Giuseppina Di Leo Con
l’inchiostro rosso Sentieri
meridiani, Cosenza, 2012
Se c’è una tendenza
in atto nella poesia contemporanea questa è senz’altro la tendenza ad allungare
il verso oltre i limiti anticamente stabiliti dal verso libero; voglio dire che
il verso della poesia recentissima sembra essersi liberato della libertà che
faceva del verso libero una propria bandiera. Del resto, questa continua
proliferazione della lunghezza della versificazione, come nel caso della poesia
di Giuseppina Di Leo, significa anche un’altra cosa: la difficoltà ad afferrare
il «reale», la difficoltà a racchiudere il «reale» nella scatola metrica e
acustica della metrica tradizionale di novecentesca memoria. Di qui la pratica
della Di Leo di un concetto di lirica come «cronaca privata», «diario libero»,
libera tematizzazione di oggetti, poesia di «occasioni» con la correlativa
abitudine a fissare il giorno, l’anno e, spesso, anche gli orari delle
composizioni.
Questa attenzione ai particolari temporali nella Di Leo riveste grande
importanza, perché essi sono gli unici appigli ai quali questa poesia
post-lirica si può ancora avvinghiare. Non vedo particolari difficoltà da parte
del lettore ad entrare in questa poesia, e se il lettore vi dovrà entrare «in
punta di piedi» come scrive nel risvolto Daniele Maria Pegorari, ciò però lo si
potrebbe dire anche di tutta la poesia, contemporanea e non. Di fatto, è una
poesia indifesa, e lo si nota nei momenti in cui i testi rivelano una sottile
matrice ironica. È una poesia che è rimasta priva di una iconologia, di una
religio, di una religione del senso. E forse questa è la sua giustificazione,
direi.
La rosa più tenue
era stata aperta dall’ultima pioggia
quando ancora nella
mattina aveva mostrato la fila delle cinque lingua:
cinque per ogni
fila; ora nutriva con la sua linfa le piccole gemme
nate intorno a lei,
boccioli pazienti davanti ad un altare.
L’ultima faccia di
pietra è un profilo sul pavimento: pensoso
l’occhio fisso in
sé, in lontananza attesa:
La luna intanto,
dopo aver passato in rassegna gli ulivi
sostava tra i rami
della felce.
Luna piena.
Concerta di dare voce
all’universo cane.
Ed è proprio negli
«scambi» da un registro all’altro, è grazie a questi cambi di velocità che i
testi della Di Leo funzionano alla lettura, non sono dei monoblocchi che
impongono al lettore le proprie leggi interne, pongono dei problemi, delle
interrogazioni che il lettore deve provare a sciogliere (come nella poesia
«Provare ad essere specchio»):
Provare ad essere
specchio
fuori da ogni
possibile definizione
nel rovesciamento
delle apparenze/realtà
la poesia coglie il
senso del ribaltamento delle certezze date.
“crearsi fra il
caos universale la via luminosa”, Carlo Michelstaedter ricerca utopie/ sogni/
irrealtà/ immaginazione.
Diventare specchio
non già per
riflettere
la mia persona
nello specchio, bensì guardare
nitidamente
freddamente
come uno specchio
sa fare da fuori
dentro me il mondo
mi accoglie.
Lo spartiacque tra
vissuto interiore e vita
con le implicazioni
di carattere pratico, sembra più tollerabile.
Altre volte
ogni cosa
diventa impossibile
da sopportare.
Giorgio Linguaglossa
§ -Vita e romanzo
La
farsa
Al
pari delle api
dopo
un bacio
lei
si gira e scappa via
e
non sa che l’uomo la teme
mentre
l’osserva nell’occhio chiuso
da
padrone di un’osteria.
Intanto
Camus,
quondam madre,
piazza
un no inedito sulle pagine del domenicale
Voltaire
s’ingegna nell’ingenuo cercando
restando
fedele a se stesso
Ginsberg
urla altra vita, un tu non lo sai
tra
sotterranei segugi del dharma
sugli
altri, Sciascia prende in parodia il Candido
in
un sogno triangolare, altrove Bodini
continua
il giro sulla luna
assaporando
la sera in un paese che sa di tappo.
E
tutti nella calma con gli avanzi marciranno
nel
sole insieme all’ultimo avventore.
L’amico
rovinato dal suo vizio
informerà
il gendarme armato, così, all’uscita
stretta
tra l’intransigente e l’oppositore
lei
urlerà e sacrificando il proprio credo
nel
nome di un affetto mai sopito
dapprima
indicherà l’importo sul tavolo
infine,
bisbetica quanto basta
come
un’attrice dimenerà il suo dito
contro
chi l’avrà tacciata di esser stata mal pagatrice.
-
Naturalmente, non stavo penzolando sul credo di un affetto -
chiuderà
l’ostico amico nella battuta del finale ad effetto.
(giov.
01.03.012 – h.: 9,15 - 29.03.012 - h.: 18,30)
§ - Volti di pietra
[A pietre d’ambra]
A
pietre d’ambra
il
sole ultima il pomeriggio
sulla
facciata del duomo
sognando
nel talamo ad occidente
lo
allettano nuvole schizzate d’arancio
spingendosi
fino a schiacciarne l’orlo
per
svoltare infine nel ventre del vento
direzioni
infinite in variazioni del passo d’ombra nella stanza
adesso
il cielo è un velo grigio
e
una magia m’investe dentro
d’improvviso:
sono
il nunzio
la
polvere d’oro caduta dalle mani
la
palla lasciata nel cortile.
Il
calore mi tiene compagnia
contro
la solitudine del cuore.
Mi
perdo per un po’.
(19.08.010)
[Traspare
nel sogno]
Traspare
nel sogno una stanza di luce.
In
confessione del nuovo giorno
mentirei
se dicessi che preferisco sognare.
(Venerdì
7 maggio – h.: 3,15 – mattino)
Riandando
splendido
Il
sole non riposa nemmeno oggi che è domenica
scansa
nuvole a più non posso, entra da me
seducente
come un’ombra e con un’ombra scappa via
ritorna
poco dopo albeggiando un muro
tra
il rosa e il blu manda un segno di affinità
nei
colori diaframma coglie un fiore di cristallo.
Ora
l’ombra è preannuncio di vento e un freddo improvviso
mi
sfiora la punta delle dita; in contrasto con la temperatura
esterna
il calore del mio corpo avverto come una febbre.
Noi
siamo angeli, angeli di neve nel sole.
Aspetto
di assopire la voglia, quella di fuggire.
Tanto
poi ritorno, come sempre tornerò a cercarti.
Siamo
angeli di parole.
(domenica,
07 febbraio 2010 – h.: 12,45)
[Nella
misura del vento]
Nella
misura del vento
il
pensiero torna ad essere spazio
umida
immagine in pietra nel sole
scarabocchio
in calce sul muro nudo
posandosi
dentro, lo sguardo, come dita
ripassa
le linee curve del volto e del naso
sugli
occhi le arcate, la piega mentita del labbro
spavaldo,
nido di formica.
Su
nessun vino oggi brindo al dolore
lascio
correre la vela aperta dentro il diaframma
la
lascio aprirsi nel torace diomedeo
soffia
piano un respiro, approdo di bocche avide
fino
all’incontro col tumido germoglio.
Mantiene
fermo il passo il martire del giorno:
questo
amore bambino stringo, per non farlo morire.
Oltre la mezzanotte
Oltre
la mezzanotte tutto sembra un gioco
tra
moltitudini assenti giunge l’eco dei
fuochi
il
calabrone dai lunghi sospiri abbandona la scena
escono
le facce di pietra dai timidi sorrisi
il
grillo si riserva un finale da manuale.
Non
sempre la voce denota il corpo
il
russare piano - silenzioso a parte -
del
camminare a fianco; oltre e nell’altro, lei è il buio.
***
Mi
accasciai restando ferma
ma
pensavo che nulla resta immobile.
Avevo
dipinto la notte e la notte seguente
senza
interruzione, se non di quelle che destano il sonno
e
ne fanno archi da inviare al cielo.
Sul
sentiero di pietra i primi volti cominciarono ad apparire
nitidamente
uno ad uno. Avevo fissato quelle pietre
lungamente,
per giorni e giorni
ma
mai nessun cenno vi era emerso
-
vi è come un riserbo anche nelle pietre
l’oggetto
inanimato per eccellenza
(secondo
l’ipotesi di molti) -.
Eppure,
proprio nell’ora in cui cominciai ad intravedere i profili
- la linea degli occhi, la piega del naso e
della bocca -
capii
che si stava avvicinando il tempo della nostalgia
che
loro avevano capito e come me atteso tutto quel tempo.
Compresi
così che mai più avremmo avuto fraintendimenti
che
tra di noi il dialogo, la dolce parola, avrebbe ripreso a fluire
come
miele nel liscio incavo del favo.
Alcune
facce erano pensose, altre dormienti nel solco dell’occhio chiuso
ancora,
altre mostravano un senso di abbandono misto all’appagamento
dopo
l’amore, ma c’era chi si amava nel risveglio con bocche semiaperte
si
baciavano. E fu dolce scoprire tutto questo.
La
rosa più tenue era stata aperta dall’ultima pioggia
quando
ancora nella mattina aveva mostrato la fila delle cinque lingue:
cinque
per ogni fila; ora nutriva con la sua linfa le piccole gemme
nate
intorno a lei, boccioli pazienti davanti ad un altare.
L’ultima
faccia di pietra è un profilo sul pavimento: pensoso
l’occhio
fisso in sé, in lontananza attesa.
La
luna intanto, dopo aver passato in rassegna gli ulivi
sostava
tra i rami della felce.
Luna
piena. Concerta di dare voce
all’universo
cane.
§ Il tempo dell’appartenenza
[A
successioni diafane]
A
successioni diafane la luce si infila nei fondi di bottiglia
incastrati
lungo il muro intorno alla casa del custode
enfatizzando
colori
avanzano
le ombre del primo pomeriggio in processione
le
stesse ombre, nell’ordine, ricadenti nell’ipogeo
accanto
al dio pagano eretto a nuovo edificato
la
chiesa rupestre in alto conserva due busti di santi:
un
san Biagio della gruccia
un
sant’Antonio dell’elastico o della locandina
sommano
insieme i momenti di una inosservanza.
Correva
l’anno del clero (o di chi per esso)
dimentico
di ricordare
di
onorare i santi assieme alle madonne
se
per le seconde, ignorarono i primi.
Assolvendo
loro
lo
sguardo elevano alle volte
nella
casa paterna.
(h.:
16,31 - 12.04.012- h.: 18,11 21.05.012)
[Siamo
al punto]
Siamo
al punto in cui la poesia è tale se parla di naufragi
esordisce
il presentatore della serata.
Forse,
ma alla poesia non si può addossare tutto, replicherei,
perché
la stessa letteratura è un naufragio, se non fosse
che
forse è stato già detto. Non si vede nulla
le
luci tra gli alberi mandano deboli bagliori luminosi
ma
va bene così. Una donna assorta nell’ascolto
poco
fa ha disfatto una rosa. Voleva solo toccarla, ma
una
rosa è una rosa
c’è
poco da toccare, anzi, è vietato
la
rosa bianca ha ceduto sotto la ricerca di un motivo
nella
pressione di due sole dita
una
pressione leggera, un tocco appena
una
rosa bianca sfatta rimane per terra
inutile
tentare di riposizionare le unghie nel ricettacolo.
[La luna piena di Valencia]
La luna piena di Valencia è
una sfera di cristallo, radiosa di sole
«la luna verde» di Bodini ha
riflessi d’ambra della più giovane stella.
Valencia è un uomo calato
nel cassonetto della raccolta differenziata
visto sbucare all’improvviso
nel passeggio sulla nitida avenida
è Lucrecia trasferitasi
dall’Argentina con tutta la sua famiglia
un’aria di eterna primavera
che senti dentro
lo sconosciuto che ti presta
il suo tempo per farti sentire a casa.
Le miserie dell’altro sud
dirimpettaio sono sprofondate nel pozzo.
[Dal menù especial]
Dal menù especial Riviera un
panino non panino
con tanto di uovo fritto sopra
a tutto il resto.
La ragazza mora al bancone
se è del posto non si sa
sta servendo a uomini che
parlano spagnolo
(in Spagna, si sa, si parla
lo spagnolo).
Encantado! Le dice un tipo
che, uscendo, dopo il sorriso
indossa in strada il
suo viso triste. Nascondeva
una verità dietro una
maschera.
[Nello scomparto]
Nello scomparto siamo tutti
in pena per la giovane donna nera
con gli occhi pieni di
pianto e le guance rigate urla al cellulare
parole in un crescendo di peace
(o please, non saprei)
I don’t know why do... A questa donna vorrei poter dire
please, don’t cry!
al mondo non c’è nessuno che
meriti le tue lacrime;
quando, all’ennesima
telefonata in quindici minuti
lei smette il pianto e
prende a parlare con forza e decisione, come a
voler puntualizzare un
pensiero lasciato sospeso. Lo stesso cipiglio
sentito dalla bocca del
ragazzo che, a piedi nudi sullo scoglio, il braccio teso
urlava al mare: ti sfido, ti
sfido! E un amico lo avvertiva: arriva l’onda!
Ubu
roi nel cielo
Roi
Ubu s’è fatto nuvola!
A
spasso se ne va con un’amica
nuvola
anche lei, naturalmente
la
porta nel buco al centro della pancia
mostrandole
dall’alto il mondo intero.
Con
parole velate, amore in sé,
le
dice:
«Vieni,
cara, con me nel cielo
leggi
con me, instancabilmente
insieme,
proviamo a leggere
leggere,
leggere:
leggère
poesie d’amore».
6 commenti:
Avete ascoltato CONSIGLI PER GLI ACQUISTI a cura di giorgio linguaglossa
Gentile signore/a, perché non firmarsi?
Giuseppina Di Leo
Ad una prima lettura queste poesie mi sono molto piaciute. Sia per l'uso liberissimo del verso libero che per l'originalità delle immagini e delle situazioni descritte. Dato l'indizio su Ubu roi avevo anche riflettuto sulla buona scuola di Jarry, sulla patafisica e il surrealismo. A memoria e senza una vera ragione, mi sono anche tornate alla mente le poesie del primo Neruda, quello delle poesie d'amore.
Poi, come un detective di provincia, ho approfondito qui e là con risultati che Linguaglossa ha comunque già ben spiegato. Prendiamo ad esempio questi versi:
"Il sole non riposa nemmeno oggi che è domenica
scansa nuvole a più non posso, entra da me
seducente come un’ombra e con un’ombra scappa via"
Un poeta diverso, diciamo uno normale se ce ne fosse, avrebbe scritto, butto lì:
Come ombra il sole scansa le nuvole / e con un'ombra scappa via.
Tredici parole invece di ventotto, meno della metà. L'economia non c'entra, ho solo notato un certo imbarazzo sul verso breve quando arriva ( perché se si è poeti arriva inevitabilmente), come in questo caso:
"sono il nunzio
la polvere d’oro caduta dalle mani
la palla lasciata nel cortile."
Lo scarto è sul terzo rigo, come se il lirismo del secondo portasse ad una pericolosa mancanza di respiro, a qualcosa che si vorrebbe evitare. Così è la prosa che viene in soccorso, ma non una prosa qualsiasi, è proprio narrativa di qualità: originale, personalissima, spiazzante, creativa.
Ciò detto, non serve parlare di gradevolezza estetica, di bello o brutto, che sono i principali criteri che mi son scelto come lettore, perché, tornando a Jarry, dal momento che le interpretazioni sono infinite non bisognerebbe decifrare i fenomeni in un sol modo. Prosa e poesia quindi, se considerate entrambe come eccezioni, sarebbero tra loro in rapporto di equivalenza.
Se c'è un senso comune anche nell'interpretare la poesia, allora bisognerà provvedere perché ne va dell'unicità di ogni singola interpretazione. Da un'intervista alla Di Leo: "… se lo studio e la preparazione sono importanti, ritengo che importa ancor di più che la poesia deve essere libera da schemi, divisioni, libera da confini." Insomma libera di manifestarsi a piacere, tanto nella vita quanto nella scrittura prosastica.
mayoor
Ubu roi è collerico e intransigente. E, in qualità di militare, ama comandare e farsi rispettare. Alfred Jarrry, pur non essendo il suo creatore, da creativo quale è stato, lo ha adottato prendendolo in prestito da un suo compagno di scuola il giorno in cui questi gli fa leggere una satira studentesca che il fratello aveva scritto qualche anno prima ispirandosi alla figura di un professore di fisica che tutti detestavano, il prof. Hébert, «detto anche Padre Hébert, divenuto in quella scuola simbolo del grottesco al punto di essere designato dagli allievi con svariati epiteti e nomignoli» (Enrico Baj, La Patafisica, Bompiani 1982). La commedia di Ubu re, «questa specie di macchina-mostro-marionetta» (Baj), simbolo della volgare grossolanità del potere, nasce dunque dalla fervida fantasia di alcuni studenti liceali, un ‘collettivo’, come lo definisce l’autore del libro, l’artista Enrico Baj.
Ringrazio davvero Majoor, innanzitutto per la curiosità che la mia poesia gli ha sollecitato e anche, rimanendo in tema di Patafisica - la scienza delle soluzioni immaginarie - per avermi dato la possibilità di poter fornire qualche ragguaglio sulla figura di questo personaggio teatrale, Ubu roi, e del suo autore, Alfred Jarry, entrambi oggi conosciuti solo agli addetti ai lavori ma ignoti a tanti. Impossibile per me nascondere a questo punto, che il mio re Ubu ben poco ha a che vedere con il personaggio di Jarry e non soltanto per la anteposizione dell’apposizione. La poesia parla di un innamorato che, navigando tra le nuvole, mostra alla sua bella nientemeno che la bellezza della poesia, e per giunta nella sua veste più autentica qual è appunto la poesia d’amore (leggerezza - che non significa banale - è, direi, la cifra della sua sincerità ). Ma è anche inutile negare il riferimento esplicito al despota, presentato però sotto una veste nuova quanto auspicabile. E tutto sommato, penso che lo stesso Jarry ne sarebbe soddisfatto, se è vero com’è vero quello che affermava a proposito della Medicina, dai patafisici chiamata Merdicina (sic!): «Questa scienza in ogni caso insensata di trattare esseri variabili e diversi mentre una scienza non può essere che di unità simili, di punti matematici o di sistemi di punti: e inapplicabile agli intelligenti, la cui struttura interna dei corpi, come degli spiriti, verosimilmente differisce, e che hanno il cuore a destra quando non l’hanno appeso al lobo di un orecchio: se lo portano a destra è per modestia. (Libro II, cap. III».
Sulla poesia “Riandando splendido”, il verso la palla lasciata nel cortile, nella sua successione, invita a uno sguardo al contempo esterno e di immobilità: nessuna verità né maiuscola né minuscola da annunciare.
Giuseppina Di Leo
ERRATA CORRIGE: A pietre d'ambra.
Giuseppina Di Leo
Tra le disattenzioni: Majoor anziché Mayoor. Chiedo venia a Mayoor.
gdl
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