Caro Giorgio Linguaglossa
sto seguendo su Poesia2.0 il dibattito
che si è alimentato con il tuo intervento sulla poesia di Milo De Angelis. Non
sono sorpreso della piega che va assumendo. E’ certo che uno dei punti
controversi e impliciti alla discussione riguarda il costume letterario.
Le posizioni nel blog si stanno appassionatamente orientando pro/contro Milo De
Angelis. La sua poesia c’entra poco. La cosa è più evidente ora che vengono
messi in campo nomi importanti della critica facendo ricorso a una sorta di
contundente principium auctoritatis. Prassi che non è estranea ai vari
aspetti della società contemporanea: da quello della politica e dello sport, a
quello della stampa e della cultura in generale. Pubblicare oggi non ha
connotati molto diversi dalla scalata al potere di qualsiasi tipo. Sullo sfondo
lo scambio solidale all’interno dell’establishment (per esempio, la circolarità
delle recensioni e dei premi letterari che creano fidelizzazioni oltre che
blasoni e credenziali). Perché il blog non
s’incarica di indagarne numericamente i circuiti per poi pubblicarne i
risultati? Tante recensioni io a te, tante a debito verso me; tanti premi a te
e tanti a me; qui in giuria io e là tu. Avrebbero più efficacia di qualsiasi
dibattito critico. Benché il costume sia oggetto proprio della
sociologia e non della critica.
Dunque, tu vai conducendo un’azione, valida e coraggiosa, per tentare di
mettere in discussione le storture della società letteraria nostrana. La
tua indignazione però si presta facilmente ad essere scambiata strumentalmente
per insulto e offesa; e quella dei tuoi sostenitori per invidia professionale.
I testi e gli autori che analizzi sono piuttosto i nuclei emergenti dello
stato di degrado creativo della poesia che tu scambi per stagnazione.
Lo fai mettendoti in discussione, e a rischio di recriminazioni nell’ambito
letterario. La tua scelta scoperta, frontale e indipendente, non è oggi di poco
conto. Sei sicuramente dalla parte maggioritaria, ma meno protetta. E perciò
condannato a una fatica mitica.
Provo a raccontarti quello che mi veniva in mente a proposito del
dibattito in corso sul sito Poesia2.0. Sono le riflessioni di qualche giorno
fa, ma te le ripropongo. Non parlerò del caso specifico, perché sarebbe
riduttivo e poco interessante se non fosse per la foga degli interventi.
Anzitutto credo che non ci sia mai intima scissione fra l’atteggiamento
dello scrittore di fronte alla pagina bianca, e la qualità della
sua poesia. Chi, mentre scrive, ha per obiettivo l’editore, il successo, la
carriera, le antologie, i repertori, i 740, ecc. ecc. e li assume di volta in
volta a lettore ideale, mescola sottili veleni alla propria scrittura
che prima o poi finiscono per intossicare il lettore; il quale in ogni caso se
ne accorge a livello profondo; peggio se ne ha consapevolezza e finge
(complicemente) di non badarci. Questa considerazione psicologica (o se vuoi
moralistica), per quanto mi riguarda mi tiene alla larga da qualsiasi testo o
un libro di poesia che seppure lontanamente mi faccia sospettare quell’atteggiamento
che, come ben sai, non sfugge a chi si occupa di poesia. E’ una delle ragioni
per le quali la mia diffidenza riguarda soprattutto le case editrici più
smaliziate e sottoposte alle regole del mercato editoriale. Per inciso: il
fervore polemico che attualmente sta investendo la SIAE e la sta rovistando, è
un segnale di quanto contino gli interessi economici delle major. Se hai
occasione, seguine gli avvenimenti, e vi troverai una chiave di lettura a molte
delle questioni iperuraniche che andiamo dibattendo.
In effetti, la poesia italiana attuale è andata inevitabilmente ad
assestarsi verso la stagnazione anche per ragioni che sono intrinseche
al mercato e al suo sviluppo, senza dover fare riferimento alle grandi
ideologie novecentesche che l’hanno contrastato (penso che in fondo pure
Fortini ne sia stato complice debole o distratto. Forse si è rivelato più
efficace l’assalto distruttivo di Sanguineti e della Neoavanguardia!). Sui
ripiani delle librerie trovi tutto ciò che si può far circolare; che sia di
cattiva o pessima qualità poco importa. Si fa ricorso a ogni genere di
artificio, mantenendo sempre fisso nell’obiettivo l’acquirente (o il lettore)
che viene braccato nelle zone profonde del suo narcisismo e vanità. Non sono
neppure estranee le modalità dell’editing editoriale, ormai così
diffuso, che sostituiscono l’autore con un feticcio diffratto e diffrangente
che si riverbera surrettiziamente nel fruitore. Non a caso la poesia moderna ha
un grande padre in Eliot, la cui poesia in origine è stata oggetto dell’editing
portentoso di Pound; o come lo vogliamo chiamare? Ce ne siamo dimenticati?
A ben vedere, una concausa genetica del minimalismo (estenuata
estremità editoriale della Linea Lombarda) che tu combatti, risiede secondo me
da esigenze di diffusione oltre i miseri confini nazionali della poesia e
della nostra letteratura in generale. Tradurre i grandi lirici è pressoché
impossibile, ci arrangiamo; salvo coloro che scrivono di proposito in un
esperanto letterario. La poesia minimalista si può tradurre in morse e in signuno[1], senza
eccessiva dispersione di senso. Inoltre il minimalismo consente
all’autore-poeta di “esercitarsi” in maniera canonica, evitando
facilmente “errori” sia linguistici che stilistici; oppure di dovervi impegnare
faticosamente il mestiere e il talento o assumersi l’obbligo di produrre
alcunché di originale. E’ sufficiente disseminare di figure retoriche quel poco
di pensieri grossolani, banali o astrusi per rendere la lettura criptica e
suggestiva; il lettore è appagato (o stordito) dai cunicoli di non-senso che
deve contribuire a colmare di significato, come in una tavola enigmistica; e è
per di più lusingato dalla facilità di imitazione del modello o prototipo;
si esalta, già pronto all’emulazione perché affascinato dalla possibilità di segmentare
la scrittura in versi. Diciamocelo pure, in fondo il minimalismo
non è altro che la reiterazione memetica[2]
oltre che un metodo e una modalità di scrittura poetica! Ecco
allora la pletora degli scrittori di poesia che ci assedia e soffoca. E che
contribuisce a mantenere in piedi alcune case editrici autoctone che non
vanno per il sottile o le loro collane di poesia. Il minimalismo riveste
uniformemente i poeti di tute mimetiche, indistinguibili nella notte della
poesia. Il lettore può scegliere a caso e riconoscersi; il critico può dirne
ciò che vuole e farsene egemone, occupando uno spazio non suo e ribaltando il
ruolo poeta-critico in quello di critico-poeta con la prevalenza, infine, delle
poetiche sulla poesia (altra innaturale e perniciosissima
scissione/inversione); o sostituendo i manifesti-cordata alla genialità-libertà
del singolo. Non è un caso che siano stati sempre i ragazzi e gli sventati a
provocare le grandi svolte storiche in poesia e in letteratura.
Il minimalismo offre per
giunta molte opportunità lassiste di giudizi arbitrari nei premi letterari
proprio per il livello di indistinzione qualitativa che propone. Potrà
confermarlo senza paura di smentita chi ha fatto parte di giurie e spesso ha
dovuto assistere a pratiche sconcertanti; le cui estremizzazioni scandalistiche
vengono - estemporaneamente e sommariamente - alla luce sulla stampa. In questi
casi, si tratta di estetica o di etica, in letteratura e in
poesia? Di quanti premi letterari si è occupata la stampa negli ultimi
tempi mettendo in luce la corruzione intellettuale che vi si era accampata?
Tuttavia diamo per scontate e accettiamo supinamente molte di queste liturgie e
coreografie. Larga parte della critica ne ha grandi colpe quando
ha accettato di non essere indipendente; di assumersi un ruolo promozionale o
di ufficio stampa; di aver privilegiato la poesia “senza qualità” per poterla
poi egemonizzare e trasformare lo stile in style e il testo in
capo griffato o in una suppellettile trendy. Si ripropone così
l’ovvia e reiterata domanda di come mai filtrano nelle case editrici di peso,
poeti mediocri, supportati dai rating eccessivamente benevoli della
critica “di caratura” ? La questione contiene poi almeno due altre dicotomie
discriminatorie sintetizzate nelle contrapposte opzioni Nord/Sud, Città/Campagna,
di cui Milano è sintesi e paradigma. E inoltre: può certa critica professionale
scrivere obiettivamente - e stroncare quando è doveroso - un libro e un poeta
nullo o inconsistente se è stato pubblicato da una casa editrice con la quale
si hanno impegni collaterali o che si teme? Non c’è un obiettivo conflitto di
interessi fra critico e autore/editore? Quello che più angoscia è il fatto che
quasi tutti siamo coscienti dello stato di degrado della letteratura ma siamo
altrettanto impotenti. Non è possibile mettere in campo delle proposte che non
provochino reazioni e conflitti, piuttosto che soluzioni ragionate.
Dunque, caro Linguaglossa, a me sembra che in fondo tu non stia discettando della
buona o cattiva poesia - se ha ancora un senso farlo - ma sostanzialmente del
cinismo autofago della società letteraria che si sta consumando
nella propria digestione acida. Lo fai però con gli strumenti eterogenei della
critica filosofica e ideologica. E’ necessario a questo punto che tu ti
convinca che si tratta di ben altro e lo espliciti, perché il dibattito
si svolga sul piano di pertinenza; che mi sembra essere semmai quello del costume
letterario di cui i testi sono solo i sintomi, e le recensioni i referti.
Lasciamo strare quindi le proposte per il futuro e l’eternità; a quelle ci
penserà il tempo implacabile che corroderà i cartigli o li dissolverà in
polvere appena riesumati da qualsiasi teca in cui vengono mantenuti sterili.
Fai invece bene ad avventurarti nella palude per dare coraggio ai dispersi e ai
disorientati.
Ciao, Navio Celese
[1] Il signuno è un
linguaggio internazionale dei segni, per permettere la comunicazione tra
persone sordomute anche se di diversa nazionalità, e quindi usanti diversi
linguaggi dei segni. È basato sulla lingua internazionale esperanto. ( da http://it.wikipedia.org/wiki/Signuno)
[2] La memetica (o scienza del meme) è una nuova disciplina nata da un concetto coniato da Richard Dawkins nel 1976 nel suo best seller "Il gene egoista".
L'idea, apparentemente semplice, è che esistano delle unità di trasmissione della cultura, dette memi.
In altri termini, i memi sono le idee che, trasmesse da mente a mente, acquisiscono una sorta di vita autonoma e manifestano una loro caratteristica capacità di diffusione e replicazione.
Esistono pertanto dei memi "forti" cioè con alta capacità di diffusione e replicazione, e memi "deboli", con scarsa capacità di diffusione e replicazione.
Ad esempio, uno slogan pubblicitario può diventare un meme quando comincia ad essere ripetuto dalle persone ed utilizzato nelle conversazioni. Un meme può essere un ritornello musicale che viene fischiettato dalle persone. Ma un meme può essere anche un'ideologia, una teoria scientifica, una religione. (da http://www.antiarte.it/antiarte/memetica.htm)
7 commenti:
Caro Luigi Bosco non sono del tutto d'accordo con il tuo invito a lasciar stare la critica al minimalismo...
quando Celese scrive che stiamo assistendo al: «passaggio dalla poesia alla scrittura poetica e quindi a una tecnica di scrittura», vuole sottolineare una trasformazione epocale che è in atto e che attraversa la «forma-poesia» di questi ultimi decenni… «in fondo – scrive Celese – il minimalismo non è altro che la reiterazione memetica di un modulo stilistico oltre che un metodo e una modalità di scrittura poetica!»; non c’è dubbio che qui si afferma una verità auto evidente. La poesia minimalista è divenuta «una sorta di esperanto letterario che si può trascrivere in “morse” e in “signuno”, senza eccessiva dispersione di significato. Inoltre il minimalismo consente all’autore-poeta di “esercitarsi” in maniera canonica, evitando facilmente “errori” sia linguistici che stilistici… È sufficiente disseminare di figure retoriche quel poco di pensieri grossolani o banali o astrusi per rendere la lettura criptica e suggestiva; il lettore è appagato (o stordito) dai cunicoli del non-senso che deve contribuire a colmare di significato, come in una tavola enigmistica; e per di più lusingato dalla facilità di imitazione del modello o prototipo».
Non mi sembra che questo ragionamento pecchi per un eccesso di criticismo nei confronti del minimalismo visto quale luogo delle scritture replicabili e moltiplicabili all’infinito, una sorta di tiptologia, di esperanto, di iconologia del quotidiano ludico e intellettualizzato. Si tratta di un dato di fatto auto evidente che Celese mette a fuoco. E mi sembra importante che l’abbia fatto e non mi sembra che l’articolista cada nel vittimismo o nella lamentazione.
Per fare poesia nuova o diversa è indispensabile prendere le distanze (critiche) da quella dalla quale ci si vuole allontanare.
Sia detto con chiarezza: è di una evidenza assoluta il conflitto di interessi tra i critici che lavorano a stretto contatto con gli uffici stampa degli editori maggiori e i libri sfornati da quegli editori; è piuttosto logico che quei critici non possano che tessere le lodi per quei libri per i quali essi ricevono una adeguata contro partita economica e pubblicitaria. E così la critica diventa pubblicità. E gli autori nuovi che vogliono emergere (come si dice con una brutta parola) non possono fare altro che condire con l’olio santo della liturgia la propria critica nei confronti degli autori sfornati dagli editori maggiormente rappresentativi, È un cane che si morde la coda. È un cerchio chiuso. L’unico modo per uscirne, a questo punto, è rompere il giocattolo, sfasciare tutto, affossare tutto ciò che deve essere affossato, mandare a picco il Titanic con tutti i suoi ospiti ossequiosi e insignificanti.
Oggi fare critica (vera, autentica) non è molto dissimile da quegli agenti meteomarini che hanno fatto affondare il Titanic. Aprire una breccia nella chiglia del Titanic.
Giorgio Linguaglossa
Ennio Abate:
Per comodità dei lettori del blog Moltinpoesia indico il link con l'intervento di Luigi Bosco su Poesia 2.0 a cui si riferisce
il commento qui sopra di Linguaglossa:
http://www.poesia2punto0.com/2012/09/03/lettera-aperta-su-minimalismo-e-conflitto-di-interesse-navio-celese-a-giorgio-linguaglossa/
Ennio Abate:
Per punti:
1.« Sullo sfondo lo scambio solidale all’interno dell’establishment (per esempio, la circolarità delle recensioni e dei premi letterari che creano fidelizzazioni oltre che blasoni e credenziali). Perché il blog non s’incarica di indagarne numericamente i circuiti per poi pubblicarne i risultati? Tante recensioni io a te, tante a debito verso me; tanti premi a te e tanti a me; qui in giuria io e là tu. Avrebbero più efficacia di qualsiasi dibattito critico» (Celese).
Non siamo un blog che ha informazioni dirette dagli ambienti editoriali, giornalistici e accademici che curano la macchina delle recensioni o dei premi letterari. Se qualche “talpa” fornisse notizie documentate, non esiteremmo, dopo averle valutate, a pubblicarle e a ragionarci su. Né abbiamo le forze sufficienti per svolgere vere e proprie inchieste su questo o altri temi.
2. «Le storture della società letteraria nostrana» ci accompagnano da secoli. Sono storture politiche ed è bene sapere che non le possono correggere dei singoli per quanto coraggiosi e con idee chiarissime. O si riforma un movimento politico che investa al contempo queste e quelle generali o si è condannati i più a sopportarle e qualcuno a mettersi sulla strada dei Robin Hood, dei don Chisciotte, delle anime belle, dei bastian contrari, dei testimoni impotenti, degli *indignados”. È bene saperlo e dirselo.
3. È semplicistica, moralistica e manichea la distinzione che Celese fa tra «chi, mentre scrive, ha per obiettivo l’editore, il successo, la carriera, le antologie, i repertori, i 740, ecc. ecc. e li assume di volta in volta a lettore ideale» e un idealistico scrittore che non ha alcuno di questi obiettivi ma scrive - che so - per il solo gusto di scrivere. Ci sono pratiche di scritture che rientrano in pieno nelle regole del mercato editoriale e pratiche che ne sono ai margini. Tra i rappresentati di questi due mondi ci sono contrasti reali, ma anche intrecci altrettanto reali e “attrazioni” reciproche (spesso “fatali”!).
4. Se « la poesia italiana attuale è andata inevitabilmente ad assestarsi verso la stagnazione » non è *solo* « per ragioni che sono intrinseche al mercato e al suo sviluppo», ma anche a causa del disfacimento delle forze sociali e e politiche che quel mercato (capitalistico) volevano combattere in generale o almeno evitare che esso sottomettesse alle sue regole la cultura e la scuola.
E non mi si venga a dire che Fortini è stato «complice debole o distratto» di un tale processo. Basta leggere i suoi libri e le sue analisi dell’industria culturale e vedere anche i suoi comportamenti e le cose che ha scritto quando era alla Olivetti, all’unversità di siena, al Corriere della sera. Che Sanguineti e la Neovanguardia abbiano efficacemente condotto un loro «assalto distruttivo» è una balla. Tant’è vero che il mercato si è ulteriormente espanso e rafforzato, macinando sotto i suoi dentacci anche la “rivoluzione” di Sanguineti & C. Proprio il venir meno di un fronte antimercantile (e in parte anticapitalistico, perché il mercato non coincide col capitalismo e preesisteva ad esso…) dovrebbe rendere più prudenti nell’affrontare la questione, che è complicatissima, e più decisi nello studiare nuove strategie, d’individuare chi possa essere il soggetto che le pratichi e chi sono oggi i veri nemici.
[Continua]
Ennio Abate (continua):
5. È il «minimalismo» il vero responsabile di questa crisi? il vero nemico?
Io ho scritto: «Nello specifico del discorso sulla poesia, è vero, come dice Linguaglossa, che la “democratizzazione” dei linguaggi poetici “quotidiani” subisce l’egemonia di quelli dei mass media ed è ad essi subordinata (e depauperata delle sue potenzialità)».
In altre parole parlo di un adattamento di questi poeti al *mainstream* (apolitico) dominante. Detto in termini più chiari: si sono adattati ai gusti dei vincitori. Celese, che non ha o esclude il mio lessico politico e forse non è interessato a quest’aspetto della questione per me fondamentale, difende una sorta di “professionalità poetica” *d’antan*; e sostiene che la poesia minimalista è facile, «si può tradurre in morse e in signuno», tende a una « reiterazione memetica», evita la fatica del mestiere e del talento e non si assume «l’obbligo di produrre alcunché di originale». È vero, ma questo dimostra ancor più quanto sia difficile contrastare polticamente questo *mainstream* e quanto vana sia la sua semplice denuncia moralistica. Se prima eravamo in 100 a “tenere il punto”, a difendere anche in poesia uno “stile antimercantile” oggi siamo ridotti in 4 gatti. E dobbiamo saperlo e non dobbiamo miagolare invano o farci le serenate tra noi.
6. Anche Celese se la prende ( come avrebbe fatto Montale se fosse ancora vivo) con la massificazione della poesia ( coi “moltinpoesia” dovrei dire…), con la « pletora degli scrittori di poesia che ci assedia e soffoca». (Invece di interrogarsi più a fondo sul fenomeno, come io da tempo e da isolato cerco di fare…). Ma se la prende anche con «le poetiche sulla poesia ((altra innaturale e perniciosissima scissione/inversione)» e agita il vessillo ( liberale, aggiungo io) della « genialità-libertà del singolo». Ah, Rimbaud, croce e delizia dei ribelli!
Al minimalismo imputa poi « molte opportunità lassiste di giudizi arbitrari nei premi letterari proprio per il livello di indistinzione qualitativa che propone». ( Ma davvero son tutti minimalisti quelli che hanno portato «la corruzione intellettuale» nei premi letterari?). In fin dei conti poi non mi pare neppure lui convinto che il vero male sia imputabile al minimalismo se non indica antidoti e conclude rassegnatamente: «Quello che più angoscia è il fatto che quasi tutti siamo coscienti dello stato di degrado della letteratura ma siamo altrettanto impotenti. Non è possibile mettere in campo delle proposte che non provochino reazioni e conflitti, piuttosto che soluzioni ragionate».
E allora mi chiedo che ce ne facciamo di denunce ( o lamentazioni?) che sembrano arrendersi di fronte al « cinismo autofago della società letteraria che si sta consumando nella propria digestione acida»? Basta aspettare che si consumi fino in fondo. Manca, con tutto rispetto, una proposta.
[Continua 2]
Ennio Abate (continua):
6. Giorgio riprende e difende queste posizioni di Celese, che coincidono in buona sostanza con le sue analisi, ma egli sottovaluta e semplifica le cose.
Per «prendere le distanze (critiche)» e fare «poesia nuova o «diversa» ( io dico «esodante») ce ne vuole. Perché, come ho detto sopra, veniamo da una sconfitta e non esiste un vero soggetto (politico-poetico) che possa, in poesia, fare quello che si dovrebbe fare ( e che, aggiungo io, non si sa ancora bene in cosa consista!).
Non è affatto «di una evidenza assoluta il conflitto di interessi tra i critici che lavorano a stretto contatto con gli uffici stampa degli editori maggiori e i libri sfornati da quegli editori».
Lo sarà per lui, ma non per l’esercito di aspiranti poeti, che bussano più numerosi che mai proprio alle porte di quei critici e di quegli uffici stampa.
Torno a ripetere fraternamente che l’ipotesi, affacciata dal giovane Ivan Pozzoni anche sul bog Moltinpoesia e che ora vedo da lui ripresa, quella cioè di « rompere il giocattolo, sfasciare tutto, affossare tutto ciò che deve essere affossato, mandare a picco il Titanic con tutti i suoi ospiti ossequiosi e insignificanti» è veramente di un estremismo infantile eroicistico e vano.
7. Ripropongo allora pazientemente all’attenzione la mia posizione accanto alla sua e a quella di Celese, sperando in un confronto approfondito:
« Nello specifico del discorso sulla poesia, è vero, come dice Linguaglossa, che la “democratizzazione” dei linguaggi poetici “quotidiani” subisce l’egemonia di quelli dei mass media ed è ad essi subordinata (e depauperata delle sue potenzialità). Anche perché - aggiungo io - democrazia e poesia non possono ridursi mai alla sola dimensione del quotidiano. È però anche vero che l’ opposto della medaglia, e cioè l’aristocraticismo, che oggi permane in certe frange del ceto medio più ostile alle mode “democratiche” e muove una critica in parte accettabile alla democratizzazione fasulla che ci viene imposta, richiamandosi ad un immaginario antico, premoderno o vicino alle Origini, appare patetico coi suoi tratti di nobiltà decaduta e imbronciata. Sterile, dunque, quanto il democraticismo, che si vuole arrogante, rampante o falsamente modesto.
Le critiche di Linguaglossa ai settori “democraticisti” della ricerca poetica odierna avrebbero un valore euristico, anche ai fini dell’inchiesta che ho evocato, se fossero depurate dal moralismo o dalla pretesa di rappresentare la “linea”” o la poetica buona. Che manca e andrebbe cercata. Qui un altro punto di dissenso con lui. Va bene dibattere tra contrapposizioni interne alla ex-piccola borghesia, come quella tra i poeti proposti da Linguaglossa (Madonna, Busacca, ecc.) e i minimalisti-quotidianisti, o, per riferirmi a Ivan Pozzoni, tra i poeti che scrivono poesie e i poeti che dicono di fare “non poesie”. Non penso, però, che queste siano le differenze ultime e determinanti; e che, confliggendo tra loro e portando a una certa chiarificazione delle poetiche, ci faranno uscire dalla crisi della poesia. Anche se - nolenti o volenti - la «post- poesia» ci avesse portato su un nuovo terreno, come Linguaglossa sostiene, da qui non si scorge affatto la luce di una nuova aurora».
[Fine]
@ Ennio Abate.
vorrei precisare che non c'è nessuna volontà da parte mia di "demonizzare" il minimalismo. Che il minimalismo sia una corrente letteraria ma non solo letteraria che lo si ritrova in ogni ambito del nostro mondo, credo non ci sia ombra di dubbio: nella Moda, nel Marketing, nell'architettura, nelle arti figurative, addirittura nei modi e nei costumi del quotidiano, nel linguaggio corrente, nei modi di dire e di fare, nel linguaggio degli sms etc. detto questo, poiché esercito la funzione di critico di testi di poesia non posso che esercitare la mia analisi critica che su dei testi di poesia, ma di qui a dire che indico il minimalismo come il responsabile dei mali della società contemporanea ne passa! Diciamo che in termini marxiani il minimalismo è una sovrastruttura (addirittura anche i comunicati dell'ufficio stampa del Vaticano risente dello stile del minimalismo!); addirittura il Presidente del Consiglio Monti è un esemplare semiotico straordinario del minimalismo dell'età della recessione! Posto in chiaro dunque che si tratta di una sovrastruttura, nella mia qualità di critico non posso che esercitare una critica del minimalismo ben sapendo che si tratta di una sovrastruttura e che si tratta di una sovrastruttura epocale! cioè a dire, invasiva e totalizzante. Certo, andare contro corrente non è facile e mi espone a incomprensioni, a resistenze testarde e a vere e proprie avversioni da parte di chi non comprende che la mia ottica è diametralmente opposta al minimalismo, vuole cambiare il minimalismo per cambiare una sovrastruttura.
Per cambiare la struttura del Modello Unico del capitalismo occidentale... beh, la cosa è un po' più grande di me e una formica non può certo spostare una montagna...
Vorrei precisare poi che oltre a esserci un conflitto d'interesse tra i critici degli uffici stampa a tempo pieno e a tempo parziale degli editori più rappresentativi e gli autori pubblicati da quei medesimi editori, si verifica anche il fenomeno ben più grave della COLLUSIONE D'INTERESSI paralleli e convergenti quando il regolo, la misura dell'interesse individuale è fornito dalla speranza di poter un giorno pubblicare con quelle case editrici maggiormente rappresentative. Ciò stante, nessuno infatti oggi si perita di stroncare opere mediocri pubblicate da certi editori forti per non inimicarsi quelle fonti eventuali e futuribili. Questo che dico è autoevidente e coinvolge anche i cd. critici accademici e non.
Nella mia veste di critico indipendente ho citato non pochi nomi di poeti (morti e viventi) che ritengo di grande valore ma che non sono mai stati pubblicati dagli editori maggiormente rappresentativi. Perché? Ma probabilmente perché non scrivono alla maniera degli allineati al minimalismo...
Come è noto l'istituzione letteraria (come qualsiasi altra istituzione) è elitaria al massimo grado e funziona per cooptazione e affiliazione.
Così il cerchio si chiude, il cane si morde la coda. Chi non si adegua (stilisticamente) resta fuori.
giorgio linguaglossa
Milo De Angelis, a mio parere, non riguarda il minimalismo né romano né milanese. E’ lontanissimo da Zeichen, Cucchi, Magrelli. I suoi pregi e i suoi difetti vanno cercati altrove. De Angelis viene da Nietzsche. Viene dall’emisfero opposto, ossia da una sorta di massimalismo esasperato, con domande che sono sempre puntate al limite. La presenza di Zarathustra – e in generale del titanismo tragico di ascendenza tedesca – attraversa per intero un libro come “Distante un padre”. E’ un libro di svolta, quest’ultimo, dopo un esito a mio parere poco felice come “Terra del viso”. E’ un libro-universo. Un mondo intero in subbuglio che cerca quiete. E non può trovarla. De Angelis mi appare qui un poeta senza pace, un’anima impazzita. Ma non c’è solo Nietzsche in lui, per fortuna. C’è anche l’anima russa. E l’anima russa conosce l’epica. L’anima russa si dilata. Conosce la vastità di Pierre Bezuchov e del dottor Zivago. Conosce l’ampio respiro dell’epica. Tanto Nietzche è verticale, quanto l’anima russa è smisurata. Se “Distante un padre” suona febbrile, “Biografia sommaria” suona russo, con gli andanti di Rachmaninov. Qui la furia si placa e si spiega. Qui entrano in scena i personaggi, la terza persona singolare, il racconto di Donatella De Giovanni, della tenera melò, della saltatrice ferita, di Nadia Campana. Qui si entra nel compatto, nel rallentamento, nel dramma seguito passo dopo passo (“Cartina muta”) e non più gridato nei suoi vertici o nei suoi sotterranei. No, piuttosto accompagnato con il fiato sospeso, pedinato metro per metro (“L’unica data”). “Distante un padre” era un poema della montagna, per citare una poetessa cara a De Angelis. Partiva dalla nota più alta e non scendeva, puntava ancora più in alto, tra picchi e baratri, rupi e capogiri, cadute a precipizio e voli disperati. “Biografia sommaria” riprende invece la tradizione realista di Lermontov, Turgenev, Goncarov, tutti figli di Puskin. “Biografia sommaria” è forse il libro di De Angelis che amo di più. Mi piace anche “Distante un padre”, ma lo temo: è un gorgo, fa paura. Non amo invece il suo antenato “Millimetri”, libro fermo e impenetrabile, che può avere dei bei versi qua e là, ma rimane un masso oscuro. Ed ecco “Tema dell’addio”. Pochi l’ hanno capito. Non è una storia personale, ma è un libro del distacco, di ogni distacco. O meglio: può partire da una vicenda biografica, ma dopo un attimo sentiamo che non è quello l’essenziale ed entriamo nel mondo dei morti e di quelli che hanno perso anche la morte. “Tema dell’addio” è un’elegia che diventa cosmogonia, un compianto che diventa la natura delle cose. Virgilio e Lucrezio insomma. Che poi sono i due classici più letti e tradotti dal poeta milanese. E’ vero però che “Tema dell’addio” ha una nota dominante, una nota che rimane sempre quella per tutto il libro: è monotono, nel senso etimologico del termine. Invece “Quell’andarsene nel buio dei cortili”, lo sappiamo, ha una musica più varia. E’ il libro delle ombre che vanno in tante direzioni e si spargono lungo le tangenziali.
Marco A.
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