Marzia Spinelli Nelle tue stanze Edizioni Progetto Cultura, Roma,
2012
La sostenutezza
formale di questa raccolta di Marzia Spinelli indica appunto che ci sono dei
sostegni, delle travi portanti, delle mensole che tengono insieme il
calcestruzzo «povero» della costruzione poetica; è indice di ciò che altrove,
sul pianeta Terra, viene stimato essere cosa gradita tra interlocutori che si
scambiano convenevoli, fatuità e prolegomeni. Le poesie sono un po’ i
prolegomeni a una vera vita che ancora non c’è.
E questa raccolta sembra quasi
scritta da un poeta che non si vede (che passa tra le ombre domestiche che
vengono scambiate per luce) per un mondo che non c’è, che ci parla di una
estraniazione dal punto di vista di un estraneo alla vita, ci parla di un mondo
che sembra essersi dileguato: l’infanzia, la memoria, la stanza vuota, l’ultima
estate, le stanze abitate, disabitate. «Nelle
tue stanze» potrebbe sembrare un titolo eccessivamente generico proprio per
quel suo restringere il campo semantico della significazione ad un luogo di quotidiana
frequentazione. Un luogo (quello della «stanza» con tutta una serie di
variazioni) con la consapevolezza che non in esso c’è il salvagente, un luogo
che è diventata la soglia di una autenticità perduta, smarrita, il luogo dei
luoghi, quei luoghi che oggi sono considerati luoghi turistici, moneta
corrente, che passano di mano in mano al pari di una moneta, che non indicano
nulla di significativo. C’è qua e là la declinazione elegiaca che appare in
filigrana:
Tace il pianto
sigillato tra
le pietre
dove la figlia
padrona fuma e vende quarzi,
dice buon
giorno come te
la madre quando
arriva, una scossa della testa
è la risposta
all’offerta della colazione
alla figlia che
non la vuole, ora che la madre è al bar
dico alla
figlia – sarebbe piaciuta a mia madre questa collana –
ma lei tace, si
volta con un sospiro, ora che la madre è tornata
va a sedersi da
padrona la figlia
in faccia alla
madre che accende una sigaretta e dice grazie come te
nell’immobile
silenzio delle pietre
guarda la
figlia darmi il bancomat,
ha capelli come
i tuoi questa invisibile piccola statua,
i gesti lenti e
l’assenza composta,
digito il pin
con le dita di onice
alla figlia
padrona che annuncia saldi
volevo dare un
segnale,
ma solo per me
la coincidenza, la pena, le pietre da sgranare,
in un qualunque
mattino caldo
d’anniversario.
È una poesia gentile che adombra il piccolo
mondo antico dell’io e delle sue formalità.
Come scrive
Adorno: «Dietro la
demolizione pseudodemocratica delle formalità, della cortesia vecchio stile e
della conversazione ormai inutile e sospetta? non del tutto a torto? di non
essere che pettegolezzo, dietro l'apparente chiarezza e trasparenza dei
rapporti umani, che non tollera più nulla di indefinito, si annuncia la pura
brutalità. La parola diretta, che senza dilungarsi, senza esitare, senza
riflessione, ti dice in faccia come stanno le cose, ha già la forma e il tono
del comando che, sotto il fascismo, i muti trasmettono ai muti. La semplicità e
oggettività dei rapporti, che elimina ogni orpello ideologico tra gli uomini, è
già diventata un'ideologia in funzione della prassi di trattare gli uomini come
cose.»*
Giorgio Linguaglossa
* (Theodor W. Adorno - Minima
Moralia / Meditazioni della vita offesa - Einaudi, 1994.)
VIII
a dimenticare la
voce
ci vogliono anni, mi
dicono.
Parlano come
sapessero
tutto dei morti.
Hanno pena sincera di me,
straniera approdata.
Stesso dolore,
stesso cuore pesto,
abisso che si tace,
se ne parla da soli
come colloquiano i
matti.
X
le foglie rosse nella tua stanza,
inutile raccolta, insostenibile il vuoto
affacciato su questo nulla,
peggiora di giorno in giorno,
inutile l’acqua e l’aria,
le più frantumate s’insinuano agli angoli
del parquet divelto,
non avvertono, non lasciano traccia
le più leggere che volano via.
XIV
l’amo della memoria
è una corda pendula, il gancio
su un’attesa da riempire,
pestando a terra come fosse uva.
se agronomi della vita o geometri dell’aria
lo sapremo alla fine. Ora so che è semina il Tempo,
porta tutto a vendemmia, anche le stelle.
XVII
In sogno scopro felice che sei viva,
ma l’abbraccio non ha presa,
infilo gesti in un’ assenza
di attrazione,
dura finché chiedo se sono
alla vista, al tatto, di qualcosa.
Dovrei essere anche senza di te,
risponde il corpo che formicola.
XIX
solo i poeti sanno la nascita
segnata dalle stelle, la veglia di luce
su le colpe che diventano preghiere,
su quali chiodi fissi vigila
il pieno e il nuovo della luna.
Nel tempo che dormiamo c’è un arresto
o un ignoto accelerato
dalla staffetta dimenticata della morte.
XX
Siede il Novecento
su la tua schiena curva
di superstite
air bag di bombe e di rese
era cibo la
Storia nel guscio
chiaro dei più limpidi ricordi
la guerra, il matrimonio, la mia nascita
il diario comune di ragazza
nell’infinito sbando dei venti
e le tempeste
l’arco minuscolo, la parabola,
il perimetro del mio secolo.
1 commento:
Ad alcuni miei amici è inutile dire quanto siano nelle mie corde queste poesie, potrebbe bastare per poter dare il mio giudizio , ma voglio aggiungere anche la mia opinione su questa memoria che appare costruita nell'oggi come colonna, a sostenere un passato che porta vita e onore all'esistenza di ogni poeta che non vuole perdersi nell'inutile labirinto di un nuovo senza radici. Il mio respiro( e spero quello di tutti coloro che leggeranno questi versi), si fa profondo. Grazie davvero. Emy
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