sabato 15 settembre 2012

Per Roberto Roversi
Due suggestioni

Ascoltate! Cavalchiamo cavalchiamo nel sangue
la paura del cielo che strappa manciate di stelle
oscura la voce un abbraccio di gelido fuoco poi silenzio
e silenzio
solitudine antica – la terra è nel vento di foglie strappate
una morte è in corso
le onde uguali si sciolgono gridando vendetta.
Forse è la morte annunciata del nostro pianeta?

(Parte terza, vv. 2548-2555).


[…]

sopra le città giganti della terra
unificate da una pietà senza strazio
solo gli occhi cavati ai giovani soldati
le giovani donne sgozzate nude
solo le mani tagliate ai vecchi davanti alle case infuocate
solo frecce sul petto delle bianche bambine coperte dal
carbone mai
acceso
solo raffiche raffiche raffiche nella schiena dei ragazzini
che ridono
fra luci di carnevale e
guardando i vecchi bagnati di sangue scendere a terra
si addormentano lasciando la vita sorpresi

(L’Italia sepolta sotto la neve – Parte terza, vv. 2609-2622).


Cinque spunti di riflessione da «I motivi d’indignazione. Appunti su “L’Italia sepolta sotto la neve” di Roberto Roversi»
10 novembre 2008
di Fabio Moliterni

1.
Il poeta che personalmente tirava al ciclostile migliaia di copie delle Descrizioni in atto – vivificando con un paziente lavoro di rielaborazione e revisione che giunge fino alle soglie degli anni Novanta quella scrittura tutta improntata al più dirompente (e semantico, referenziale, “realistico”) sperimentalismo -(3), si muove insomma tuttora lungo le consuete direttrici ispirate ad una “necessità civile” dell’espressione poetica (necessaria appunto per intervenire sul reale, per testimoniare o condannare o denunciare e trasfigurare liricamente i crudi lacerti della Storia), disinteressandosi dei riconoscimenti pubblici e degli ingranaggi ufficiali della comunicazione editoriale. Pronto altresì a donare lasse o paragrafi del suo più recente poema e lavoro in corso a chi ne faccia corretta richiesta, a raccoglierne brani (capitoli e “episodi”) più compiuti affidandoli a sedi congeniali, fidate, quasi sempre di ambito provinciale o amicale, dunque semiclandestine o “gestibili” direttamente dal lettore (riviste e periodici).

2.
La vocazione poematica della poesia di Roversi è dato oggettivo che risuona (in uno con il fermento critico del redattore officinesco) sin dai versi lunghi – contenuti nella misura quasi sempre rispettosa dell’endecasillabo – di Dopo Campoformio (1962 e 1965). Lì, in effetti, una sostanziale unitarietà strutturale e tematica si saldava – nella volontà gia “inclusiva” di racconto epico, totale – con il “grigiore” di una pronuncia che nella sua tensione prosastica si offriva come exemplum poetico di una precisa volontà antilirica (antinovecentesca) e che, correttamente, va avvicinata solo con prudenza ai contemporanei “poemetti” tentati da Leonetti e Pasolini prima, e da Volponi poi (per un plurilinguismo che in Roversi convive più che in altri con la classicità sette-ottocentesca, teutonica e pallida, del linguaggio adoperato).

3.

Secondo un innalzamento del tasso di letterarietà e di inclusività – vorremmo dire di “sublime” -, che fa per avvicinare sensibilmente il diagramma dell’itinerario di Roversi all’evoluzione della lirica di un sodale molto stimato dal bolognese, quelSereni che sfiora la prosa (e le corde della più autentica poesia civile italiana) con Gli strumenti umani (1965), per approdare ad una sorta di araldica senza centro, una gelida ricognizione poetica intorno alle regioni del nulla e del vuoto di senso avviata (e precocemente interrotta) con Stella variabile (1981: non a caso opera, quest’ultima, dalla vicenda editoriale complessa e stratificata all’insegna della disseminazione di testi, di “frammenti” provvisori).

4.
A tentare di afferrare il senso, la natura profonda di queste ultime lasse offerte dall’autore, si dovrà parlare, e sorprendentemente, di un ritorno della pronuncia di Roversi alla fermezza classica addirittura dei suoi esordi, dove il gusto per la durezza della lingua dei poeti e dei tragici greci si saldava alla passione per l’irta e bruciante scrittura di Tommaso Campanella, alle letture dei lirici tedeschi (da Goethe a Hölderlin, da Schiller a Carossa)(7). È il sottofondo peculiare del linguaggio roversiano, poco scandagliato dai critici nel corso del tempo, che si intrecciava, nella sua giovanile stagione letteraria (dall’esperienza di “Officina” ai poemetti di Dopo Campoformio), con il tentativo di rivisitare forme e generi della tradizione poetica novecentesca, richiamando una genealogia anti-ermetica che da Pascoli (e Carducci) giungeva, attraverso Saba, alla predilezione per il “frammento” narrativo dei moralisti vociani (Jahier). E che, in quelle prime prove, riusciva a contenere volontà di denuncia (rabbia e impegno civile) e dimensione “prosastica” del linguaggio nella definizione di una solida epica (o mitologia) popolare, ricorrendo appunto alle misure lunghe del verso (memore di Pavese), alla compattezza del poema e alla “petrosità” linguistica.

5.
Qui, nella tensione rinnovata della sua poesia, il fondo terso, “barbarico” e primitivo del linguaggio di Roversi, il raccordo con i classici e con i loro moduli espressivi “basici” ed elementari, si nutre invece di prosastici frammenti sospesi nel vuoto, che conducono a visioni o a gelide allegorie sulle forze oscure che dominano non più solo la cronaca e un tempo storico definito, ma il cuore del destino dell’uomo (con l’accentuazione di una cupa vena malinconica che sostiene, nella dimensione autobiografica e quasi testimoniale di molti dei suoi versi, l’apertura frammentaria verso la ricognizione dell’universalità dell’esistente, tra presente e mitico passato). Ai limiti di una lacerata rappresentazione panica, arcaica e preistorica, dell’oggi in cui viviamo (emblematica la ricorrenza di termini e figure che gravitano intorno al campo semantico della guerra e della morte, di una natura offesa e sanguinante: “guerrieri” e “tamburi”, “battaglie” e “sangue”, “nemici” e “cadaveri”, “vendetta” e “miseria”, “animali uccisi” e “belv[e]” che “si rintana[no] dentro caverne”).

[L'articolo completo, associato ai testi di Roberto Roversi, è stato pubblicato sul sito L'ospite ingrato]

4 commenti:

Unknown ha detto...

"Amava ripetere che la parola «compagno» vuol dire, semplicemente, colui che divide il pane.

Roberto Roversi non ha fatto altro che dividere il pane della parola e della poesia nel corso di una vita lunga e operosa, la cui sola metafisica consisteva nell’ascolto e in una vigile apertura ai suoi interlocutori, innumerevoli e per lo più giovanissimi, sempre accolti con una civiltà che non poteva derogare dal riserbo e dal rigore etico-politico (quasi un misterioso nettare che traduceva la clausura in apertura), sul quale si fondavano la sua intransigenza come la sua totale indipendenza di uomo senza apparente biografia."

Massimo Raffaelli, da Il pane della poesia, di cui all'articolo nel Manifesto 16 sett. 2012

* ° * ° * ° *

"Noi che scriviamo solo per il dolore e l’urgenza del commiato, per la gratitudine che sentiamo
verso l’amico assiduo e sodale del nostro lavoro, verso il compagno fraterno di questo giornale, ecco, lo riconosciamo subito: è suo desiderio che non vi siano cerimonie, né pubbliche né private,
né commemorazione né camera ardente. È il desiderio, serenamente irriducibile, che ci invia Roberto Roversi andandosene. A confermare il segno
costante della sua vita: la ricerca profonda e insieme l’essere schivo, il non apparire. Perché il poeta è un tramite che attraversa il tempo con la sola misura del verso e dell’andare a capo, costituendosi di tutte quelle scorie e, come
un testimone indomito, passa la consegna con amore e irrequietezza. Le sue certezze, quelle sole che vogliamo chiamare «versi roversi», le sue battaglie restano come un sospiro e un fiato che alimenta ancora speranza e disperanza. Tutte ancora da respirare."

Tommaso Di Francesco, da Il ricordo, 16 sett. 2012 Il Manifesto

Moltinpoesia ha detto...

Da http://isintellettualistoria2.myblog.it/archive/2012/09/16/roberto-roversi-pasolini-nella-memoria.html:


"E arrivo a un ricordo che ho sempre tenuto vivo.
Siamo ai giardini Margherita, seduti su un prato appena tagliato; tra lo splendore giallo s’alza un profumo compatto, molto padano, del fieno falciato a cumuli, che si sta asciugando. Poca gente, solo presenze colorate di donne e ragazze che camminano qua e la’. Noi tre seduti (Leonetti, Pasolini, io) parliamo di una rivista che vogliamo fare, che "dobbiamo fare". Il nome gia’ proposto e’ "Eredi". Parliamo con una leggerezza che e’ felicita’, per una cosa finalmente importante; per una decisione nostra che dovremo realizzare impegnandoci. Ci sentiamo infervorati. Passa un uomo in bicicletta, e’ in borghese; adagio, cerca con la testa; ha bisogno di parlare? Ci vede, si avvicina, non si ferma; dice a bassa voce: "Hitler ha invaso la Russia".
E’ il 22 giugno del ’41 e noi eravamo, in quel momento della nostra giovinezza fuori dal mondo...

(rievocazione di Pier Paolo Pasolini scritta a pochi giorni dalla sua morte da Roberto Roversi e pubblicata dal periodico friulano "Macchie")

Anonimo ha detto...

Una cara persona e un grande poeta . La cattiva coscienza del rampantismo / presenzialismo "poetico" italiano .

leopoldo attolico -

enzo ha detto...

Mi pare che in un post dedicato alla poetessa Cascella in cui era nata una discussione senza fine sulla battaglia tra prosa poetica e poesia, su quale fosse il "verso" giusto, la sua lunghezza ecc. avevo citato certa poesia di Roversi basata su scelte di rime prosodiche prive di rime a ritmo spezzato da pause e versi brevissimi formati anche da una sola parola tutti elementi questi ultimi che venivano e vengono usati da poeti e critici per screditare altri poeti. La cosa che più colpisce, che più interessa e che fa parte della biografia di questo poeta è la sua strenua lotta, insieme a Pasolini, Leonetti ...contro le ideologie, l'omologazione dell'industria culturale.. portata avanti però da un Roversi che difende fieramente la sua emarginazione. La cosa è tanto più affascinante quanto più, ancor oggi, si farebbe di tutto pur di apparire.