mercoledì 5 settembre 2012

Ennio Abate
Nove poesie
da "La polis che non c'è.
Straccetti, rodii, artigliate"
(raccolta inedita)

Tabea Nineo, In fuga, Lug. 2011

POESIA LUNGA DELLA CRISI LUNGHISSIMA

A Gianfranco La Grassa

che fare compagni/ di speranze raggrinzite?/

nella città si preparano non percepibili eventi/ dagli scantinati arrivano rumori di scalpelli/ e dopo pause allarmanti/schianti/ pavimenti immagino in disordine/ calcinacci/ assenze di mobilio/ e quanta industria culturale accolta in quei libri sparsi/ e negli opuscoli redatti su realtà provvisorie/ che ci convinsero a metà/ a tre quarti/ di sbieco/ conservati poi per scrupolo/ quando ancora c’illudevamo di sostituirli/ con dieci/ cento incontri/ spurgati dalle più equivoche passività/  lontani dal chiacchiericcio di via Vetere/ bandiera rossa/ sempre più stinta/ e penzoloni/ sotto le piogge lugubri/di inverni conclusi/ nei quali andarsene in giro ora/ traversando ancora la Milano guardata con sospetto e ira / in centinaia di cortei/ e ritrovar1a più immobile per noi/ che ci fingiamo estranei/ di passaggio/ e abbiamo occhi mollicci che più non prendono/ se non il chiacchiericcio testardo/ senza rigore/ dei pensionati/ e vorremmo ritelefonare/ ma non serve/ all’amico/ all’amica/ perduti di vista / ricontrollare distacchi/ inaridimenti/ sussulti di desideri affondati / inesplorate viltà/ sbrigative semplificazioni/

carte dell'affanno/ rimescolatevi!/

seguo ormai su radio e giornali/ la metamorfosi indisponente/ che si sporge/ in ansante cronachetta/ e annusamenti / d’un contorto elucubrare/ in cui pare che/ trapassando alla nuova fase/ (dicono così i più svegli/ i cinici a sufficienza/ ormai sfebbrati)/ sia stato partorito/ un pedestre giudizio universale/ con rantolare/ di pochissimi/ cadaverici personaggi/ o s'addensi/ nella quotidiana esistenza/ in tessitura fitta e veloce/ una pioggia/ di brevi/ bizzarri per lo più/ bisogni/ prima che il tergicristallo/(che chiamavamo storia) non li spiani/ impietoso/ per qualche giorno/ che si sa/ l'erba dei più arditi/ ricresce/ e resta sempre/ un triangolo d’ombra azzurra/ in cui s’accovaccia come bestia/l'attesa/ di far ruotare ancora noi/ ora così inesistenti/ i prismi delle nostre e altrui intelligenze e passioni/ in modo che un filo di luce/ assieme/ di nuovo strettamente/ visibilmente / le ricucia/ mentre invece il tergicristallo passa e ripassa/ e se pure insistono le gocce/ minuscole/ di cronaca  gelida/ si spiaccicano presto/ s’addossano languide/ se gonfie di passato/ scorrono/ illiquidendosi testarde/ e con loro ritornano/ preistorie insistenti/ impietose condanne/ a metafore naturalistiche/ traspaiono/ pesanti eredità/ /l’intellettuale scissione riemerge/ con mortuaria inponenza/ consumando le parole di storia/ ripiombando le classi/ in precipitato distacco/ nel fenomenico naturale/ nell'evoluzionistico broglio/ nel contagio d'inconsce ascendenza/ in miti/ di profondità intestinali/ in putrefatti ricordi/e così via scivolando/

non è contingenza/ dunque/

che estratti/ da questi anni tramortiti/ respirando e tossendo polvere di moda/ lontani dai cementosi piloni leninisti/ si torni ciascuno in zona esterrefatta/ o poetica/ a riconoscere  l’amputazione/ no/ non si riforma il partito/ delle luccicanti gocce/ sotto le plasticate sfoglie/ della città riciclata/ la calamita/ delle classi in lotta  ci agita/ ma in più convulsa limatura/ e schegge atomizzate/ di produzione e d'improduzione/ discorsi sfracellati/ filosofie annerite/ la gestualità quotidiana leggerisce/ barcolla/ soffia altro vento/ mulinella dunque?/ no/ ondulano come relitti sui mare/ in disordinati abissi/ altre molecole pesanti/ sospettiamo ristrutturazioni/ stupefacenti/ per noi attardati in dogmatici osservatori/ e la parola s'inceppa/ in gola/ o rotola stereotipata/ nei vialoni/ deserti adesso/ del flusso passato/ e le nostre esperienze/ diciamo/ se le diciamo/ in patetico/ anemico dialetto/

uno sputo catarroso/ il sessantotto/

non la calamita onniprensile/ che emergeva/ attraeva/ oggi si delira/ sotto puteolenti compromessi/ e su una montagna di surrealistica spazzatura/ famelici nouveaux philosophes/ rivendicano/ saccheggiano/ impacchettano/ quel nostro facile operaismo da pop-artisti della politica/ dimostratosi sterile lievito nelle fabbrichette di periferia/ e che ora in vaghi ghirigori viene offerto/ strenna drogata/ in mezzo a macerie/ recenti macerie/ e invece il campo è ormai tutto aperto/ a strategie incomprensibili/ dov’é la calamita?/escrescenze solamente/ delle classi in lotta/ dopo tanto sentir oscuro/ e pensar grigio/ in quest'ultimo anno/ il più ricco/ non per caso/ d'attentati/ solo un torpore/una pigrizia/ la rabbia/ e qualche intelligenza/ che ci volge indietro/ a un passato/ orecchiato sommerso/ sprofondato assieme/ alla gente magramente contadina/ con cui vivemmo/ acri giorni/ senza ribe11ioni / e si disegnano i profili di generazioni/ che si danno tremando la mano/ attraverso questo lungo/ difforme/ dopoguerra/ ne seguiamo il ricamo/  e le cuciture/ con affanno/ e scetticismo/ intaschiamo/ mormoranti e incerti / come monaci di fronte a resti/ di classicheggianti paganerie/ mentre fuori i barbari/ già si ritirano/ e nessuno capisce perché/ e si dice che torneranno/ e non si sa per fare che/ perché il passato/ si è ghiacciato/ è fantasma sfingico/ e nevrotizzati dai mass-media/ ottusamente / ci chiediamo: “sì, ma ora?"/e la  nuvola diacronica/ si risquarcia/ e appiattiti /diciamo diciamo/ "hai saputo?/ ascoltano Guccini/ s'occupano/ spendendo quel  poco/ di fotografia/ continuano logoranti riunioni/ s'imbarcano su navi sventurate/ oh Iolanda!/ s'iscrivono/amputati/ al PCI!/ criticano i tentativi/ di cambiare pelle/ programmano un dibattito/ raccolgono religiosamente/ sfoghi di sconfitta/ riprendono contatti/ lavorano nelle biblioteche/ s'iscrivono alle serali/  vanno all'università/ fanno un figlio/ si sposano/ trafficano nel sindacato/ tentano un giornaletto/ scrivono poesie/  si suicidano/ muoiono a San Vittore/ sparano a Roma/ fanno cose frivole/ e atroci /  rileggono di Carter e Andreotti/ ma non s'interrogano/ o s'interrogano/ troppo teneri/ troppo brumosi/ ma enorme/ s'agita il lenzuolo sporco/ dell'esperienza troncata/ che in luoghi separati cresceva/ e ora deperisce/ non frigge/ sfugge/ piatto elettrocardiogramma/ nello schifo/ di quotidiani e imposti amplessi con la periferia/ tra torme di giovani disoccupati/ accanto a scolorite intelligenze/ nelle latterie della rimasticatura/ sulle sodomizzanti catene di montaggio/  che vomitano/ vomitano/ e s’arrestano buie/ ronfando/

“che fare?”/dunque/

restare talpe/ sì/ perché/ di cielo/ a lungo/ non ne vedremo più/ riconoscersi in zona ambigua/ in zona infida/ nell’intrico di rapporti algosi/ nascondimenti tra le righe/ movimenti da amebe/ precoci invecchiamenti/ col grado implicito/ di inutilità/ ed errore/ anche delle nostre inimicizie/  spolverare il consapevole/ esplorare asfalti d'inconsapevolezza/  essere vigili controllori della sconfitta/ che  nessuna voglia di volantino/ e d’improvvisa teoria/ rabbercia/ galleggiare su un limaccioso proletariato/ rimuginare ancora/ sotto lampade di mezzanotte/ un pensiero acre/ sbozzolarlo/ in testardi interrogatori/ di oggetti/ case/ prezzi/ volti/ parole/ amici/ donne/ nemici/ gatti/ insetti/ erbe/ macchine/ morti /  scavare/ in cerca di odio intelligente / (tu dici fortini per maestro?”)/ accrescere l'esplorazione/ del tunnel inatteso/ temuto/ dove s'è udito/ come un colpo di morte/ arrivato di botto/ e poi spari ritmati dall'alto/ e si palpa sfacelo di cose/ disfarsi di generazioni/

sapremo ?/ dureremo?/

(24 gennaio 1978 / agosto 2012)



RAPIMENTO DI ALDO MORO

immensa/ incontrollabile/ dicono che è all’opera/ la “macchina dello Stato” / per rifarsi dello scacco inatteso/ se fosse efficace/avremmo meno da temere/ allo shok c’inchiodano/ i titoloni del Corsera/ che l’intelligenza fanno di pietra/ droga è l’efficienza dei brigatisti/  per attimi aggancia fantasmi passati e oscuri/ di giustizia e vendetta assieme/ fantasmi nostri + fantasmi televisivi/ il gioco è fatto/ scomparsa della realtà/ quanto studio sul luogo prescelto/ e i telefoni della zona bloccati/ e l’ondata di notizie false/ e il fioraio che trova bucate le ruote del suo furgone/ e il berretto blu con visiera/ gli ottanta bossoli di proiettili calibro nove/ se tutti veri i fatti/ dove/ in quale oscuro Olimpo/ sono stati preparati?/ e noi quanto da esso distanti?/ “Uno che ha capito” scrive Fortebraccio/  e parallela  a quella dei terroristi mostri/ spunta la leggenda di  sant’Aldo Moro martire/ politico che con delicatezza e riguardo/ lottava/ e con malinconia profonda/ e segreta solidarietà/ a milioni costretti all’ovvio repubblicano/ soli esclusi quei “raggruppamenti mascherati sotto vari nomi”/ noi dentro di sicuro/ noi non credenti al miracolo/ detto “straordinario sussulto democratico” che/ BR ringraziando/ salderebbe “Paese reale e Paese legale”/ noi zitti in piazza/ mentre De Carlini vaneggia/ infilando in ideale trinità/ Matteotti Togliatti e Moro/ di fronte alle truppe finalmente gongolanti dei ciellini/PCI/ non una virgola in più di Cossiga/ si fa Stato/così

(17 marzo 1978)




Cielo scuro pesantissimo nuvolone.
Pioggia sulla città.
E se durasse mesi ininterrottamente?
E non volesse più andar via.
E fulminassero tutte le lampadine
(accese per rischiararlo il buio funesto).
E noi chiudessimo gli occhi per non vederlo.
E i cani abbaiassero senza più sentire i pericoli.
E le porte sbattessero in continuazione per un cieco vento.
E le piante - non più nostre perché ne dimenticheremmo presto
le forme continuassero a crescere fin nel buio delle case.

(17 giugno 1978)


DATTILOGRAFICA TORRE

questo chicchirichì
di gallo ch'io
distinguo/fioco/fra 
fruscii meccanici di
motori/e questo so-
gno /(due fratelli in
cammino sul ciglio
di un burrone/uno che
procede spedito/ed
è subito in basso/al
sicuro,/l'altro inve-
ce barcollante/sul
viscido manto d'erba/
s'aggrappa ad un uli-
vo contorto o altro
albero storto/pian-
tato proprio là/sul-
l'estremo ciglio/
e guarda/l’abisso 
che  così facilmente
(pensa) quasi tutti
normalmente discendo-
no/ e guarda vicinis-
sime/ le sue mani in-
debolite mollare la
presa/ son momenti
che potrei lasciar per-
dere/ o prendere ap-
pena sul serio,/ spun-
ti per una poesia (che
ormai é cosa fatta!)/
e d'una particolare
presentazione gra-
fica/ d'uno scritto-
re impietrito sulla
sua olivetti studio
44/ che, voi lettori
avrete adocchiato già
prima di leggere/-
costruttore di questo
 muro di parole-mat-
toni/ grafica torre/
oh steimberg!/ che
                   lo  rinchiuderà














16 set. 1979)



SULLE RESISTENZE DI IERI E DI OGGI

Sentinelle appostate su garitte lucenti freddarono il sogno
di noi servi. Smemorati e divaganti omini occidentali
fingono di non sapere se il carbonizzato sgorbio
rimasto sul pavimento della storia sia di miti bestie
macellate in autunno o d’umanità nostre percosse e torturate.

O mente nostra, provaci, indagalo tu quel grumo di cervici divelte, di muschi
d’organi torcigli di visceri e stracci! Ché in tali carni martoriate
il sogno agì! Estraile dal freezer televisivo. Ripuliscine i resti  dalla bava
d’angoscia. Stendi  un verbale. Passalo a nuove menti e nuovi corpi.

Storpiandone la lingua impareranno a leggerlo e a resistere. Forse.

(1983/25 aprile 2009/2012)



L’ALBERO

Non fate morire quell’albero gramo
che nella mente matura ribelli semi vermigli.
Ambascia ci porta, ma insieme pensieri
tolti alla morte. E carezze al futuro.

L’ombra di lui mitoleggia nel tutto del mondo
e palpita in brio in brina al buio, fra lugubri tonfi d’eventi.
O sta nel bianco solitario, slimitato, potato dal logico gioco.

La sua radice non dice più a che ramo conduce
ma, solo per lui, puliti miti oscuri nostri gemelli
ancora vanno, operosi su incerti sentieri;
e accendono luci tutto tatto nelle celle cupe della sera
dove ondula, austera, minacciosa, la biblica mela.

Lo scriba, arrestato da immoti dolosi discorsi
descrive a stento un suo calco, che subito
stinge e s’addossa al buio.

L’albero gli sfugge in traballanti visioni
freme negli scarabocchi, sviene in canti alti;
né nenia l’intrattiene. Per terra finito
sotterra, lui pure interrato, sotto messo
da morte atterrito vien dato da molti
che  volentieri o furenti colmano per finta
la poderosa fossa da lui ereditata
di gioie più prossime, minuscoli affetti
e stenti sentimenti senza sementi.

Ma l’albero svetta là, sulla strada dimenticata.
Orrido non è. Alle belle onde non cede.
Non gocciola spiccioli d’imposti doveri.
Dà dolore vero. Poiché innalza il conflitto
sconfitto, scorcia il nostro sgomento
e fermo a quello lo ritorce.

(2002)





SU LE MONDE DIPLOMATIQUE/IL MANIFESTO NOVEMBRE 2004

E se il poeta oggidì dei mercenari
in Irak addetti agli assassinii «sporchi» s’occupasse?

Si rivedrebbe ragazzotto, sguardo perso,
sulle illustrazioni di Giovanni Acuto[1]
o del corroso bronzo del Gattamelata?[2]

Rifletterebbe su come l’amor suo per arte e bellezza
già allora gli celava il basamento di morti e luttuosi eventi
su cui poggia la bella forma del cavallo immobile avanzante
col suo eretto condottiero?

Collegherebbe l’orecchiato mito -  ah, le compagnie di ventura ! -
alle smp,[3] pedine «esternalizzate» dei grandi eserciti
globali, risparmiatori  e stipulatori di  contratti
in Colombia, in Africa, in Irak?

Bello privatizzare eh, Madama Dorè?
E sguinzagliare brutti ceffi a bassa intensità
per villaggi, foreste o assolate stradine mediorientali?



[1] John Hawkwood, italianizzato in Giovanni Acuto (1320- 1394) fu un condottiero inglese.
[2] Erasmo da Narni, detto Gattamelata (1370 - 1394) fu un condottiero italiano.
[3] Sigla per società militari private.




SAMIZDAT IN MORTE DI CESARE SOMMARIVA[1] PRETE OPERAIO


Un giorno trasparente per venti furiosi, dall’alto del Quartiere Stella 
indicavi al tuo arcivescovo[2]  le ondate vaste dei tetti di periferia.
Un demone l’ha fatta, v’impera. Gli oppressi liberandosi
la ricostruiranno più giusta, pare gli dicesti.

Anni prima. Sempre lì. Assalti di piogge nebbie e nevi
- pochi alberi  rimasti a respirarle - e liti e ragionamenti
di genitori intontiti di fabbrica (ma non più questuanti).
Un gruppoperaistudenti arrangiò una scuola materna,
dove tra palazzacci, sterpi e fossi di pattume, poco giocando,
molto reprimendo, crebbero i figli.
Degli stessi scarti umani del Miraggio fummo compagni.
Noi, discendenti di briganti. Voi, cristiani d’una nuova Pataria[3].  

Poi, solo uccisioni e compromessi. Cesare
– allora ti dissi –  in quartiere resti solo tu.
Hai catacombe per continuare. Noi, nulla dal gelo  ci ripara più.
Tieniti queste carte, reliquie del nostro fare e delle sue dolenze.
Conservane, se puoi, lo zolfo nell’archivio della tua cristiana storia. 
 
Oggi, dinanzi all’orizzontale scultura della tua salma biancovestita 
- stola rossa, dita serrate sul rosario, testa di bruno legno -
aggiungo a quelle un’ultima postilla: «La congiura riprenderà».



[1] Cesare Sommaria era nato da una ricca famiglia lombarda. Divenuto sacerdote, fu amico di don Lorenzo Milani e riportò in modi propri l’esperienza d’insegnamento della scuola di Barbiana nelle periferie di Milano, fondando negli anni Settanta la Scuola popolare per adulti nella zona di Crescenzago. Scelse poi di essere prete operaio alla Redaelli di Rogoredo e quell’esperienza narrò nel suo le due morali (1986). Fu attivo in Salvador dove si curò dei bambini in una parrocchia. Tornato dal Salvador, ha vissuto gli ultimi anni malato e appartato.
[2] Carlo Maria Martini, arcivescovo di Milano dal 1979 al 2002 e poi cardinale.
[3] Pataria. Movimento politico-religioso sorto a Milano nella seconda metà dell’XI secolo con l’obiettivo di combattere la corruzione dell’alto clero, in particolare la simonia e il concubinato.

(aprile 2008/maggio 2012)





MARZO 1821 - MARZO 2011

«Fra un secolo si immaginerà che in questa nostra Assemblea, mentre si discuteva sulla nuova costituzione repubblicana, seduti su questi scranni non siamo stati noi, uomini effimeri, di cui i nomi saranno cancellati e dimenticati, ma sia stato un popolo di morti, di quei morti che noi conosciamo ad uno ad uno, caduti nelle nostre file nelle prigioni e sui patiboli, sui monti e nelle pianure, nelle steppe russe e nelle sabbie africane, nei mari e nei deserti, da Matteotti a Rosselli, da Amendola a Gramsci, fino ai giovanetti partigiani »

(da un discorso di Pietro Calamandrei all’Assemblea Costituente nel 1947)


Cancella, o Marcella[1] la Libia, stantio pane nostro  televisivo.
Le facce belle di uomini e bambine ridevano per noi
(ma anche di noi)  nell’attimo delle foto.
Poi nelle notti tremarono, urlarono, disfatte tra le macerie.

[«L'ultimo è il W-80 3, utilizzato,  a quanto pare, anche come carico
per i moderni bombardieri B-52.  A tutt'oggi, fonti statunitensi militari
e scientifiche, calcolano la sua potenza di esplosione intorno ai 200 kt.»]
 
«Li lasciamo tutti ammazzare?», chiedesti ansiosa. «Nulla per loro
possiamo più fare», ti risposi. Perché  eravamo già morti.

[«Finché permettiamo alla guerra (che è sempre cosa molto diversa
dalla resistenza) di tracciare il solco tra il giusto e l'ingiusto,
siamo già tutti morti.  Siamo cadaveri che pontificano.
Che danzano sui teschi di tutti  gli insorti che verranno»].

Luca[2] ebbe ragione a scrivercelo in quel lontano, amaro, marzo 2011.

“Volenterosi” bombardammo Tripoli e tornammo popolo dei morti
Presidente della repubblica in testa, benedicente.
Erano 150 anni esatti dal primo albeggiante nostro Risorgimento,
ricordi?




[1] Marcella è Marcella Corsi  di Roma.
[2] Luca è Luca Ferrieri di Milano.


* Nota di accompagnamento della raccolta


Queste non sono poesie politiche, perché appunto la polis  non c’è più. Non sono poesie impegnate, perché non ci sono più in questo Paese partiti capaci di sostenere un progetto a cui i poeti possano riferirsi. In queste poesie ci si s’interroga su un lutto: la scomparsa della polis. E lo fa  un singolo io-noi che, anche per amor giovanile di poesia e altre vicende esistenziali, si affacciò tardi agli orrori della storia; e per giunta nel bagliore  stordente del miraggio breve e illusorio del ’68-’69. 
Nella stabile condizione di accartocciamento e di isolamento venutagli sia dall’essere cresciuto nel Sud della mente sia dalla sconfitta della parte politica a cui  s’era poi legato e che ha subito le sorti dei vinti, l’interrogazione avviene afferrando notizie e immagini di un arco di tempo che va dal 1978, per ragioni storicamente intuibili inizio politico  del lutto e del tunnel senza luce in cui brancolare, fino all’oggi. 
L’io-noi è quello di un vecchio. Ha memoria di  vari passati oramai. Sa che non sono congiungibili in un unico filo storico. E di essi e del presente dispiega davanti a sé gli straccetti che riesce ad afferrare. Li controlla inquieto. Si studia i propri e altrui rodii  e, quando mente e cuore si sintonizzano, non esita a menare le sue artigliate anche sui compagni di strada abbandonati o persi. Non si vergogna di esprimere il risentimento poco nobile dei bastonati della storia. Perché è convinto che pensieri di resistenza e di costruzione crescono  veramente solo se nutrite dalla memoria delle sconfitte e respingendo l’immagine  conciliante o edificante che i dominatori suggeriscono ai vinti, imponendo il loro modello  progressista o futurista. L’io-noi è esodante. Si sottrae per quel che può anche ai veleni della memoria (e della contemplazione compiaciuta delle sue «rovine») ma si vanta pure di sospettare dei documenti, dei monumenti e anche della idea di poesia dei vincitori o dei loro  liberti addomesticati. E perciò ne produce una volutamente in lingua bassa, non bella, non populista, non consolatoria, conservandola - così spera - duttile strumento di critica  [E.A.] 

26 commenti:

Anonimo ha detto...

Grande, grande poesia Ennio, letta tutta d'un fiato!
Paolo Pezzaglia

Anonimo ha detto...

Svelato l'arcano dell'anonimo (Ennio cento ne fa e cento ne pensa)!
A occhio mi ci vorrà almeno una settimana per poter commentare. "Forse."

Come ha fatto Paolo Pezzaglia, anch'io ho letto d'un fiato. D'altra parte "POESIA LUNGA DELLA CRISI LUNGHISSIMA" non consente nemmeno il tempo per una sigaretta.

mayoor

Anonimo ha detto...

Come nella crociata dei bambini
(toh, era il 1212)
la guerra dei poeti.

mayoor

Unknown ha detto...

è tornato l'anonimo , che bello, lo sentivo, lo sapevo che erano proprio i suoi tasti !

che musica! grandissima poetica politica tutta della sconfitta, quella che la cosidetta sinistra a cui si apparteneva , non ci ha mai dato, nemmeno nelle forme rimaste dei mille e piu rivoli, radicale.

Grande panorama oltre le rovine della battaglia.

giorgio linguaglossa ha detto...

Caro Ennio Abate,

considero "Poesia lunga della crisi lunghissima" una narrazione in versi e non una versificazione narrativa... ma è troppo vicina alla sociologia del quotidiano, alla sociologia della politica, voglio dire che la politica è troppo chiarametne espressa nel suo linguaggio proprio che è quello del politico (o della controversia politica), e questo è senza dubbio un fortissimo limite a cambiare registro e a trovare un linguaggio proprio della poesia. Considero invece molto riuscita la poesia che riporto qui sotto per facilità di lettura.

Cielo scuro pesantissimo nuvolone.
Pioggia sulla città.
E se durasse mesi ininterrottamente?
E non volesse più andar via.
E fulminassero tutte le lampadine
(accese per rischiararlo il buio funesto).
E noi chiudessimo gli occhi per non vederlo.
E i cani abbaiassero senza più sentire i pericoli.
E le porte sbattessero in continuazione per un cieco vento.
E le piante - non più nostre perché ne dimenticheremmo presto
le forme continuassero a crescere fin nel buio delle case.

È una composizione di rara efficacia perché costruita tutta sull'indiretto, su una interrogazione iniziale, su un pensiero apparentemente assurdo: che la pioggia possa durare ininterrottametne per l'eternità (!!). È un'idea formidabile che illumina tutta la composizione. L'unica cosa che io modificherei è la punteggiatura, io introdurrei dei punti interrogativi alla fine di ogni domanda, servirebbe a rendere più chiaro al lettore che si tratta di domande.

Mi piacciono anche le ultime due composizioni, ma ad intervalli, in quanto quando tu ti lasci prendere la mano dall'ansia della controversia politica lì la poesia fugge via e resti sul piano della contestazione politica, quando invece in alcuni versi encomiabili ti stacchi dalla contingenza della protesta e del politico, lì raggiungi esiti eccellenti.

La poesia oggi deve essere discorsiva (anzi, lo è sempre stata in tutti i tempi, dal tempi della Commedia); discorsività vuol dire Ragione, luce, chiarezza dei dettagli e oscurità degli angoli come in una tela del Caravaggio... e lì dimostri di avere delle qualità, delle eccellenze insieme anche a delle pietre, delle some che appensantiscono e fuorviano il tuo discorso poetico. Ma, ovviamente, perle e pietre in questi esercizi sono mescolati, e tu lo sai.

Anonimo ha detto...

Secondo me non sono pochi, qui, che avrebbero da imparare qualcosa sulla fluenza e sulla musicalità della scrittura. Solo un esempio:

"nella città si preparano non percepibili eventi/ dagli scantinati arrivano rumori di scalpelli/ e dopo pause allarmanti/schianti/ pavimenti immagino in disordine/ calcinacci/ assenze di mobilio/ e quanta industria culturale accolta in quei libri sparsi/..."

scantinati, scalpelli, schianti, calcinacci, "e quanta industria culturale accolta in quei libri sparsi"...

mayoor

Anonimo ha detto...

( Majakovskij, prima di farla finita, poté dire "Voi che restate siate felici" perché comunque ciò che si era ripromesso di fare, bene o male era avvenuto).

E' vero, come fa notare In soffitta è poetica della sconfitta. E se è sconfitta vuol dire che il movimento della scrittura in qualche modo deve precipitare, o meglio affondare. Non sarebbe così se l'albero del relitto potesse ancora reggere la vela, se le parole avessero vento ancora. Come queste:

… no/ non si riforma il partito/ delle luccicanti gocce/sotto le plasticate sfoglie/ della città riciclata/ la calamita/ delle classi in lotta  ci agita/ma in più convulsa limatura/ e schegge atomizzate/ di produzione e d'improduzione/ discorsi sfracellati/ filosofie annerite/ la gestualità quotidiana leggerisce/ barcolla/ soffia altro vento/ mulinella dunque?/ no/ ondulano come relitti sui mare/ in disordinati abissi/ altre molecole pesanti/... la parola s'inceppa/ in gola/ o rotola stereotipata/ nei vialoni/ deserti

Le chiamerò vele, non è per via delle metafore in se', che non sono molte e non bastano a sostenere, ma per gli scarti improvvisi delle parole. Son loro che sostengono, e dove sono le parole a farlo, se non ci sono altri "trucchi", per me non è narrazione ma è poesia.

In "Poesia lunga della crisi lunghissima" ( ecco l'umorismo diEnnio Abate: sottile, fulmineo, contenuto) questo non accade sempre, e siccome non vorrei entrare nelle tematiche di questa storia recente (che anch'io ho vissuto e che mi ha messo di fronte ad una infelicità assoluta dalla quale sono uscito solo grazie alla psicanalisi e a vent'anni di oriental meditazione… io, altri ancora ci pensano sapendone quanto prima. Dell'infelicità voglio dire), siccome non vorrei entrarci dicevo, mi limito a dire che questi scarti, queste parole cercate, che sembrano aspettate, un po' mancano. Quindi niente vele al vento nella sconfitta? E perché? Perché il linguaggio della poesia è altro e potrebbe complicare inutilmente? Non credo. Majakovskij non era mai sprovvisto della sua inventiva surreale, eppure è ancora oggi considerato come il poeta della rivoluzione. O forse sono andato troppo in là, forse dovrei fermarmi a Fortini e ai suoi interrogativi?

Formalmente apprezzo la disposizione a pacchetto dei versi, perché ritengo che il linguaggio della poesia sia tale che in tutti i casi, in nessun modo possa essere confuso con altri linguaggi. Così disposti, i versi creano un'accelerazione che incatena… con un ritmo così puoi dire praticamente quello che vuoi, come vuoi. Inoltre chiunque se li può impaginare a piacere senza dover tener conto di ogni finezza, cosa in se' trascurabile ma non lo è se si pensa alla poesia come atto comunicativo. Curioso l'uso dello slash ( l'avevo già detto ad Anonimo) che si fa punteggiatura.

"… riconoscersi in zona ambigua/ in zona infida/ nell’intrico di rapporti algosi/"
Ecco un'altra vela.


mayoor

Ivano Belli ha detto...

Ma Ennio Abate è la brutta copia di Fortini! E' un Fortini senz dramma e senza profezia, un giornalista.

Anonimo ha detto...

... quanto alle altre poesie non avrei molto da dire oltre a notare il piglio risorgimentale che le sovrasta. Non saprei dire cos'altro m'appaia più stantio. Ultimamente, deciso a studiare per bene Leopardi, mi sono procurato una bella edizione dei Canti della Einaudi (a cura di Gallo e Garboli). D'accordo, non siamo esattamente al risorgimento, ma dopo aver letto attentamente All'Italia ho avuto una visione terrificante: quella di trovarmi nei meandri oscuri di un vecchio cimitero, con in mano parole e immagini che si sgretolavano al contatto. Considero questa scelta stilistica, questa dell'elegia, alla quale non bastano gli inserti di modernità per farla risorgere, davvero inadatta se l'intento è quello di attualizzare la storia recente (per altro della sinistra che parla solo alla sinistra...). Ma come attualizzare? Se in "POESIA LUNGA DELLA CRISI LUNGHISSIMA" le vele non sembravano bastare, qui invece s'infiocchettano, mai che ci sia la giusta misura. Ma contenutisticamente è un peccato che tu non abbia osservato, almeno per quanto riguarda il panorama milanese, quanto ha continuato a ruotare attorno a Radio Popolare, i centri sociali e oggi Macao e il gran lavoro su facebook e twitter. Ci sono cose che non si sono mai fermate, di cui nessuno tiene conto tranne i giovani, quelli che puoi vedere la sera a bere birra e fumare spinelli sui marciapiedi. Tu eri qua mentre io rientravo da una lunga assenza, e quindi l'ho notato e vi ho partecipato seppure con le riserve del mio modo di vedere che non è più quello di un tempo. Quindi mi chiedo: a chi è rivolta questa l'elegia?
mayoor

Moltinpoesia ha detto...

Ennio Abate:


Sto facendo leggere la bozza dell’intera raccolta ad alcuni amici, ma qui sul blog ho fatto una selezione non so quanto indovinata.
Comunque ringrazio in particolare Giorgio Linguaglossa e Mayoor per avermi letto con attenzione. E provo a riprendere alcune loro osservazioni e domande (nel caso di Lucio Mayoor).

Non so se “Poesia lunga della crisi lunghissima” sia proprio «narrazione in versi». In fondo più che narrare, “rumina”, attraverso squarci volutamente lividi di un paesaggio urbano e di memorie inquiete e incomposte, un discorso di crisi, meglio un avvio della presa d’atto della crisi. La data qui conta (1978). Questa è una versione ripulita rispetto all’originale lutulento scritto “a caldo”. Fu la prima cosa che mandai a Franco Fortini. E da lui, nella risposta alla lettera, ebbi questa nota:

«Ti ringrazio molto del tuo testo. È quanto di meglio, nel genere, si possa leggere. Solo che il genere (critica della frantumazione rappresentando la frantumazione) mi pare un po’ stanco. Alla generosità dell’impulso bisognerebbe congiungere una necessità maggiore, far sentire che ogni parola è insostituibile. Questa non è una critica, è troppo generica per esserlo, scusami».

A distanza di tanto tempo io la vivo soprattutto come «documento» degli effetti della crisi politica sulla mente di un militante isolato e deluso, ma che ancora tentava di essere un ‘noi’. No, non mi pare che questo sia il linguaggio «del politico», come dice Giorgio Linguaglossa. Egli tende forse, “ per principio”, a una troppo netta separazione tra poesia e politica («quando tu ti lasci prendere la mano dall'ansia della controversia politica lì la poesia fugge via e resti sul piano della contestazione politica, quando invece in alcuni versi encomiabili ti stacchi dalla contingenza della protesta e del politico, lì raggiungi esiti eccellenti»). È linguaggio della crisi, del dubbio sulla politica. C’è chiara la consapevolezza di essere stato/i messo/i fuori gioco dal terreno politico, quindi « lontani dai cementosi piloni leninisti»; e di essere precipitati / « ciascuno in zona esterrefatta/ o poetica»; oppure, in altro passo, «in zona infida/ nell’intrico di rapporti algosi».
Questo testo, del resto, segna proprio il momento di un mio “ritorno alla poesia” (alla ambiguità della poesia), sia pur con addosso il sovraccarico dell’esperienza del militante ( ero stato in Avanguardia Operaia dal 1968 al 1976).
Ci sarà stato, l’ammetto, una certa difficoltà «a trovare un linguaggio proprio della poesia», ma la pretesa era di non tornare ad esso cancellando semplicemente il pezzo di storia vissuto come ‘noi’ per ritrovare facilmente e semplicemente l’io (privato, lirico).
E questa difficoltà (vissuta però senza camuffarmi frettolosamente da poeta) mi aveva portato però, avendo per così dire perso il “mestiere” o l’attrezzatura tipica del poeta (di allora), a tentare di registrare un mio convulso passaggio: dalla stesura di volantini o documenti politici alla scrittura poetica. E lo feci adottando, a mo’ di scansione rudimentale ( e al posto della punteggiatura “normale”), la barra ( o sbarra o slash). Come se non avessi tempo per pensare a una punteggiatura mirata sulle esigenze del lettore. Come se fossi in preda a un’ansia e mi rimanesse solo la capacità
di separare in blocchi il verso (la prima stesura era in versi liberi di varissima misura).
Non credo o non ricordo di aver imitato, facendo questo, i testi della neoavanguardia. Se influsso c’è stato, è avvenuto in modi oscuri e inconsapevoli. Io so che reagivo ad una pressione angosciosa esterna/interna, che mi faceva evitare la scrittura “normale” e i segni d’interpunzione “normali”.
Nelle successive rielaborazioni sono andato verso un compattamento estremo, abbandonando anche l’uso del verso libero scandito dalle barre. Si ha così, nella forma attuale, una successione di righe come per uno scritto in prosa, ma segmentato da barre.

[Continua]

Moltinpoesia ha detto...

Ennio Abate (continua):

Qualche amico mi ha consigliato di lasciar perdere e di tornare alla forma in versi liberi, abolendo le barre (e sostituendole con la punteggiatura solita). Perché la sostituzione dell’interpunzione con la barra è datata ( è anni ’60-’70). Fatico ad accettare. Quasi per uno scrupolo da documentarista.
Se adottai la barra per le ragioni che ho detto, perché abolirle adesso? Pare che rendano più difficoltosa la lettura. Ma non invitano anche il lettore (ovviamente volenteroso e non schizzinoso) a partecipare alla decifrazione del senso del “ruminio” poetico?
E perché disfarsi di questa segmentazione che è anche (o soprattutto) emotiva e non puramente logica? Solo perché fu adottata dalla neoavanguardia e non è più dimoda?
È vero anche che in alti componimenti più brevi, anch’essi stesi di getto, ho più facilmente eliminato le barre. Ma su quelli più lunghi e “ruminati” ho dubbi a fare lo stesso.
Devo anche aggiungere che un amico, particolarmente sensibile a questi problemi di forma, mi ha scritto cose interessanti che mi sento di rendere pubbliche, affinché se ne possa anche discutere:

« ho ultimato la lettura della "Polis". Alcune considerazioni sparse, seguendo l'ordine progressivo dei testi. Innanzitutto, sul gruppo di poesie, disseminate nellla raccolta ma poste come blocco al suo incipit, in cui la linea versale si prolunga, per contiguità di unità giustapposte, fino a occupare l'intero rigo della pagina. E' originale questa disposizione, ma non solo, mi pare che sia un modo per porre oggi la questione dello statuto del verso contemporaneo. E per interrogarsi su quali siano oggi le specificità che differenziano il dettato poetico da quello prosodico. Perché a mio avviso non si tratta del classico "poème en prose", altrimenti non avresti adottato il segno grafico della divisione versale, ma ponendolo si crea una contraddizione tra il fluire prosastico del "discorso", che ha come unico requisito l'a capo a fine rigo, e la scansione poetica del verso, rivendicata, appunto, dalla convenzione grafica della barra tra una unità versale e l'altra. E appunto la contraddizione, giocata su più livelli, mi sembra la cifra complessiva che segna la tua raccolta».

E vengo a Mayoor. La sua lettura mi pare oscillare tra approvazione e dissenso. Quella della «Poesia lunga…» mi pare particolarmente sensibile e specie da parte di uno che, nei modi suoi, in quella stessa storia c’è stato. Altri sarebbero facilmente respinti dal contenuto. Lui no. E mi sento incoraggiato dagli accenni fatti alla «fluenza» della scrittura ( sulla «musicalità» non saprei dire, non saprei proprio giudicare: sono un fruitore molto passivo e persino intimidito di musica…), al «movimento della scrittura [che] in qualche modo deve precipitare, o meglio affondare», visto che si parla di «sconfitta» e anche ad un certo «umorismo» ( forse abbastanza cupo, ma non assente…). Anch’egli poi apprezza «la disposizione a pacchetto dei versi» e pare convalidare una mia tendenza a insistere (in parte) in questa direzione. Anche per un discorso di “risparmio dello spazio” sulla pagina. Feci ridere una volta un amico critico quando lo dichiarai, ma non me ne pento: la disposizione a pacchetto può apparire “povera” o troppo “castigata” o poco “fine” ( e di solito, nelle citazioni di una poesia in versi all’interno di un discorso prevalentemente prosastico, si ricorre allo slash con questo obiettivo…), ma risparmia spazio sulla pagina e non si “sdraia” come i versi, circondandosi di quell’alone bianco quasi sacrale, su cui tanti critici e poeti hanno voluto ricamare…

[continua 2]

Moltinpoesia ha detto...

Ennio Abate (continua):


Ma nel suo commento a puntate Mayoor si sofferma anche sulle altre poesie e ci vede un «piglio risorgimentale». Non mi pare che ci sia in tutte, ma esplicito e voluto c’è di certo in «MARZO 1821 - MARZO 2011». E mi sento di difenderlo, anche perché mi pare che Lucio travisi il senso della poesia. Il mio intento non è stato quello di «attualizzare la storia recente». Semmai quello di mostrare polemicamente la regressione della storia recente a quella lontana; e l’involontaria e quasi grottesca parodia e capovolgimento ( da patrioti in lotta per liberarsi a patrioti bombardatori…) di quella risorgimentale, visti i tanti discorsi per il 150° del Risorgimento.
Il tono grave e amaro vorrebbe sottolineare quanto siamo caduti in basso partecipando alla guerra colonialista in Libia e proprio a centocinquant’anni dall’inizio della fondazione della Nazione. Non mi pare di aver infiocchettato, ma mostrato una contraddizione.
Che poi, rileggendo «All’Italia» di Leopardi, Mayoor abbia avuto l’impressione di trovarsi « nei meandri oscuri di un vecchio cimitero» non è osservazione peregrina o nuova. L’aveva fatta anche Zanzotto in «Fantasie d’avvicinamento» parlando appunto di Foscolo e di altri poeti “fondatori” del mito risorgimentale. Perché, ma qui il discorso si farebbe lungo, anche l’Italia d’oggi ha purtroppo ancora qualcosa di cimiteriale…

P.s.
A Ivano Belli ( sospetto che dietro il nom de plume si nasconda qualcuno/a che conosco) dico solo che ha letto male e che comunque avrebbe l’obbligo di argomentare il suo giudizio.


[Fine]

Anonimo ha detto...

Forse avrei dovuto parlare di tono alto, rivolto al sociale, politico nel tuo caso. Per il tono ho parlato di elegia, non solo per i risvolti funebri ( fatta eccezione per L'albero, Dattilografica torre e "cielo scuro pesantissimo..."). Mi scuso per gli "infiocchettamenti" che avevo scritto ironicamente in contrapposizione alle "vele non sembravano bastare" del primo componimento ( giungono a proposito le parole di Fortini: "Alla generosità dell’impulso bisognerebbe congiungere una necessità maggiore, far sentire che ogni parola è insostituibile." Che non mi sembra abbia un senso tanto diverso da quanto ho scritto, seppure certo non con la sua autorevole chiarezza). Tuttavia m'intriga l'uso dell'elegia: suona al linguaggio come una sfida diretta al quotidiano, e può essere per i temi affrontati anche una necessità. Di questi tempi quasi un atto d'eroismo.
mayoor

Francesca Diano ha detto...

Caro Ennio, tu dici nella nota che hai usato una "lingua bassa". A me pare tutt'altro che bassa. La lingua che usi è chiara, limpida e dura, con morbidezze struggenti a volte, ma questo non ne fa una lingua bassa. La fa comprensibile. Affermi che la tua non è poesia politica, perché la polis non c'è più. Vero. Ma a me pare poesia civile, se non solo al civis si pensa, ma anche a ciò che significa civiltà. C'è ovunque un'oscurità di morte nei tuoi versi, che è la percezione di quel che abbiamo intorno e soprattutto in Italia, ma anche in questo tramonto che l'Occidente vive. In "Poesia lunga", sia per il martellare del verso che non lascia respiro, sia per il senso di scoramento del testimone della storia (con la s minuscola) si percepisce una disperazione perfusa, che traduce in parole il senso del lutto che tutti viviamo. Nell'"Albero" vedo però - nonostante il senso di sconfitta, un senso di vitalità che non si spegne, che non può spegnersi. Sono poesie di lutto. Eppure la disperazione non trionfa. Non foss'altro perché la parola poetica, sempre e comunque, essendo tale, nel conflitto esce sempre vincitrice. Grazie Ennio.

P.S. Quando Leopardi scrisse "All'Italia", aveva 20 anni. Forse, per capire meglio con quale rasoio di lucidità e di lungimiranza avesse capito il destino dell'occidente a venire, sarebbe meglio rileggere La Ginestra. Tutto si può dire di Leopardi tranne che fu uno dei padri fondatori del Risorgimento.

Anonimo ha detto...

Solo poche parole, poiché molte cose interessanti sono state già dette e ripeterei. A me la poesia di Ennio piace. Civile, politica, con accenti "risorgimentali" addirittura, certo è tutto questo, e non è facile ottenerlo senza cadere nel retorico. Ma è anche una poesia che lascia intravvedere in trasparenza l'uomo, il poeta che utilizza la lingua "chiara, limpida e dura" della denuncia, ma che è anche in grado di produrre "morbidezze struggenti" (F. Diano). La forte propensione al politico non annulla la partecipazione emotiva, i sentimenti (si può utilizzare questa parola senza essere tacciato di sentimentalismo?). Questa è tuttaltro che una poesia "fredda", non c'è distacco, costruzione, ma piuttosto partecipazione, preoccupazione per il destino dei propri simili. Ed forse proprio questo, la sincerità estrema, che rende questa poesia credibile e (per la massima parte) non retorica.
Un'ultima notazione: preferisco gli a-capo rispetto alle barre che "impacchettano" il testo. Ma probabilmente è questione d'abitudine, e poi forse la compatezza grafica, quasi monolitica, ha un suo significato/valore, specialmente in questo genere poetico.
Un saluto
Flavio

giorgio linguaglossa ha detto...

Considero «Poesia lunga della crisi lunghissima» una narrazione in versi e non una versificazione narrativa... ma è troppo vicina alla sociologia del quotidiano, alla sociologia della politica, voglio dire che la politica è troppo chiaramente espressa nel suo linguaggio proprio che è quello del Politico (o della controversia politica), e questo è senza dubbio un fortissimo limite a cambiare registro e a trovare un linguaggio proprio della poesia. Del resto, oggi, in tempi di maltusianismo perbenista parlare di Politico sa un po’ di paleolitico, è fuori moda, poco urbano, un linguaggio abortito, un feto mal riuscito… E appunto, mi interrogo preso da un presentimento: questa contro-poesia di Ennio Abate forse funziona proprio in quanto in contro-tempo, scritta, anzi, vergata in una forma che sta a mezzo tra l’esposizione narrativa e l’esposizione in poesia, con quelle spezzature interne alla versificazione che sono le barre ad indicare che lì c’era un tempo (o avrebbe dovuto esserci) un a-capo (c’era un tempo la lirica dove si poteva andare a capo perché c’era ancora un senso), un ritorno al verso che invece non c’è più, che non è più possibile resuscitare. Ed è questa abolizione che ritengo significativa, questo inserimento di una barra come scarto e forma di resistenza al verso libero (che libero non è più se non per gli imbonitori e gli illusi) di un mondo che di libero ha solo il libero mercato delle merci. Ah, sì, forse il verso è «libero» come una farfalla di svolazzare sui fiori delle merci!, ma questo è un sublime incantesimo che lasciamo volentieri agli incantatori di emozioni! Ai cesellatori di versi sopraffini e beneducati!
Scrive Abate: «E qui non si scappa: o c’è stato un mio ammorbidimento oppure quella medesima resistenza, che nella fase più convulsa e drammatica (anche della vicenda storica) adottava lo slash, ha poi, nei tempi dimostratisi lunghissimi della crisi, accettato anche di stare nella forma più tradizionalmente novecentesca e divenuta abbastanza abituale o comune del verso libero, perché anche lì si può ben resistere e senza timore di confondersi coi “cesellatori di versi sopraffini e beneducati”».

giorgio linguaglossa ha detto...

Considero invece molto riuscita la poesia che riporto qui sotto per facilità di lettura.

Cielo scuro pesantissimo nuvolone.
Pioggia sulla città.
E se durasse mesi ininterrottamente?
E non volesse più andar via.
E fulminassero tutte le lampadine
(accese per rischiararlo il buio funesto).
E noi chiudessimo gli occhi per non vederlo.
E i cani abbaiassero senza più sentire i pericoli.
E le porte sbattessero in continuazione per un cieco vento.
E le piante - non più nostre perché ne dimenticheremmo presto
le forme continuassero a crescere fin nel buio delle case.

È una composizione di rara efficacia perché costruita tutta sull'indiretto, su una interrogazione iniziale, su un pensiero apparentemente assurdo: che la pioggia possa durare ininterrottamente per l'eternità (!!). È un'idea formidabile che illumina tutta la composizione. I primi due versi sono assertivi, il terzo introduce un interrogativo, serve a rendere chiaro al lettore il de quibus. L’intento della poesia; ruota intorno a questo interrogativo; la apposizione dei punti al termine dei versi che seguono vuole rendere più didattico e meno teatrale il dettato, vuole invitare a ragionare. Altra perla gnomica e aforistica è la poesia «Pagina culturale di Repubblica»: «Controllo / a sinistra / nel più smaltato vasino / la cacca di Arbasino». Freccia micidiale scagliata contro le scritture della borghesia intellettuale progressista. Perché sia ben chiaro che la scrittura di Abate mal sopporta la tipologia e la buona educazione dei salotti letterari, tanto meno quella della borghesia progressista e dei suoi vessilliferi vati; c’è di tutto in questo libro mastro, pepite, pugni e pupe, si diceva una volta nei beati anni del disimpegno di massa della «neon-avanguardia» tanto più vero oggi nel «trovarobato culturale» dei tempi del Dopo il Moderno. E così quegli intellettuali marxisti che avevano creduto nella religione del proletariato quale classe rivoluzionaria si sono poi trovati tra le mani il default della classe vinta e umiliata a rottame del passato, di un passato che a sua volta è stato rottamato dal Moderno e poi dal post-moderno.

giorgio linguaglossa ha detto...

Gustiamo il brillante sarcasmo con il quale Abate tratta la poesia degli anni della contestazione:
Ginsberg è la poesia recitata.
Organizza spettacoli
a cavalcioni della poesia.
È esaltante sia per chi legge
sia per chi ascolta: è americano.

Bisogna inchinarsi a chi ha l’arte di governare,
consumare in modo così immediato
anche la poesia.

«Poesia lunga della crisi lunghissima» può essere considerata anche una sorta di manifesto della «resistenza» della poesia (termine fortiniano) al tempo della «crisi lunghissima» dei nostri anni, quella stessa «crisi» innescata dal capitale finanziario globale per disattivare e rendere innocue le sacche di resistenza degli stati nazione e delle loro classi subalterne, eternizzata quale asettica e oggettiva forma di controllo delle pratiche sociali e delle politiche nazionali.

giorgio linguaglossa ha detto...

Apprezzo le composizioni «plebee», quelle inviate a persone in carne ed ossa, là dove c’è un interlocutore concreto per una poesia tutta nervi e muscoli, lì dove Abate si mostra irascibile ed inquieto, interrogativo e sarcastico. Ad intervalli, Abate si lascia prendere la mano dall'ansia della controversia politico-estetica; paradossalmente, lì la poesia fugge via, ma è forse proprio quello il suo merito, il suo personalissimo timbro: che fugge via la «bella poesia» dei sentimenti effratti e delle emozioni infirmate e resta la «poesia brutta» degli sconfitti e dei disabili. Il piano del contrasto al Politico per Abate deve avvenire sia nel Politico che nel Poetico, in quanto tutte le sfere devono essere adottate (e adattate) per la instaurazione di un contraddittorio col proprio tempo; avviene invece molto spesso che in alcune poesie encomiabili Abate si stacca dalla contingenza della protesta e del Politico, e non è paradossale che anche e soprattutto lì raggiunga esiti estetici eccellenti. Quel che è paradossale è l’impiego delle categorie che Abate fa del Politico e del Poetico, un uso tutto suo, da reduce indomito del tempo della sconfitta nello stile della sconfitta nel tempo della stagnazione e della recessione politica, economica e spirituale, delle «monete false di bassa lega» emesse dai lestofanti, dagli «speculatori» e dagli ipocriti «come quel Verdiglione, che possiede riviste letterarie e l’80% della Marsilio». Questo è forse il miglior Abate, il soldato «esodante» dell’ultima legione che difende ancora il limen dalle ondate dei barbari del capitale finanziario globale; qui Abate trova gli accenti più autentici e virili.

La poesia oggi deve essere discorsiva, deve discorrere per convincere (anzi, lo è sempre stata in tutti i tempi, dai tempi della Commedia), non deve intimidire il lettore con effrazioni dell’anima; discorsività vuol dire Ragione, luce, chiarezza dei dettagli e oscurità degli angoli come in una tela del Caravaggio... e lì Abate dimostra di avere delle qualità, delle eccellenze insieme anche a delle pietre, delle some che appensantiscono e fuorviano il suo discorso poetico.
Ma, ovviamente, perle, pietre, frecce e zavorre in questi esercizi poetici sono mescolati, sono parte della struttura di questa poesia, Abate lo sa utilizza uno stile da intellettuale plebeo, una specie di Ipponatte marxista che non si vuole rassegnare alla resa. Perché è questo che la «poesia» dei benpensanti lirici gli chiede: di rassegnarsi a lasciar stare la poesia civile o, orribile dictu!, la poesia impegnata, la poesia esodante, di lasciar stare questa assurda insensata «resistenza» alla marea montante del Moderno…

Anonimo ha detto...

Rita Simonitto

Ennio, di questa sua raccolta, dice ciò che queste poesie non intendono essere: né politiche, né civili. Bensì espressione di un io-noi esodante che osserva, commenta e fornisce strumenti per pensare (*spolverare il consapevole/esplorare asfalti d’inconsapevolezza*).
E, difatti, i suoi componimenti, con forme poetiche diverse ma sempre pungolate dalla ‘necessità’ di uno sguardo che non sia di superficie ma sgorghi dal profondo (Entrañas, come chiama la Zambrano queste visioni ‘viscerali’), afferrano frammenti di una realtà sfuggente e camuffata.
*Sentinelle appostate su garitte lucenti freddarono il sogno
di noi servi. Smemorati e divaganti omini occidentali
fingono di non sapere se il carbonizzato sgorbio
rimasto sul pavimento della storia sia di miti bestie
macellate in autunno o d’umanità nostre percosse e torturate*.

Il rodimento interiore non si esplicita in un ‘privato’ sfogo di sconfitta, fine a se stesso, ma diventa portatore di significatività trans-soggettiva. E’ un modo per includere i vari ‘noi’ affinchè essi vengano coinvolti, e non travolti, dal *disfarsi di generazioni*.
Favorire il fatto che ci si possa riconoscere *in zona ambigua/ in zona infida* e, ciò nonostante, si possa procedere al fine di non far disperdere, da parte di un sistema che azzera ogni tentativo di identità e di lotta, i *ribelli semi vermigli*, non è impresa da poco.
*Non fate morire quell’albero gramo
che nella mente matura ribelli semi vermigli.
Ambascia ci porta, ma insieme pensieri
tolti alla morte. E carezze al futuro*.

Ed è proprio per questo che ho detto ritengo che le poesie di Ennio siano politiche e civili a prescindere dal contenitore nominale (la “polis”) che al momento non c’è e di cui si è alla ricerca. Senza sapere che cosa si troverà.
Grazie, dunque, a Ennio non solo per la carica appassionata
che mette nella sua scrittura (anche se, in altri momenti del suo poetare, questa stessa carica, come quando Icaro si avvicina troppo al Sole, fa perdere quota alla composizione), ma anche per i contenuti che ci trasmette.
Credo che sia proprio la sua 'passione' quella che gli fa trovare le forme più adeguate (a 'pacchetto' o a verso sciolto o altro) a rappresentare i contenuti che lo prendono. E' il suo 'stile' che ce lo fa riconoscere.


Anonimo ha detto...

Da lettore voglio dire che apprezzo moltissimo questi esempi del farsi della critica. Fatico a separare l'Ennio poeta dalla persona, ci ho provato ma Flavio mi ha fatto ricredere nel migliore dei modi. I commenti di un lettore, i miei, risentono della gioia o della scontentezza che mi accompagnano... particolarmente sui temi della politica, sui temi e sul linguaggio in rapporto al mutamento (del nuovo millennio se si vuole) che, per me, resta oscuro e servirebbero luci per guardare anche in avanti. Ma io stesso resto all'intorno, e capisco quanto sia difficile. Almeno Ennio un metro di misura ce l'ha. Quanto sia ancora condivisibile non so, ma sull'estensibile ci giurerei.
mayoor

Unknown ha detto...

Ma..ma..mannaggia Mayor , ma come , prima era quasi d'accordo con me sulla poetica politica della "sconfitta" di questo "nostro Abate" e poi mi scrivi che quel metro di misura sarebbe solo di Ennio? Ennio ne una voce, nitida, limpida, precisa ma per sentirla non occorre "condividere" una visione ideologica stile ottocento o novecento. Scusami davvero se ti faccio questo appunto, ma è perché è troppo importante "il messaggio" fra perle e pietre della sua bottiglia insieme alle altre che in una cantina sono rimaste a dire, fare,pensare, ripensare che....

CHE IL MONDO E' FINITO!

il messaggio è cosi urgente non perché in linea con le solite coincidenze epocali di fine millennio, ma perché prima ci si rende conto come lo hanno fatto fuori, prima potrà riavviarsi qualcosa di vagamente attinente al suono orientale che hai usato: mutamento.

Se uno scrittore, quale Ennio è, rinuncia a dire in ogni parola, come hanno fatto fuori l'uomo, inganna se stesso e il macigno che porta sulle sue spalle.


perdonami se puoi la mia irruenza.
un caro saluto

Moltinpoesia ha detto...

Ennio Abate a Giorgio Linguaglossa:

In parte ho risposto in un precedente commento alla tua prima obiezione sulla “politicità” di “Poesia lunga di una crisi lunghissima”. Ho spiegato anche quale problema non puramente formale ma emotivo e di grosso significato sia per me la scelta dell’uso o non uso della barra.
La tua ipotesi che il suo uso sia una resistenza all’a-capo della lirica mi piace; e sento di poterla accogliere. Tu aggiungi delle ragioni più profonde (di poetica generale, direi) a quelle che ho portato io, in apparenza più contingenti ed “emergenziali” (legate dunque anche al processo personale che vivevo di “ritorno alla poesia” con la volontà di non cedere al “privato”).
Tutto sta però a intendersi su questa mia «contro-poesia». Ci sarebbe infatti una contraddizione da spiegare al lettore fra questa “resistenza a slash” e l’uso (o ritorno) negli altri componimenti del verso libero. E qui - l’hai ripreso già nel tuo commento - non si scappa: o c’è stato un mio ammorbidimento oppure quella medesima resistenza, che nella fase più convulsa e drammatica (anche della vicenda storica) adottava lo slash, ha poi, nei tempi dimostratisi lunghissimi della crisi, accettato anche di stare nella forma più tradizionalmente novecentesca e divenuta abbastanza abituale o comune del verso libero, perché anche lì si può ben resistere e senza timore di confondersi coi « cesellatori di versi sopraffini e beneducati».
Il resto delle tue osservazioni mi paiono quasi tutte condivisibili. Tenderei a correggere soltanto l’identificazione piena di questa mia ricerca con la poesia civile e impegnata. Nel senso che ho, come detto nella nota sotto i miei versi, dubbi sulla loro praticabilità in assenza di società civile e di partiti capaci di suscitare impegno anche tra i poeti. Ma se non sto troppo a sottilizzare, so che a quei generi le mie poesie possono essere avvicinate. E un amico che ha commentato in privato la mia intera raccolta, ha ben colto questo mio negare e accettare quei modelli o richiami del passato, scrivendomi queste parole che penso di poter rendere pubbliche (anche se si riferiscono all’intera raccolta):

« E appunto la contraddizione, giocata su più livelli, mi sembra la cifra complessiva che segna la tua raccolta. Passando sul piano dell'enunciazione, ossia della poetica, tu scrivi che questi versi non sono versi politici, e su questo mi trovi d'accordo in linea di principio (la "Polis" è una raccolta poetica, non già un'analisi politica), ma nel contempo, e la dedica iniziale a La Grassa credo lo sottolinei, il dato "fenomenico", ossia "La Polis che non c'è" non viene sussunto a prescindere, ossia come registrazione dello stato attuale delle cose, ma la raccolta ri-costruisce la dissoluzione, il disfacimento, la scomparsa della "Polis". Per cui l'inesistenza oggi della Polis è frutto di un processo storico e politico che i tuoi versi indagano e testimoniano, e non si limitano a interrogarsi sulla scomparsa (il "lutto") già avvenuta. E in che modo lo fanno? Ri-costruendo, appunto, le fasi peculiari del processo, e non con intento sistematico, ma a frammenti.

[Continua]

Moltinpoesia ha detto...

Ennio Abate (continua):


Il discorso poetico complessivo si muove attraverso la disorganicità delle varie occasioni di riflessione poetica (la chiusura di una fabbrica, un articolo, un giornale - alfabeta, il manifesto, il contemporaneo -, una dichiarazione di un esponente politico o sindacale, un episodio sociale, un ricordo della lotta politica di anni lontani, il teorema Calogero, ecc.), ossia si tratta di quelli che tu chiami "straccetti", non congiungibili, come tu dici, in un unico filo rosso che conduca all'esaustività. Il lacerto, il frammento, la fotografia istantanea (come la polaroid d'una volta), lo "straccetto" ritengo siano oggi i soli strumenti formali per dar conto - con rodii e artigliate, che fanno parte della modalità di "esecuzione" - della mancanza (la Polis) in un tempo la cui identità è in veloce trasformazione "multipolare", per dire con La Grassa, e sfugge alle analisi impostate su una lettura "tradizionale" del mondo. In questo, il referto poetico che i tuoi versi danno è anche di natura squisitamente politica, al cui linguaggio esplicitamente ti rifai spesso, per cui su un secondo piano o livello di lettura, la negazione (una sorta di negazione freudiana, se vogliamo) diviene nei testi affermazione. Su questo livello interpretativo leggo un'altra contraddizione, o contrasto, che riguarda l'alternanza stilistica tra composizioni sciolte dai vincoli ritmici tradizionali qual è la rima, e composizioni fortemente connotate da questo elemento, come i distici in rima baciata ecc. Insomma, il libro mette anche in scena un contrasto, uno scontro tra forme poetiche, giocato a seconda della circostanza relativa alla singola compopsizione e della strategia poetica (e della poetica) utilizzata in quel momento. Insomma, la presenza della rima non è un attardarsi su forme chiuse della tradizione poetica, ma una rivendicazione della loro attualità che fa gioco al contrasto (alla contraddizione) complessiva. Un po' alla Fortini, quando in Sette canzonette (che tu citi apertamente) ricorreva alla musicalità del dire poetico per affrontare una realtà drammatica come la guerra (imperialista). "Tu dici fortini per maestro?" domandi a un ignoto interlocutore in una poesia. Ebbene sì, l'influsso fortiniano si avverte soprattutto nella prima parte, nei testi più datati. Io lo sento forte soprattutto nelle composizioni da "Gennaio 1978" a "Tokio 2 luglio 1979" a "Chiusura della Riccardi", mentre nella seconda, dove più esplicitamente citi Fortini, noto questa singolarità: più lo citi e più te ne allontani. Ossia nella tua produzione più recente Fortini non è più un influsso, una suggestione, un "debito" stilistico, ma un poeta e un teorico politico con cui fare in conti in piena autonomia. Ora, una notazione di gusto: tra i molti tuoi testi molto belli, quelli per me imprescindibili sono il primo "Frammento 1994": "Kosovo", "L'albero"; "Filtrando e rifiltrando"; "Esodo"; "Ripensando a Massimo Gorla"; "Samizdat"; "Faccio poesia perché". Ma da un lato questo è un elenco parziale (non cito altre che ho trovato belle) e dall'altro di parte, appunto, fondato sul gusto. Per concludere, e malgrado le diagnosi critiche anche autorevoli sulla scomparsa, l'eclissi definitiva ecc., trovo che l'importanza politica di questi testi, al di là dunque della loro bellezza poetica, sia quella di rendere possibile una ri-formulazione del mandato sociale dello scrittore».


P.s.
A Francesca Diano.
D'accordo su Leopardi. Come Mazzini, non fu tra i "padri fondatori" di quest'Italia.

Anonimo ha detto...

Cara rò,
il mondo non finisce solo perché un'istanza, seppur rivoluzionaria, non andò in porto. Tant'è che siamo ancora qui a parlarne, e a ben vedere con argomenti ben più ampi e diversificati se confrontati con gli "interventi" di quell'epoca, quand'eravamo divisi soltanto tra marxisti e movimentisti.
Ennio scrive poesia da molto tempo, ha postato qui alcune poesie scritte nell'arco, mi pare, di una decina d'anni, dove ha sperimentato stili e linguaggi diversi ( la somma di queste diversificazioni, facendo un esempio direi parallelo, si possono trovare nel lavoro di Giancarlo Majorino. Ma è chiaro che andrebbero letti separatamente). Probabilmente l'ha fatto per giovarsi del contributo della critica, perché questa è una necessità, specialmente se il poeta in questione è anch'egli un fine intellettuale e un critico tenace che spesso c'azzecca. Probabilmente, penso io, il giovamento potrebbe essere quello di individuare una giusta via da percorrere, al di là delle tematiche che gli sono proprie ( sue, perché oggi va così col NOI: che siamo rivoli andati per strade diverse). Ma i commenti si sono limitati ad una entusiastica solidarietà. Solo Linguaglossa, dopo averci pensato, gli ha creato un "posizionamento" ( metto tra virgolette perché è un termine commercial manageriale, che so tu mi tirerai indietro) più che accettabile. Come a dire: il poeta sei tu, sta a te decidere sulla concretezza del tuo lavoro. Quindi massima solidarietà e massimo apprezzamento, ma nessun commento da poeta a poeta ( da ciabattino a ciabattino…). Intendiamoci, io sono nessuno, uno che si sente più a suo agio bazzicando nei poetry slam, però ho provato a metterci le mani. Proseguendo da poeta potrei fare anche meglio ( Emilia Banfi sarebbe d'accordo).
E' vero, il messaggio è urgente… è ed era urgente, ma sembra che il macigno che portavamo in tanti sia rimasto solo sulle sue spalle: perché NOI ne avevamo fatto un macigno di tale portata… mentre, come ho detto, oggi ciascuno se ne porta in misura della larghezza delle proprie spalle.
Aggiungo però che, grazie a questi scambi, accadono fenomeni di contaminazione che considero assai positivamente. E questo ( l'apporto della critica tra i Molti e il richiamo ad una maggiore responsabilità sociale da parte dei poeti) è qui tutto merito suo, nonché delle sue poesie.
mayoor

Unknown ha detto...

Caro Maayor,
1
"la sconfitta" esula e non riguarda più l'istanza rivoluzionaria che non andò in porto..se fossi una gomplottista ti direi meglio perché è sempre stat esule, fin dall'inzio, ma preferisco invece non esserlo.
2
il mondo è finito di per sé (però non perché l'infinito degli universi paralleli non esista) ..la sua storia però lo ha reso definitivamente più finito del solito tanto nell'io quanto nel noi (seicento o novencento o nuovo millennio etc ).. chi sa di essere vivo o morto, rispetto a chi non lo sa, fa ovviamente benissimo a ricordare, anche sul piano critico, come si era vivi e di cosa si è morti.ci mancherebbe!

ciao :-)


un bacione