane con la rabbia, e il dolore si fa insopportabile, mi piega in due. Non posso fare un altro passo. E’ la fine…
G. Donna, consolati, lassù sarà migliore…nulla di personale, credimi, tu di là io di qua,
nulla di personale, è solo una fatalità.

Prega, prega almeno che sia maschio. Un bel maschietto da brefotrofio,
il sacrificio non sarà inutile del tutto, almeno sarà carne da macello,
per la conquista delle Indie o giù di lì.

… i miei errori perdona, Signoriddio, di peccatrice, risparmia, te ne prego,
la mia vita e l’innocente che porto in me.


Suona la campanella, prevedibile, al rintocco segue il prete
con il viatico
s’aggira come corvo per i corridoi bui di questa Casa.

Dopo, una visione: luce, e una porta s’aprirà nel cielo…


PRECETTI ANTICHI

Egli dunque conosce i precetti antichi:
chiunque
chiunque toccherà un cadavere
il proprio corpo dovrà lavare
e
immondo sarà fino alla sera.

Chiunque
chiunque trasporterà un cadavere
laverà le proprie vesti,
e
immondo sarà fino alla sera[13].

Allora –
portate via i corpi dal santuario!
Via! via!
Fuori!
fuori dal padiglione i corpi e le loro vesti.



VENEZIA[14]

Ha lasciato di Vienna l’orrido fulgore,
tanto netto da sembrare tagliente,
in cerca di quella pace che – quantunque scabra –
ogni clamore riporta all’essenziale.

Quando è successo? Quando il destino si è fatto finalmente chiaro?
Oggi, qui a Venezia, circondato da laguna morta,
tutto mi sembra così lontano: la giovinezza,
Budapest, i miei genitori. Vienna come l’ho vista
la prima volta,
una distesa infinita di tetti acuminati, sotto di me.

Purezza: questo è il mio destino?

Ora ricordo: Budapest a primavera è così allegra, piena di vita,
il profumo e la musica per strada. Mai, mai avrei immaginato,
quando correvo spensierato
da un ballo all’altro, che sarei giunto in questo luogo,
lugubre e di dolore – eppure 
eppure già allora non sapevo
distogliere lo sguardo dalla morte.

La nave dei folli ha mete imprevedibili:
senza possibile difesa, naufrago,
m’abbandona nell’immobile
laguna senza sbocco certo al mare.

Poco lontano dall’attracco, all’improvviso,
un barlume muta in bagliore cupo,
e San Giorgio raggelando  ammiro

vinto dal drago.







KOLLETCHKA[15]

caro,
caro,
caro medico sapiente,
dolcissimo uomo, amico
amico mio di sempre
anima degna di tutto
l’umano rispetto,
ho posato il mio sguardo
su di te un’ultima
volta, mentre ritto e pallido,
stavi presso
il tavolo di marmo:
allora non t’ho parlato,
e ora, troppo tardi,
me ne pento…

È finita, così, per una
semplice puntura:
la malattia è progredita
senza remissione:
infiammazione,
e ancora infiammazione,
febbre, e poi cancrena
insostenibile fetore.
Non c’è intercessione…no
nessuna possibile preghiera
a questo punto
potrà salvare la tua vita,

e tutte quelle donne, insieme a te…

per sempre.    


INTUIZIONE

Non esce certo dalla polvere
tanta sventura,
né germoglia dalla terra
questo dolore. Il dolore
che sento dentro le budella
e mi rovista. E’ l’uomo,
è l’uomo che genera le pene
che come scintille in alto
volano nella bocca scura
del camino.


Oggi gli occhi schiudo
nell’aria vana dell’alba grigia
su un solo fatto,
un solo fatto,
che istantaneo
improvviso nascente luminoso
per un istante,
un istante solo,
accecante,
accecante illumina la mente.
L’attimo che da sempre cerco
in questa epoca
morente.

…le mani, null’altro che le mani,
per semplice contatto ad infettare…


FOLLIA

Quell’uomo è pazzo!
Pazzo, dico, e pericoloso…
Uno straniero!
Accusare me! Il preferito
della corte. L’ostetrico
dei regnanti.
E’ pazzo! dico, uno straniero.
Cercare d’obbligarmi…
Mai immergerò le mani
in quella calce in
soluzione. Non è affatto
dignitoso, e poi perché?
tanto trambusto, tanta
agitazione?
Cosa si dirà di me se lo lascio
fare?
Io decido! La mia parola
è quella
se lo inchiodi bene in testa,
fatti suoi se non capisce. 

DEMONI

A 47 anni vive solo[16]. Non
sembra più neppure lui.
Invecchiato di vent’anni,
s’aggira cupo nella poca luce
della stamberga dove formiche,
formiche lunghe un dito
in file passeggiano sul pavimento.

Quali demoni?
Quali demoni si sono impossessati di lui?

Legioni...legioni.... [17]

Egli s’aggira, nudo,
fra le tombe come invasato.
E’ stato lapidato e dal villaggio
allontanato,

uomo disperato.

Ascolta quelle voci,
non tornare più
fra chi ti odia
con tanta devozione.

Quali altri soprusi
dovrà subire per convincersi
a partire?

Che qualcuno spinga
i porci nel dirupo!

così ricoperto di escrementi
certo non fai bella impressione.
Guardati! fai proprio compassione
semplice apprendista del dolore.


L’AGONIA

L’agonia durò tre settimane.
Ventuno giorni d’inferno
in terra,
la cancrena se lo mangia
brano a brano,
e così il fetore. Tre settimane
d’immagini terrifiche
davanti e dietro gli occhi,
moltitudini di voci dall’oltre-
Tomba.

Perché?
Perché tanta ingiustizia?

in questa vita.

Perché chi troppo
ama è oggetto di tanto
strazio?
Perché è l’innocente
destinato allo sterminio?

Esiste una giustizia ultra-
Terrena?
Questa è la risposta?
Questa è la menzogna?


IN MEMORIAM

E ora attende il suo destino:
arriva il tempo
della pace distesa finalmente
su ogni cosa,
l’assenza di mostri e fiori recisi,
il ritorno dell’inverno.

Ha sempre odiato
le primavere assolate
e i ciliegi in fiore, correre
nell’erba alta fra le colline
ondulate della gioventù.

Implora, ora, la lunga quiete,
il depositarsi della neve sulle strade
l’attutirsi dei rumori
l’incanutirsi delle chiome.

Tutto si mostrerà in una lontana
prospettiva.

Dimenticare il dolore:

tutto sarà un procedere diritto
un quieto
lasciare scorrere alle spalle
le ombre capricciose dello specchio.




[1] T. Pincock, P. Bernstein, S. Warthman, E. Holst. Bundling hand hygiene interventions and measurement to decrease health care-associated infections. American Journal of Infection Control 40 (2012) S18-S27

[2] H. Sax, B. Allegranzi, MN. Chraıti, J. Boyce, E. Larson, D. Pittet. The World Health Organization hand hygiene observation method. Am J Infect Control 2009; 37: 827-34

[3] Leckman JF, Grice DE, Boardman J, Zhang H, Vitale A, Bondi C, et al. Symptoms of obsessive-compulsive disorder. Am J Psychiatry. 1997;154(7):911-7.

[4] L.F. Fontenelle, M.V. Mendlowicz, M. Versiani. Clinical subtypes of obsessive-compulsive disorder based on the presence of checking and washing compulsions. Rev Bras Psiquiatr. 2005;27(3):201-7

[5] T.D. Noakes, J. Borresen, T. Hew-Butler, M.I. Lambert, E. Jordaan. Semmelweis and the aetiology of puerperal sepsis 160 years on: an historical review. Epidemiol. Infect. (2008), 136, 1–9

[6] I. Semmelweis. The Etiology, the Concept and the Prophylaxis of Childbed Fever (translated by Murphy
FP). Birmingham, AL, USA: The Classics of Medicine Library, 1981, 1–191.

[7] I. Semmelweis. The Etiology, Concept and Prophylaxis of Childbed Fever (translated by Codell Carter K). Madison, Wisconsin, USA: The University of Wisconsin Press, 1983, 1–263.
[8] B. Hurwitz, M. Dupree. Why celebrate Joseph Lister? The Lancet 379 (issue 9820), 2012, e39e40
[9] Waller J. Leaps in the Dark. The Making of Scientific Reputations. New York, USA: Oxford University Press, 2004, 1–292

[10] L.F. Céline. La vie et l’oeuvre de Philippe Ignace Semmelweis, Doctoral Thesis, 1924

[11] L.F. Céline. Voyage au bout de la nuit, Ed. Denoël & Steele, Paris, 1932
[12] P. Alméras. Céline. Entre haines et passion, Ed. R. Laffont, Paris, 1994
[13]            Levitico 11,15; 11,29
[14]            Semmelweis è stato spinto dagli amici a lasciare Vienna per un periodo di riposo a Venezia.
[15]            Professore di anatomia, amico di Semmelweis: si infetta attraverso una ferita che si è procurato durante una dissezione cadaverica. Dall’autopsia si può dedurre che il processo che lo porta a morte è del tutto simile a quello che caratterizza il decorso della febbre puerperale. L’intuizione di Semmelweis avviene proprio al suo ritorno da un viaggio a Venezia, effettuato per uscire da un clima di ossessione, dopo avere appreso i particolari della morte dell’amico e collega.
[16]            Ha lasciato Vienna, dove nessuno è in grado di sostenerlo. Un grave disturbo psichico si è reso ormai evidente.
[17]            Il riferimento è all’episodio dell’indemoniato geraseno (Luca 8, 26-39; Marco 5, 1-20).

13 commenti:

Francesca Diano ha detto...

Confesso che la lettura di questo testo mi ha fatto da una parte ribollire di rabbia e dall'altra affiorare le lacrime. Conoscevo la vicenda di Semmelweis, sia per averne letto che per un film-documentario molto bello che avevo visto in passato. Avevo pensato allora che a mettersi contro il Potere (medico in questo caso, ma anche politico) ci si perde sempre. Il Potere non accetta sconfitte e preferisce distruggere.

Prima di dire altro però, voglio mandare un abbraccio a Villani - mi sento di farlo - per la bellezza di questo testo, che mi piacerebbe tanto leggere per intero. Immagino sarà bellissima la rappresentazione teatrale. Ha i toni della tragedia greca nella sua spoglia bellezza. Ma dentro c'è una sapienza di scrittura e drammaturgica di grande spessore. C'è la tragedia dell'essere donne, e peggio povere, in una società in cui la vita non conta nulla. L'ottusità del potere di casta, terrorizzato dalla perdita dei propri privilegi. La luce scintillante del genio e dell'intuizione. La disperazione e la sofferenza dell'anima nel vedere trionfare la malafede e la morte, che tradiscono vergognosamente il giuramento di Ippocrate sull'amore per l'uomo e per la conoscenza. Il dolore fisico atroce, che distrugge il corpo come la disillusione aveva massacrato l'anima. Tutto questo esprime il testo di Villani.

Un'altra considerazione, molto amara, è come l'atteggiamento che ha impedito a Semmelweis di seguitare a salvare vite umane, non è cambiato nemmeno oggi. I mezzi e le modalità con cui viene messo in atto sono diversi, ma lo scopo e gli effetti sono gli stessi. La legge del Dio Profitto rende putrefatta la nostra società, e chi ne paga le conseguenze sono, come sempre, i deboli.
Un ringraziamento con tutto il cuore a Flavio Villani.

Anonimo ha detto...

Cara Francesca, grazie a te per la lettura di questo mio testo. Le tue parole mi fanno davvero molto piacere, a maggior ragione perché provengono da chi ama e conosce bene la letteratura (si percepisce in ogni tuo scritto...).
Mi porto dietro la storia di Semmelweis (e forse anche quella di Céline...) ormai da qualche anno. E' una storia paradigmatica, e mi ha insegnato molto. Come anche tu sottolinei, oggi, a distanza di quasi due secoli da quei fatti, non molto è cambiato. Lo spregio della vita umana è imperante, sempre e comunque a discapito dei più deboli. Si potrebbe, ad esempio, aprire il discorso su un altro autore che amo molto e che ha guardato lo stesso genere di orrore negli occhi: Roberto Bolano, e la strage delle donne di Ciudad de Juarez, un luogo quasi metafisico ai confini del mondo, ma così rappresentativo di questo nostro mondo, descritta nel romanzo 2666. In questo Céline aveva visto benissimo, con quell'intuito da grande artista che gli era proprio.
"Il Canto" è stato per me (e forse lo è ancora) un cantiere aperto, un "work in progress" senza fine. Molte scene sono state scritte e riscritte innumerevoli volte senza che mai riuscissi a convincermi a concludere il lavoro una volta per tutte, senza mai raggiungere la piena soddisfazione. Ho deciso di inviare questi estratti a Moltinpoesia proprio per cercare di mettere un punto fermo a questa storia, per convincermi che forse è davvero conclusa.
Grazie a Ennio per lo spazio che dà ad autori come me, fuori dal "main stream", e pertanto con scarse possibilità di farsi ascoltare.
Un caro saluto
Flavio

Francesca Diano ha detto...

Caro Flavio, non fatico a credere che un simile lavoro ti abbia preso - o divorato? - a tal punto. La portata di ciò che significa, anche in senso metaforico o, come dici, paradigmatico, è enorme per la sua vastità. Ciò che non sapevo era che Céline avesse fatto la sua tesi di laurea su Semmelweis ed è una cosa davvero interessante. Comunque, come sai, le società si difendono dalle grandi innovazioni, dalle menti geniali, perché tendono, checché se ne pensi, ad essere conservatrici, a non sovvertire lo status quo. Il che richiederebbe non solo una totale revisione delle conoscenze acquisite e cristallizzate, ma anche un sovvertimento dei poteri acquisiti. Dunque il genio, che tu sai meglio di me per ciò di cui ti occupi, è un'anomalia, quasi una devianza e non la regola, non ha mai avuto vita facile. E' un diverso e come tale sospetto e rigettato. In genere vede quello che gli altri non vedono, che vedranno solo molto più avanti.
Spero che tu riesca a mettere in scena il tuo "Canto". Mi piacerebbe leggerlo. Se ti va trovi la mia email sul mio blog, a cui arrivi cliccando qui sul mio nome e dove trovi scritto: Contatti.
Un caro saluto anche a te
Francesca

Anonimo ha detto...

Un lavoro che mi lascia commossa e seriamente avvinta aquesta scrittura così intensa, l'ingiustuzia e i sentimenti così proposti fanno di quest'opera un vero capolavoro. Mi unisco agli auguri di Francesca affinchè tu possa davvero metterlo in scena. Emy

Unknown ha detto...

Ciao Flavio, non ho molto da commentare, visto che il tema scienza e potere è terribilmente doloroso, anche in questa storia. Mi unisco quindi ai tuoi tormenti, riflessioni, impegno con particolare elogio all'essere stato capace di trasferire/creare dal dolore. Mi unisco inoltre alle considerazioni che ti ha fatto Francesca, quindi a Emy.ciao.rò

Anonimo ha detto...

@Rò! sì, il tema può essere "terribilmente doloroso", ma forse è meglio parlarne che no. Credo.
Ciao!
Flavio

Anonimo ha detto...

Grazie Emy, sei troppo gentile, ma la parola "capolavoro"...be', mi accontento di molto meno ;-)
Un caro saluto
Flavio

Unknown ha detto...

e' evidente che si caro Flavio, anzi necessario parlarne e parlarne ancora con tanti linguaggi/generi letterari compresi quelli molteplici da te scelti per quetsa tua opera(azione-operazione) perchè questo tipo di dolore nasce dalla solita e secolare detenzione del potere...scienza è potere da cui vengono esclusi gli stessi scienziati a mono che oltre un certo camice si mettano un altro grembiulino, entrino nello stesso consorzio (leggi circuito massonico), ormai sempre piu di facciata mediatica (vedi da un punto di vista medico,anche qui vicino a noi, le gabbie dorate dei tumori)

Anonimo ha detto...

Il dolore: è tema che coinvolge senza mediazione, altrimenti non sarebbe vero dolore. In questo tuo Canto di Semmelweis, il dolore si somma al male dell'ingiustizia, tanto che ho finito col portarmi dentro sentimenti a cui non so dare nemmeno un nome. Sono scelte difficili, che mi fanno pensare a Hermann Nitsch, a Gina Pane, artisti della Body Art. Anche in questo tuo ottimo lavoro, pur partendo da un'indagine documentata, che sa di investigazione giornalistica, si tenta con la poesia di effettuare un forte coinvolgimento emotivo, spesso l'unico che s'avvicini al reale, quello di allora e quello, forse, di sempre. I valori in campo si ribaltano: l'estetica va in secondo piano, arretra di un passo, si fa veicolo portatore di denuncia. Eppure è tutto ben scritto, come se incurante d'essere fuori dal tempo nel linguaggio che perfora la cronaca rivivendo, e facendo rivivere, il dramma al punto che diventa inevitabile scorgerne i segni anche nell'oggi. E i commenti qui sopra lo dimostrano ampiamente. Mi chiedo cosa ti porti a queste scelte, se l'odio per la violenza in tutte le sue forme, e in questo caso ne avresti/ne avremmo tutti da scrivere, oppure, e al contempo, per il bisogno anche introspettivo di fare pulizia fin dentro le radici... del male stesso voglio dire. In tutti i casi penso che la soluzione migliore sia proprio quella di sconfinare dalla lettura pensando alla rappresentazione, spazio in cui maggiormente il dolore può essere provato, visto, sopportato e condiviso, uscendone magari incazzati, ma illesi. Complimenti.
mayoor

Anonimo ha detto...

Caro Flavio,
grazie per il tuo " Canto".Hai saputo coniugare scienza e poesia con toni accusatori e dolorosi che mi hanno commosso.
Spero di leggere presto l'opera completa e di vederla rappresentata.
Anche oggi ,in tanti ambiti, in tanti luoghi ,l'ignoranza e l'assenza di pietà la fanno da padroni.
"Nulla è cambiato
il corpo trema,come tremava
prima e dopo la fondazione di Roma
........................
le torture c'erano e ci sono.."
W. Szymborska
Un saluto.
Maria Maddalena Monti

Anonimo ha detto...

@Mayoor: ognuno di noi ha una propria visione del mondo (poetica) che ossessivamente emerge in ogni scritto, tanto che alla fine hai l'impressione di avere scritto e di continuare a scrivere un unico grande lavoro. Lo capisci dopo un po', ma alla fine lo capisci.
@M.M.Monti: sono d'accordo con te e con la Szymborska. Forse la poesia aiuta a non diventare cinici, pur nella convinzione che sulla natura umana non si possa fare troppo affidamento.
Grazie ad ambedue per la lettura profonda e partecipata.
Un caro saluto
Flavio

Anonimo ha detto...

Sei molto gentile, Flavio. Il mio era un commento sgangherato che, potendo, avrei cancellato volentieri. Ma la tua saggia risposta ha messo le cose a posto. Grazie.
mayoor

Anonimo ha detto...

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