mercoledì 12 settembre 2012

Giorgio Mannacio
Salutari provocazioni d’estate
(Agamben, De Angelis,Fortini)


Salutari provocazioni d’estate ( Agamben, De Angelis,Fortini )
Rifletto sulle salutari provocazioni di Ennio Abate e che ho individuato nel titolo.
Nonostante la diversità ( parziale ) dei loro oggetti finiscono per confluire nel grande fiume delle considerazioni sull’attualità. Le provocazioni hanno curiosamente una sorta di tratto comune apparentemente banale dal quale ritengo utile cominciare.
Inizio da Agamben (qui), autore del quale ho letto diversi saggi e che ritengo dotato di straordinario acume filosofico ( raccomando la lettura di Il linguaggio e la morte, Einaudi 1982 ).C’era bisogno, mi chiedo,di avvertire i lettori ( quasi intimidendoli ) che hanno a che fare con una delle dieci teste pensanti esistenti nel mondo ?
Quale mondo,poi?

Passo a De Angelis (qui e qui) la cui opera poetica non conosco. C’era bisogno di avvertire i lettori ( quasi intimidendoli )  che ci troviamo di fronte al più grande poeta italiano vivente ? Rispetto ad Agamben la platea spaziale di riferimento è meno vasta,ma solo all’apparenza.
Le due affermazioni – che immettono subito nel circuito “ del mercato e del consumo “ ( chi è tanto stupido da rifiutare il “ prodotto migliore “? ) – hanno l’effetto immediato e direi, naturale, di creare due partiti se non scatenare invidie represse. Se è difficile competere con chi possiede le armi raffinatissime del pensare filosoficamente , lo è meno con chi , in fondo ( questo è il recondito pensiero ) scrive secondo linee di linguaggio ( quasi ) comune. Tutto ciò preclude, mi pare,un ragionare più pacato e criticamente avvertito.
Passo al merito della questione.
Agamben appunta i suoi rilievi sulla situazione generale ( politica-sociale-economica: è tutt’uno ). Come non essere d’accordo   con lui ? Condivido in pieno le sue osservazioni – che vanno “ oltre “ – secondo cui alcune parole - ripetute con insistenza – non sono concetti sui quali discutere ma “ comandi indiscutibili “.
Colgo anche assonanze con le mie visioni del mondo nel suo rilievo che la nozione di passato ha per noi europei un contenuto diverso rispetto a quello che la stessa nozione assume in altri continenti. Mi pare opportuno osservare che il termine Europa non individua tanto uno spazio ma un “ dimensione culturale “
In Europa vi sono “ anche altri Continenti “.
Sarebbe intellettualmente ingeneroso cogliere nella parte costruens dell’intervista ad Agamben alcune genericità. Mi basta entrare in essa per osservare come si debba riflettere sempre, sempre di più e sempre più profondamente sulla estrema complessità del mondo attuale. Sostituendo il termine “ distruzione “ ( che introduce inevitabilmente un discorso su responsabilità individuali e/o collettive ) con quello “ oggettivo “ di abolizione si deve constatare che assistiamo all’abolizione di una serie di oggetti reali (piante, animali,popolazioni,opera d’arte ) ma anche di “ categorie del pensare “. Lo spazio sta per cessare.
Forse resiste ancora il Tempo. L’abolizione dello spazio ha avvicinato ma anche distanziato intere comunità attraverso la perdita dell’identità. La Cina….è vicina come dicevano alcuni guru,ma è dentro i sistemi economici d’ogni paese anche con il proprio sistema produttivo che ignora le regole sul lavoro umano che per alcuni paesi sono giustamente intoccabili.
Lasciamo perdere i discorsi fisici e metafisici sulla conquista dell’immortalità e torniamo ai nostri autori.
In che senso tutto quello che ho scritto si innesta con la meno drammatica riflessione sulla poesia di De Angelis e sulla poesia in  generale ?  Sulle arti in generale, direi.
In coda all’intervista Agamben fa una affermazione che condivido e che, (im)modestia a parte, era contenuta nel mio La poesia come oggetto. Il paradosso segnalato da Agamben , e che semplifico, si traduce nel rilievo, giusto e drammatico, che “ chi “ ha determinato la morte dell’arte si fa pagare tale morte col prezzo dell’oggetto ( artistico ).
Orbene poiché, fino a prova contraria, anche la poesia è un’arte mi sento autorizzato ad estendere l’ellittico ma penetrante  paradosso di Agamben anche alla poesia e così torniamo a De Angelis ed ai poeti in generale.
Ripartiamo , dunque, dal giudizio che ricordavo all’inizio. Esso implica, logicamente e preliminarmente,una ricognizione totalitaria di tutta la poesia italiana. Tale rilievo, banale quanto si vuole e pertanto ingiustamente negletto, è risolutivo. Esso non è una “ critica estetica “ alla poesia di De Angelis ma alla mancanza di cautela dei critici. L’obbiezione secondo cui non si dovrebbero considerare  “ i sedicenti poeti “ ma solo “ quelli che sono oggettivamente tali “ ( e solo a questi si riferirebbe il giudizio ) incontra una serie di difficoltà di altra e più nobile natura. Chi è l’autorità che stabilisce tale differenza ?     
Semplice. Poeti sono solo quelli “ riconosciuti come tali “ dalla critica. Il discorso si complica perché – con una sorta di rimando “ all’indietro “ - sorgono altre domande ineludibili: quale critica, quali critici ? In base a quali principi si attribuiscono il potere di stabilire la differenza ( la fortiniana Verifica dei poteri ) ?
Se i poeti piangono e si denigrano a vicenda, i critici non ridono. Anche tra loro si aprono (in)cruente lotte intestine e si inventano  distinzioni che dovrebbero legittimare una certa superiorità di una categoria di critici rispetto ad altri.
Non sono pirroniano a tal punto da mettere sullo stesso piano tutti coloro che svolgono attività critica sul lavoro letterario altrui.L’euristico rilievo che vi siano critici seri e critici meno seri  pone alcuni problemi sulla identificazione dei criteri  di valutazione del grado di serietà. Credo ( ancora ) alla salutare funzione dell’insegnamento istituzionale e ne difendo ( ancora ) la relativa serietà.Se la distinzione tra critici accademici e critici non accademici viene riportata – secondo la lettera – alla fonte del potere del critico e viene screditata la prima , ritengo di trovarmi di fronte ad un vero e proprio pregiudizio che non mi sento di sostenere. La mia esperienza di letture mi ha portato spesso ad imbattermi in “ accademici” di enorme acutezza e serietà e ciò mi basta. Se la preparazione accademica è una delle condizioni per raggiungere una certa serietà critica la posizione pregiudizialmente contraria alla critica accademica non è ragionevole.
Il discorso ci porta ,dunque, al problema della “ critica militante “ che sembra – nel linguaggio – contrapporsi all’accademia.Si tratta  di una contrapposizione che presa nella sua assolutezza è priva di senso. Basterebbe a provarlo il rilievo che molti critici definiti militanti hanno alle spalle solidissime radici accademiche .
In realtà , per quel che può valere,il termine “ critica militante “ individua un critico la cui posizione culturale ( e segnatamente politica ) viene assunta in modo esplicito quale base ( ancorchè non esclusiva ) dell’iter argomentativo critico sull’oggetto letterario.Non estenderei però tale nozione oltre i proprio limiti, quelli storicamente accertabili. Il critico militante non è perciò dotato del singolare privilegio di essere più attendibile degli altri. Egli, semmai, mostra,con maggiore onestà intellettuale, i presupposti del proprio ragionamento ed è quindi maggiormente attaccabile e più indifeso esponendosi all’accusa di valutare secondo un dichiarato pregiudizio ideologico.
Fortini confessa ( e in larga parte condivido il suo atteggiamento ) di desiderare l’incontro con un detrattore di T.S Eliot che, come è noto, viene canonicamente definito come uno dei massimi esponenti della letteratura angloamericana.
E’ chiaro, per coloro che sono a loro volta detrattori di Fortini,avanzare il sospetto , se non la certezza, che la sua posizione sia dettata da pregiudizio anticattolico.Le persone culturalmente serie si faranno carico di capire ,leggendo quanto scrive in proposito Fortini ) se e perché l’atteggiamento di Fortini sia criticamente attendibile.Ma a parte questo rilievo, da me posto in astratto,non basterebbe certo l’etichetta di critico militante per negare a Fortini la qualità di critico di notevole qualità.
L’ insofferenza verso la critica accademica – spesso molto giustificata – si scontra con altre considerazioni. 
Non è vero – l’osservazione del reale lo dimostra – che i critici militanti ( qui uso il termine nel senso volgare e del tutto improprio di “ critico non accademico “ ) si astengano – in assoluta purezza – dall’appartenere ad una “ propria accademia “. Giordano Bruno si professava “ academico di nulla academia” rivendicando con il proprio motto non l’assenza di un retroterra culturale ma la “ propria non barattabile individualità “.
Anche i militanti/non accademici si circondano di seguaci e celebrano, se e quando possono, i propri riti di esaltazione ed esclusione.
Nulla “ garantisce “ l’imparzialità. Né l’accademia né l’antiaccademia . Ci sarebbe da chiedere se all’imparzialità non sia tempo di sostituire “ l’equanimità “cioè l’esternazione di regole di giudizio, l’applicazione a tutti delle stesse regole e, infine, il dovere culturalmente etico di esternare nel ragionamento critico il proprio iter argomentativo.
Dunque bisognerebbe mettere sempre da parte esaltazioni e denigrazioni ( dimentichiamo, nel nostro caso “ il citofono aspetta “ : De Angelis, per quello che so di lui, non merita questi colpi bassi quasi fosse un Achillini eternato dal suo “ sudate o fochi a prepara metalli…” )  e affrontiamo seriamente ogni testo ed ogni autore con spirito equanime.
Che altro dire?
Tutto alla fine sembra “ tenersi “ nel senso della sempre più stretta connessione tra individualità e socialità,binomio che sconta il rischio del predominio del più forte. Ogni età spera e teme di rappresentare l’anno mille della storia del Mondo, ma sembra davvero che nessuna è forse stata così esplicita nel mostrare segni distruttivi del “ passato” ( al di fuori dal campo strettamente antropologico anche l’acqua, le foreste, gli animali ,sono passato ). Mi sembra che anche la poesia non si sottragga a tale rischio ( come potrebbe se è cosa umana ? ) . E’ evidente – nelle strategie artistiche che tentano la fuga dalla distruzione – il pericolo di una perdita di socialità. Ma anche su tale punto occorre riflettere nel senso di verificare – con attenzione e senza paura – quanto tale effetto sia negativo e se un giudizio negativo non nasconda una eccesso di ideologia. La mia riflessione non mi ha portato a conclusioni definitivamente soddisfacenti ma – credo – che il linguaggio della poesia non può essere quello del mercato. Con quel che precede e segue tale modesta conclusione.    

 settembre 2012.

20 commenti:

giorgio linguaglossa ha detto...

Caro Giorgio Mannacio,

per quanto riguarda l'opposizione «critica militante critica accademica» io non vedo nessuna opposizione, entrambe si muovono entro uno stesso orizzonte ed entrambe tentano una legittimazione dell'esistente secondo le gerarchie di valori già stabilite. Ma c'è una differenza: che la critica accademica esercita il proprio ruolo con alle spalle l'Accademia che suggella con un timbro di autenticità il proprio responso mentre la critica non accademica ha alle spalle di solito una Istituzione culturale (che, notoriamente ha un minor peso specifico rispetto ad una cattedra di italianistica). Quindi io non traccerei questa linea di demarcazione per il semplice fatto che non c'è. L'unica linea di demarcazione è oggi tracciata e costituita da una questione utta "politica": «tu chi sei che parli? Chi ti ha legittimato a parlare?», e così via... Ritengo che la scomparsa della critica militante (intendo quella vera dei Fortini, dei Pasolini, dei Sanguineti) sia identificabile agli inizi degli anni Settanta, e per indubitabili ragioni storico-economiche, nonché a causa dell'ingresso della rivoluzione mediatica. Oggi la parola «critico militante» non ha più senso, non richiama alla mente nulla, non designa un referente, indica un vuoto, indica la propria assenza; tanto è vero che lo scrivente si designa con un'altra parola, io dico che sono un «contemporaneista», cioè un contemporaneo che si occupa del contemporaneo. E in questa frangenza si cela (appena visibile) una emergenza: la scomparsa della geografia spazio-temporale così come si è configurata nella «tradizione»; e di questa scomparsa il «contemporaneista» deve continuamente rendere conto con l'esercizio del cd. pensiero critico.

Per quanto riguarda i «colpi bassi» che tu imputi alla mia annotazione critica sull'enunciato poetico deangelisiano «il citofono aspetta», vorrei chiederti le ragioni, se ragioni ci sono, per cui designi quella mia notazione critica come un «colpo basso»; e inoltre, vorrei pregarti di indicarmi anche la linea di confine che separa i «colpi bassi» da quelli «alti». Insomma, caro Giorgio, ti vorrei chiedere se il tuo gentile richiamo non significhi anche un gentile richiamo a fare una critica politicamente corretta, cioè che escluda quelli che tu ritieni essere «colpi bassi».
Io invece ritengo che ci sia (ed è ben visibile oggi in Italia) che ci sia una pseudo poesia che fa ricorso abbondante ai «colpi bassi», che mira a imbonire lo spaurito lettore con sentimentalismi e emozionalismi. Questi sì che li ritengo «colpi bassi!» da demistificare e denunciare! Come vedi io le cose li vedo in maniera diversa, addirittura all'opposto del tuo punto di vista.

Anonimo ha detto...

Caro Linguaglossa ,chiarisco. Mi dici che non esiste più la critica militante. Ti credo.Ma il termine si usa ancora ed io ho dato una mia spiegazione. Gli esempi che porti mostrano che non era poi tanto male. Dici di essere un contenporaneista e correttamente spieghi.E' un termine che non crea alcuna opposizione con altri. Tutti lo sono perché nessuno conosce tutta la poesia contemporanea. In ciò non vi è alcuna colpa.Ciascuno si ritaglia il proprio spazio che oserei chiamare geo-poltico e di esso si occupa.Nuovo significato di militante ? Quanto a De Angelis volevo solo dire di non giudicarlo per un verso( riconosco: non felice ).Nulla di più. Tutto il resto è travisamento.A volte non si è chiari,altre volte non capiti.Molto cordialmente. G.Mannacio

Nicola Borletti ha detto...

Mi sembra discutibile affermare, come fa Giorgio Linguaglossa, che al posto di "il citofono chiede ancora la tua voce" è meglio scrivere "La voce chiede ancora il citofono". E ancora più discutibile (Luigi Manzi) trasformare quel verso in "vorrei sentire ancora la tua voce al citofono". E comunque, in generale, mi chiedo se è legittimo che un critico faccia questi giochi di sostituzione, proponendo poi come versione migliore la propria.

Ero già intervenuto, martedì 11 agosto nel blog "poesia 2.0", sui versi di Milo De Angelis citati da Linguaglossa. E adesso lo ribadisco: a mio parere, questi versi non sono stati intesi nel modo migliore. Scrivendo "il citofono chiede ancora la tua voce", De Angelis vuole sottolineare la forza imperativa degli oggetti che ci chiamano a sé e ci chiedono di parlare. E' un tema frequente in questo autore. De Angelis ha ripetuto più volte che gli oggetti amati, le strade e i luoghi amati esigono la nostra parola, quella che sa nominarli con esattezza. Solo così riprendono ad esistere.

Ora, tutta la poesia in questione è attraversata da questa esigenza. Rileggetela (la riporto alla fine di questo mio intervento) e vi renderete conto che si tratta di un ritorno. C'è qualcuno che ritrova una strada del suo passato e scorge un portone dove era avvenuto qualcosa di essenziale, qualcosa di felice che ha lasciato una traccia ("La luce parlava. Sulla tua fronte/il prodigio"). E' sera, la strada è deserta, si vede solo la luce fioca del citofono. Il ricordo si fa vivo. Appaiono dei gesti e dei colori: "un vestito,/i gialli, gli azzurri,/un colletto". Tutto gli domanda di restare, di afferrare meglio quei frammenti di e quei richiami di un'altra stagione. E tutto gli impone di parlare ("Il citofono chiede ancora/la tua voce. Se non parli, /tutto si oscura").

E lui davvero sente che quel citofono "pretende" la sua voce. Altrimenti dominerà la solitudine: "solitudine saliente/solitudine innata". Altrimenti i corpi incontreranno il nulla: "congiungersi/ dei petti nel nulla". La parola è l'unica via. Quel citofono l'attende. L'unica via per ritrovare la terra è la parola, che gira insieme a lei: "stretta alla terra/ruota la parola". Bisogna fermarla e pronunciarla perché il tempo perduto si riaffacci.

E' una poesia, in fondo, semplice. Segue una sua logica, che ovviamente non è quella del discorso comune, ma esiste e viene condotta fino in fondo. Afferrando il filo di questa logica e fermandosi con cura su ogni verso, sarà possibile comprenderla ed entrare nella scena che ci viene presentata.

La luce parlava. Sulla tua fronte
il prodigio. La nudità
di tutto il sangue. Un vestito,
i gialli, gli azzurri,
un colletto. Il citofono chiede ancora
la tua voce. Se non parli,
tutto si oscura. Solitudine saliente.
Solitudine innata. Congiungersi
dei petti nel nulla. Stretta alla terra,
ruota la parola.

da "Quell'andarsene nel buio dei cortili", ed. Mondadori, 2010, pagina 55

Anonimo ha detto...

"Il citofono chiede ancora/la tua voce." Azzardo che quando ci si nega all'uso dell'io, quando di questa negazione se ne fa un must, queste cose possano accadere. De Angelis ricorre all'io quasi controvoglia, talvolta costringendolo dentro istantanee, quasi per esigenze figurative, narrative, e così fa anche quando usa il noi. Io e noi impoveriscono, l'impersonale invece porta con se' altre altezze, anche nel caso si parli di istanti, quasi minuzie. Anche "Congiungersi/dei petti" soffre per quel must. "Ruota la parola", e si scrive.
E' una poesia sull'assenza. Bella, ma un po' affaticata. Di solito va più spedito, ma finché ricorrerà all'io in questo modo (non è il caso di questa poesia, ma in altre sì), lui che ne sa di psicanalisi, di filosofia... l'io: questo niente, o questo poco che sembra... butta giù, è imbarazzante. Quella poca stima di se', nell'ordinarietà, può generare in chi legge la sensazione di cogliere un declino. Ma l'ordinarietà, se non intesa come giudizio, è il luogo dove accade tutto ciò che ci riguarda personalmente. Ci si dibatte tra il piccolo mondo reale e l'universo delle congetture, tutte ideali, tutte astratte, sapienti, perfino geniali, ma di fatto tutte irreali. Questo piccolo mondo reale è anche il tentativo minimalista, quand'è onesto e quando riesce.
Quanto a quel "nulla" a me sembra collegato sia alla "terra" che alla "parola", senza tanti sottintesi. E' particolarmente in questo verso che sento l'affaticamento della costruzione. L'assenza, nel piccolo mondo, è dramma vero.
mayoor

Anonimo ha detto...

Giorgio Mannacio parla di gioco di squadra al giovane Linguaglossa che fa il centravanti, ma Linguaglossa è un numero dieci, un fantasista!
mayoor

Unknown ha detto...

Se proprio devo dire, in tema di colpo basso, per le cose che credo stiano a cuore tanto a un Giorgio quanto all'altro, il minimo denominatore comune al di là del nome che entrambi non hanno scelto, v'è quella cosa che preme ad entrambi di forte denuncia del doping culturale alla formazione delle coscienze, vuoi politiche , vuoi poetiche, vuoi tutti gli altri aspetti della vita.Della vita degli italiani credo sarebbe troppo riduttivo per entrambi poiché l'ingrediente della truffa a mezzo media e manipolazione, non è relativa solo al nostro paese, mentre lo é il fatto di non aver potuto vivere come in altri paesi a noi paragonabili, una poesia profonda ma popolare..aspetto che forse, ripeto FORSE ha smarrito l'approccio di un Giorgio, L., rispetto alla sua lettera M. immediatamente legata e successiva.
Linguaglossa nel gioco delle carte, carte chiaramente critiche poetiche, lo immagino, per continuare l'allegoria di Maayor, come un Jolly con uan chiara volontà a scomBUSSOLAre...l'essere così, che significa anche essere sco-modo, lo fa scontrare sul piano appunto del modo, del come, vedi appunto ricorrente che riceve quando entrando nelle parole altre, di un altro poeta, gli riscrive il tutto pur di giocare l'essenza, che valga 2 di picche la carta mancante o che ne valga 10 o donna di cuori. In un mosaico a un orizzonte ancora tutto da costruire, è necessario tanto quanto la brutta o bella copia, originale della carta con punti minori di tutte le altre. Il problema grande grande che potrebbe essere irrisolvibile perché troppo facile da risolvere per vincere una partita plurale, riguarda sempre il come..ergo come interiorizzare in ogni singolo "io" che intende giocarla(nella comunitaria battaglia dei poeti), il proprio limite, senza la quale consapevolezza "i meridiani" del loro corpo continueranno inesorabilmente ad essere sostituiti da apparati bionici fatti da altri giocatori conformi agli standard di produzione richiesti per addomesticare i lettori a emozioni, sentimenti, riflessioni accomodanti ai sistemi di controllo degli apparati stessi. la guerra fra poeti conviene ed è già un perno come tutti gli altri conflitti su cui punta il sistema dei poteri nella piu riuscita guerra, di sempre, quella fra poveri, basata sul dividere ma facendo vieppiù finzione di (ri)comporre i conflitti.
In mondo interiore multipolare, di cui in ogni tempo si è fatto di tutto per bloccare alla nascita la sua crescita, c'è posto per tutte le carte, ma è stato più facile calare dall'alto al basso e ritorno e diagonale, una rappresentazione per cui vengono nascoste tutte tranne le solite due,di solite due ali, con cui far giocare una partita truccata ab origine e facendo credere che sul tavolo ci siano anche quelle nascoste.
Più, per me si è consapevoli di questo trucco, più si può riprovare il desiderio di trasferire il paradiso perduto di quelle carte tutte, al mondo esterno,alle relazioni o addirittura i rap-porti con gli altri mondi, carte, mappe etc etc

giorgio linguaglossa ha detto...

Gent.mo Nicola Borletti,

non vorrei apparire quale stroncatore della poesia di De Angelis, perché non lo sono, nel passato ne ho scritto in termini positivi e problematici (ma nessuno si è accorto che anche nei primi articoli di 20 anni fa io indicavo alcuni nodi irrisolti o che si avviavano a diventare delle congiunture stilistiche) e nell'ultimo articolo (quello che ha causato una grande discussione) ho definito la sua poesia di «indubbia caratura». Quindi vorrei precisare che non faccio mai personalismi né mi interessano le persone fisiche che ci sono dietro i testi. Quello che voglio dire è che questa poesia così ricca di asintattismi, di pars pro toto, di dettagli con salti logici e sintattici, con inversioni e abbreviazioni iperboliche (i gialli, gli azzurri, il citofono che chiede la voce, etc.), dopo 40 anni di attività ha dato i suoi frutti e che possiamo tranquillamente voltare pagina. Non si può più scrivere alla maniera di De Angelis perché è diventata una maniera, una procedura ben oliata, una tecnica quasi automatica. Il mio articolo e i miei successivi commenti volevano risvegliare le intelligenze su questo problema, che per questa via si imbocca un vicolo cieco, che la poesia italiana deve (se vuole sopravvivere) svoltare per un'altra strada e avere il coraggio di percorrerla fino in fondo. Fare come hanno fatto i miei detrattori (che hanno tentato di coprirmi di epiteti non proprio signorili perché avevo rotto il vaso di Pandora) i quali hanno citato tutto il Gotha della critica sulla poesia del Nostro, mi è sembrato scorretto (come bene ha indicato Navio Celese) mi è sembrato reclamare il "principium auctoritatis" delle celebrità della critica italiana. Posto questo preambolo, il succo del mio discorso è molto semplice, e l'ho detto chiaramente: c'è bisogno in Italia di cambiare registro stilistico, cambiare strada, cambiare il punto di vista dal quale si guarda alla poesia italiana. Non credo di aver pronunciato anatemi o eresie rivolte ad alcuno, ho tentato di rimanere sul piano del ragionamento oggettivo e della riflessione critica. Quella tecnica, quella procedura di De Angelis è facilmente replicabile, clonabile, riattuabile come ha dimostrato la riscrittura di parte di quella poesia fatta da Laura Canciani, e questo è un segnale molto negativo della bontà e autenticità della poesia deangelisiana degli ultimi due decenni: che essa è diventata, presso gli epigoni, replicabile, che ha esaurito la sua funzione propulsiva.

Anonimo ha detto...

Caro Giorgio Linguaglossa,

ti prendo in parola: ho impiegato due minuti a clonare variandola la poesia citata da Borletti:

(versione di Milo De Angelis)

La luce parlava. Sulla tua fronte
il prodigio. La nudità
di tutto il sangue. Un vestito,
i gialli, gli azzurri,
un colletto. Il citofono chiede ancora
la tua voce. Se non parli,
tutto si oscura. Solitudine saliente.
Solitudine innata. Congiungersi
dei petti nel nulla. Stretta alla terra,
ruota la parola.

ecco la mia riscrittura:

Il buio parlava. Il prodigio
sopra la tua fronte. Un vestito
di tutto il sangue. La nudità,
gli azzurri,i gialli,
un bottone. La tua voce chiede ancora
il citofono. Tutto si oscura
se parli. Solitudine innata .
Solitudine saliente. Congiungersi
del nulla sui petti. Ruota alla terra,
la parola stretta.

Laura Canciani



Anonimo ha detto...

@canciani
nella sua versione, particolare non da poco (forse non ha capito la poesia), manca il morto.
mayoor

Teo ha detto...

Mi sembra utile riportare (in parte) il notevole scritto di Daniele Barbieri sulla critica prescrittiva ("guardareleggere")

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La critica prescrittiva non è ovviamente sempre così becera da dire esplicitamente “si fa così” o “così non si può fare”, ma non è, in ogni caso, affatto difficile ritrovare nel suo discorso queste morali. A titolo di esempio, uno per tutti, si può citare intervento e dibattito (specialmente il dibattito) tenuto in questa sede a proposito della poesia di Milo De Angelis. Nel dibattito vi sono anche numerosi interventi interessanti, e una lodevolissima documentazione su interventi critici di difficile riperimento, riportati interamente o in parte, pro o contro De Angelis (cui è seguita nel medesimo sito/blog poesia2punto0, nei giorni successivi, la pubblicazione di altri interventi critici su De Angelis, e sul post in oggetto, e altre polemiche ancora altrove); mi vi è anche un’interminabile serie di interventi volti a dimostrare (quasi more matematico) che la poesia di De Angelis è sbagliata, e che così non si fa, sino ad affermare testualmente (Laura Canciani): “NO, la poesia deangelisiana non può essere affatto utile all’obiettivo da conseguire, integralmente tardo novecentesca nella sua impostazione di fondo e nella sua costituzione, non ci può dire nulla di nuovo di ciò che sapevamo già”.
Parlare in questi termini (tutto sommato piuttosto frequenti nella critica poetica) vuol dire condannare De Angelis non tanto per la qualità della sua poesia, quanto perché le prescrizioni che da essa sarebbero ricavabili non sono utili all’obiettivo da conseguire, anzi controproducenti. L’intervento è rivelatorio proprio a causa della sua rozzezza, perché esplicita quello che critici più raffinati stanno attenti a non esplicitare, o danno per scontato: cioè che ci siano degli obiettivi da conseguire, e che tali obiettivi siano sufficientemente chiari.
Ora, è evidente che una critica prescrittiva si giustifica soltanto se ci sono degli obiettivi chiari e condivisi da conseguire. Quali sono questi obiettivi? E, per quanto riguarda il fumetto, tali obiettivi non esistono, oppure esistono ma la critica preferisce ignorarli, o non scontrarsi sul loro campo?
Cerchiamo di far qualche luce sulla prima delle due questioni, lasciando la seconda a una riflessione futura. Quali possono essere gli obiettivi della poesia, così chiari e condivisi da poter pensare di dimostrare che la poesia di De Angelis non è adatta a dare indicazioni per conseguirli? Suppongo che siano qualcosa come: testimoniare il proprio tempo, esprimere la condizione umana nel presente (nella fattispecie nell’epoca dell’abbrutimento e dell’alienazione tardo-capitalista). Qualcosa di questo genere salta fuori in generale sempre quando si cerca di capire a cosa serva la poesia.
Sono asserzioni generiche, anche la seconda (pur se meno della prima). Da sole non giustificherebbero né potrebbero sostenere alcun livello di critica prescrittiva. È perciò necessario che il critico, che egli lo espliciti o meno, abbia opinioni molto più dettagliate di queste. Nel post citato, per esempio, l’autore Giorgio Linguaglossa cerca di esplicitarle almeno in parte in uno dei commenti, come spiegazione a posteriori delle ragioni del suo attacco a De Angelis.
Quello che mi colpisce, di queste esplicitazioni, o di quello che si può intuire di implicito ogni volta che la critica assume colorazioni prescrittive, è che il critico mostra di avere un’idea molto chiara di quello che è il nostro tempo, di quale sia il suo problema, e di conseguenza di come la poesia dovrebbe fare per esprimerlo. Personalmente, in questi casi, sono sempre incerto tra l’essere ammirato e l’essere imbarazzato: ammirato perché piacerebbe tanto anche a me possedere certezze del medesimo livello; imbarazzato perché ho la sensazione netta di vedere quello che il critico in questione non vede, ovvero i limiti abissali delle sue certezze.


Teo ha detto...

(SEGUE - Daniele Barbieri Critica prescrittiva)

Giusto per fare un esempio. È un luogo comune della critica poetica che noi si viva in una società alienata e inautentica, e che la poesia che non esprima questo sia per forza necessariamente inautentica (anche di questo si accusa, per esempio, De Angelis, in molti dei commenti di cui sopra). La neoavanguardia italiana, come tanta arte cresciuta sulle teorizzazioni di Adorno, vive integralmente su questo presupposto; e vi continuano a vivere tanti suoi epigoni.
Ora, non si tratta di negare che esista l’alienazione e l’inautenticità, perché basta accendere il televisore per accorgersene; o nemmeno di negare l’importanza sociale di questa condizione disumanante. Ma sostenere che la poesia debba necessariamente confrontarsi con questa condizione, e tacciare di inautenticità la poesia che parla d’altro, significa pensare che, poiché il centro è importante, le periferie non esistono. È probabile che nel nostro tempo l’autenticità (qualunque cosa si voglia intendere con questa brutta e oscura e intollerante parola) sia relegata davvero nella periferia dell’esperienza: ma per quale ragione la poesia non dovrebbe convivere ed esprimere questa periferia?
Si dice anche che l’inautenticità abbia pervaso tutto, e che non siamo in grado di provare nessun sentimento autentico. Mi piacerebbe però sapere se ci sia qualcuno in grado davvero di riconoscere un sentimento autentico da uno che non lo è. Ma se non siamo in grado di operare questo riconoscimento, come possiamo permetterci di dire che l’autenticità è stata scacciata, e che la poesia, dopo Auschwitz, non può che esprimere quel male? Come potrà permettersi di parlare di autenticità chi non sia in grado di riconoscerla? Non sarà, l’autenticità, proprio quel mito oscuro e impossibile, che è utile perché ci permette di dire che il nostro mondo non è così, e che bisogna operare, di conseguenza, in un determinato modo, per recuperarne almeno l’espressione (l’espressione autentica di un mondo inautentico!)?
In alternativa, il mito oscuro potrà trovarsi anche nel politico, anzi in una precisa concezione del politico. Poiché De Angelis, in generale, parla d’altro, De Angelis allora non ci servirà. Ammesso e non concesso che il centro del nostro tempo sia correttamente identificato in questo modo, anche in questo caso, che diritto avrebbe il centro di escludere le sue periferie dall’esercizio poetico? Mi importa assai poco, in verità, di decidere quale sia il centro. Personalmente, poiché apprezzo De Angelis, ritengo che un qualche centro le sue poesie lo colgano. E poiché apprezzo Fortini, ritengo che un qualche altro centro sia colto pure da lui. E continuo a non capire perché se l’uno è giusto l’altro debba essere sbagliato.
Ho già difeso De Angelis altrove (qui e qui, per esempio), e non è per difendere la sua poesia che ho scritto queste righe. Il punto è che trovo qualcosa di insopportabile nel sentirmi dire che cosa sia giusto fare, senza che vengano esplicitati gli obiettivi di questo fare (e quindi senza discuterne). Con i miei versi (come con quelli di chiunque altro) io mi auguro che i lettori possano trovarsi in sintonia, e quindi giudicarli belli; mentre magari, al contrario, non riusciranno a trovare nessuna sintonia, e li riterranno brutti. I miei versi, come quelli di chiunque altro, sono belli, oppure sono brutti; ma non sono giusti o sbagliati. Quello che potrà essere giusto o sbagliato sarà un intervento critico, non un’operazione artistica – e parlare di un’operazione artistica in termini di giusto o sbagliato è perciò parlarne come se si trattasse di un intervento critico.
La critica del fumetto, pur nella sua pochezza (quantitativa), mi sembra che resti ancora estranea a questo fraintendimento. Per quanto mi riguarda continuerò a fare il critico di fumetti anche di fronte alla poesia. Non mi piace rendermi ridicolo.

Teo ha detto...

(Segue) Commenti a DELLA CRITICA PRESCRITTIVA di Daniele Barbieri

3 commenti a Della critica prescrittiva
• sergio pasquandrea
5 settembre 2012 at 09:56 • Rispondi
Intervento come al solito denso e intelligente, con cui sono d’accordo e che spiega bene anche il perché io mi sia sempre tenuto lontano dalla critica letteraria (pur essendomi laureato in filologia moderna con una tesi di critica letteraria, ho rinunciato a proseguire quella strada con dottorati et similia, e ho preso, come ben sai, altre strade).
Aggiungerei solo due cose.
La prima, che la critica prescrittiva di cui parli presuppone sempre un mito, quello del progresso, del nuovo a tutti i costi, che con il passare del tempo tendo sempre più a riconoscere nella sua vacuità. Non che la poesia non debba dire “qualcosa di nuovo”, per carità, ma mi sembra che i termini del nuovo si valutino spesso nella maniera sbagliata. Siamo sicuri che basti inventare un modo d’espressione nuovo per dire cose nuove? E se invece – come in molte esperienze contemporanee – quel modo d’espressione rischia di rimanere un contenitore vuoto, o almeno sovradimensionato rispetto ai suoi contenuti?
E’ una domanda, non un’affermazione…
La seconda cosa – che poi è più una malignità – è che forse è proprio la marginalità della poesia contemporanea, in Italia perlomeno (e che la poesia sia marginale non c’è nemmeno bisogno di dimostrarlo), a istigare questo tipo di litigiosità. Più l’orticello è piccolo, più i guardiani tenderanno ad accapigliarsi per conquistarne un pezzettino.

sergio pasquandrea
5 settembre 2012 at 11:20
P.S.: ho letto la discussione su De Angelis in Poesia2.0.
Ho trovato deliziosamente esilaranti gli interventi di Laura Canciani, con quell’anaforico “come non…” (“come non notare che…”, “come non accorgersi che…”, “come non ammmettere che…”), quasi che le sue osservazioni – oltretutto, di una banalità sconfortante – fossero non opinioni, ma fatti, netti e indiscutibili.
Cito un solo esempio, fra i tanti:
“La composizione inizia cosi “Di sera ti sanguina la bocca”; come non notare che questo incipit e sopra le righe? A nessuno sanguina la bocca se non per una malattia tipo gengivite o una patologia ben piu grave come un cancro, e allora, questo primo verso e manifestamente fuorviante, sopra le righe, quindi falso. Ma voi direte: ma e la liberta del poeta che qui ha luogo! E io rispondo: miei cari lettori il poeta non ha alcun diritto di accentuare i toni fino all assurdo (che la letteratura dell assurdo e un altra cosa!), il poeta non ha diritto di inventare delle situazioni manifestamente sanguinarie per ipnotizzare e abbindolare il lettore improvvido.”
Ora, a parte la presupposizione che De Angelis voglia “abbindolare il lettore”, tu prova ad applicare questa logica a un qualunque verso di una qualunque poesia, e avrai un micidiale grimaldello capace di stroncare qualunque poeta di qualunque letteratura.
Comodo, no?

• guardareleggere
5 settembre 2012 at 12:18
@ Sergio
Sulla prima osservazione sono d’accordo. Anzi, credo che fosse in qualche modo sottinteso o implicato in quello che dicevo. E anche la malignità che segue (pur se indimostrabile) ha l’aria di essere vera.
Quanto alla Cacianti, avevo goduto anch’io della perla che hai citato. Ma mi sembrava impietoso infierire. Per fortuna c’è di meglio, anche in mezzo alla critica prescrittiva.

Laura P. ha detto...

Molto importanti, per meglio capire De Angelis, i commenti di Borletti e Mayoor! Magnifico e anche umoristico Daniele Barbieri!

Laura

Moltinpoesia ha detto...

Ennio Abate a Teo:

Rinnovo l'invito a indicare solo il link di articoli, come questo di Barbieri, apparsi su altri blog o siti.
Per stavolta passi. La prossima elimino.

giorgio linguaglossa ha detto...

un tale Daniele Barbieri,

va fantasticando di "critica prescrittiva" e di "giusto o sbagliato" quali categorie presenti nella mia prosa critica... ovviamente Barbieri (e un tale Teo che lo cita) è libero di fantasticare intorno a sue supposizioni e sue elucubrazioni che nulla hanno a che spartire con i testi dei miei commenti critici. Tra l'altro, il Barbieri, se avesse cognizione di corretta metodologia critica, dovrebbe citare uno o più brani quali exemplum di "critica prescrittiva" e poi fare le sue osservazioni critiche.

Caro Barbieri, non so se lei ha studiato all'università (e in quale università) come si scrive in prosa critica: un discorso metodologico corretto lo si fa citando uno o più brani dell'interlocutore e tentando di dirimerne le contraddizioni interne al testo critico preso in esame, non mettendo in bocca al nostro interlocutore locuzioni che questi non ha mai profferito.

Io non ho mai parlato di poesia «giusta» o «sbagliata», queste sono sue semplificazioni e sue mistificazioni di quello che è il mio pensiero critico (mi creda, un po' più complesso).

Per quanto riguarda le sue superficialissime considerazioni su Adorno, faccio cordialmente notare al Barbieri che sta cianciando di uno dei maggiori filosofi del Novecento che ha scritto tre tra i massimi volumi del pensiero del secondo Novecento: «Minima moralia», «Dialettica dell'illuminismo» e «Teoria estetica», libri editi da Einaudi. Non perdo tempo ad occuparmi delle altre sue paralogie perché inquinate da pressappochismo, falsificazione di tesi altrui e rozzezza di argomentazioni.

Per quanto riguarda la contrapposizione Fortini De Angelis, lascio a Barbieri questa rozza semplificazione di cui nei miei scritti non c'è traccia alcuna, le cose sono un po' più complesse di quelle che è in grado di recepire il limitato cervello di questo signore.
Per quanto riguarda le banalità del Barbieri sulla questione dell'«autenticità-inautenticità», beh non ho nulla da aggiungere.

Moltinpoesia ha detto...

Ennio Abate:



Non mi pare affatto «notevole» che Daniele Barbieri nel suo intervento costruisca un concetto guida astratto (la critica prescrittiva), l’attribuisca a qualcuno (in questo caso a Giorgio Linguaglossa) e faccia rientrare sotto tale concetto persino la domanda elementare su “a che cosa serva la poesia”, nient’affatto oziosa o scandalosa, visto che si ripropone da secoli; ed è dando risposte ad essa che autori o correnti poetiche hanno rinnovato la poesia, dandosi spesso anche quegli obbiettivi, che pare tanto scandalizzino Barbieri. Storicamente ci sono stati periodi in cui la gente (e pure i poeti) è andata avanti con « i limiti abissali delle sue certezze». E ce ne sono, come oggi, in cui si procede coi limiti altrettanto abissali di incertezze (o di finte incertezze). Come mi pare faccia proprio Barbieri con i suoi discorsi. A me, infatti, pare troppo comodo l’elogio dell’indecidibilità («Come potrà permettersi di parlare di autenticità chi non sia in grado di riconoscerla?». Far diventare «mito oscuro e impossibile» ogni discorso sull’autenticità (o la verità) equivale a disfarsi del problema etico e politico di una scelta e conciliare anche l’inconciabile o ammettere che le verità sono tante e buonanotte ai suonatori: ciascuno suoni quel che vuole.
Questa mi pare la sua posizione, quando dice di apprezzare De Angelis, perché ritiene che « un qualche centro le sue poesie lo colgano», e allo stesso tempo di apprezzare Fortini convinto « che un qualche altro centro sia colto pure da lui». Ciò significherebbe che di centri ce ne sono tanti e che le differenze reali e anche non conciliabili tra i due suddetti poeti vengono oscurate o sian otrascurabili. In nome di cosa? Di un’idea “larga” di poesia che tutto accoglie in sé? O che ammette solo la distinzione bello/brutto? Ma anche questo è un mito, il mito degli esteti. Poiché la poesia è campo di tensioni di vario genere (filosofico, politico, religioso, economico, ecc.) che si fanno sentire su tutti poeti, lettori e critici. E le interrogazioni anche su ciò che sia giusto o sbagliato hanno un loro senso, se non le si banalizza.

Laura Pescante ha detto...

@linguaglossa Lei risponde a Barbieri con termini molto pesanti, e non è la prima volta: "mistificazioni", "non so se lei ha studiato", "superficialissim considerazioni", "sta cianciando","pressapochismo" "rozzezza", "falsificazioni", "rozza semplificazione" "limitato cervello". Come può un critico usare questo linguaggio?

Anonimo ha detto...

Giorgio Mannacio:


Ho rilevato che alcune mie osservazioni circa il significato di “ critici militanti” e “ critici contemporaneisti “ non sono state recepite dialetticamente. E’ probabile che la responsabilità del carattere “obliquo” dei commenti successivi al mio intervento sia mia nel senso che mi interessa poco discutere su questa o quella poesia ( nella specie quelle di De Angelis ) quanto andare indietro verso i luoghi occupati dalle ragioni della poesia e della posizione della critica. Ma proseguo egualmente in questa mia direzione non sintonica.
Leggo che Ennio Abate qualifica come “ balle “ ( testuale ) la posizione sedicentemente rinnovatrice di poeti come Sanguineti and Company. Nessuno più soddisfatto di me. Ho sempre pensato al carattere mitologico dell’esaltazione delle avanguardie che sono sempre sostanzialmente elitarie e che sanno costruirsi come le retroguardie linee di comunicazione parallele grazie alla complicità ( absit iniura verbis ) di critici (contemporaneisti? ). Inutile aggiungere che le avanguardie hanno saputo – eccome ! – costruirsi efficaci strumenti di penetrazione mercantile.
Ma non sarei equanime se non rimproverassi a Ennio Abate una certa ingenerosità. Cosa poteva fare Sanguineti che non abbia fatto? Qui, mi pare, sta il punto.
Chi ha competenza ed onesta critica ( della prima non sono sufficientemente dotato ) dovrebbe forse indagare più a fondo lo stato relativamente stabile della poesia e della cultura letteraria in generale.
Potrebbe trovarsi, forse, a rilevare un nostro difetto di prospettiva in forza del quale attribuiamo a queste entità una posizione centrale probabilmente mai avuta ( altro mito? )
Quando la platea davanti alla quale si celebrano i riti letterari era ristretta,i partecipanti allo spettacolo potevano pensare che il loro piccolo mondo fosse IL MONDO TOUT COURT. Non pretendo che tale affermazione sia verità , ma mi sembra sia utile ragionarvi sopra. In questo contesto la presenza alla rappresentazione era al tempo stesso “ comunicazione” e “ misura del valore “.

[Continua]

Anonimo ha detto...

Giorgio Mannacio (continua):


Oggi la platea comprende (quasi) tutti i soggetti che compongono una data società ( qui ed ora ).La moltitudine determina distinzioni,allenta i vincoli identitari e impedisce l’equivalenza tra “ compresenza “ e “ comunicazione “. Impone, anzi,l’elaborazione di strategie di comunicazione più adatte a mettere in contatto ,previa identificazione, quei gruppi di persone che –nella moltitudine – hanno o vogliono conservare una loro specifica identità.La nota battuta secondo cui alcuni scrittori “ prima pubblicano e poi scrivono i loro testi “,se analizzata al di là della sua arguzia, dice molte verità sui sistemi di pubblicità delle opere letterarie.
Ma pretendere da un mercato di non essere concorrenziale e di essere fatto “ a nostra immagine e somiglianza “ ( mai a immagine e somiglianza di “altri” ) può essere pericolosa utopia,che porta fino alla cultura dirigista.
La mia visione dello stato delle cose letterarie non è, ovviamente, definitiva. Mi sembra che essa sia costituita da una serie di “ piccole patrie “ la cui legittimità non può essere messa in discussione.E’ inevitabile che sorgano conflitti particolari e che sia giusta la guerra che ciascuna di esse combatte per la propria sopravvivenza. Ciò dovrebbe darci il senso delle “ giuste proporzioni”.
Fuori metafora credo che ci si debba abituare alla pluralità delle scritture e che a ciascuna vada riconosciuta una specifica identità corrispondente all’amplissima e variegata platea davanti alla quale si svolge la sacra rappresentazione della letteratura.
Questa conclusione mi aiuta ad evitare atteggiamenti mistificanti o patetici. Mi permette anche la rivendicazione – senza eccessiva tracotanza – della mia personale esperienza.
Di questa ciascuno deve – se vuole – dare testimonianza secondo un canone di autenticità. Vorrei proprio che questa nozione , che è complessa ed implica il richiamo a molte componenti, entrasse a far parte del discorso generale sulla poesia.
Poiché non si è mai chiari a sufficienza, ovvero poiché il rischio di essere fraintesi è sempre dietro l’angolo chiudo avvertendo che il mio scritto non è un giudizio su singoli poeti ( e tanto meno su singole poesie o versi staccati ) e neppure relativismo nei confronti della poesia come genere.
Che la letteratura e la poesia abbiano i propri limiti , che questi vadano compresi e accettati e che da tale costatazione possano scaturire indicazioni utili per i poeti mi sembra quasi ovvio.

[Fine]

Anonimo ha detto...

A Giorgio Mannacio

Grazie grande grazie a Giorgio che mi fa pensare sempre a molto di più di ciò che credo di aver capito. Quanto mi piacciono queste tue "piccole patrie"! Emy