sabato 26 gennaio 2013

Marco Onofrio su "La fanciulla muta"
di Chiara Mutti.


Le liriche raccolte ne "La fanciulla muta" (lepisma, 2012) sono trafitte da lampi di nobiltà letteraria e tendono alla misura del volo transoceanico (che più spesso è traiettoria del viaggio interiore) anche nella più compiuta e perfetta immobilità. non è ambizione consapevole o velleità programmatica – bensì, piuttosto, timbro di un’impronta naturale – questo respiro largo di una poesia che raggiunge, in sé, l’altezza e la luce della classicità. Chiara Mutti ha una voce congeniale al registro “sublime”: insegue l’inesplicabile bellezza del mondo, e ne attraversa i livelli camminando lungo percorsi labirintici di “incanto e paura” (ecco il sublime). una poesia “dolce e forte”, tenera e crudele: un “marmoreo affiorare di gigli”, un “sangue rosso, rappreso ai piedi nudi della gioia”. immagini, queste, ghermite con gli “artigli dell’anima”, che lasciano graffi leggeri ma non per questo meno penetranti: anzi. una poesia siffatta va configurandosi, a certe condizioni, come rito alchemico di ricomposizione delle forze: nasce dal confronto della vita (nella sua irriducibile caparbietà) con la morte ingannatrice, col tempo dell’uomo immerso dentro il vuoto cosmico.
il poeta fissa l’istante “nel divenire eterno”: tenta di “rubare l’immagine all’oblio”, di “fermare l’onda”. al musicista sfugge l’accordo nel silenzio che lo inghiotte: come fermarlo? i corpi “stillano” immagini come emanazioni ectoplasmatiche. ogni cosa libera nel tempo, istante per istante, le sue fotografie. ogni attimo è la foto del mondo donata al cielo. le scene della realtà si perdono, svaniscono, se nessuno le raccoglie: i contorni degli esseri (animati e inanimati) sfumano nel vuoto. affondano nell’invisibile in cui il poeta acconsente di calarsi, fino all’immagine incerata del “senza forma”. il colore del colore, il vuoto del vuoto: l’essenza inconoscibile. per questo Chiara Mutti “nella nebbia” (cioè nell’opacità stanca e confusa del vivere) può dire, col suo sguardo lucido: “ho visto un dio”. sono gli alberi in particolare (forse perché affondano nella linfa della terra con le radici, ma “spolverano il cielo con le cime”) a infondere nel sogno “l’ultimo respiro degli dei” in un mondo ormai disincantato e desacralizzato. Ma la realtà censibile e razionalizzabile non esaurisce tutto ciò che è: la più parte sfugge nell’oblio, nel mistero dell’invisibile. Il mistero deborda dai suoi confini: è un segreto “trattenuto a stento”. il poeta deve essere paziente nell’attendere e abile nel cogliere la subitanea rivelazione. il “perimetro dell’umano cosmo” sfuma così in “sacro cerchio” dove vola, libero, il “respiro verde dell’anima”. e c’è, alla base della poesia di Chiara Mutti, un desiderio e un bisogno di scavo, di ricapitolazione dell’esperienza, che testimonia anche dei suoi interessi antropologici (toccare il fondo, le radici dell’uomo attraverso la cenere e il sangue delle generazioni) e archeologici (le orme stratificate dell’uomo nel tempo: “parole di strati diversi / - lingua di vita / accatastata su vita”). che non esclude, peraltro, lo studio archeologico del sé: la costruzione della persona, le ere geologiche e geometriche assimilate nella propria crescita. “dai sepolcri / della memoria occulti / estraggo (…) una triste sublime / malinconia (…) echi d’infanzia”, per cui “riflessa / nelle lacrime del tempo / mi respiro”. "sunt lacrimae rerum": ecco la predisposizione emotiva che intride la sua visione del mondo, il suo modo profondo di guardare alle cose.




daLa Fanciulla Muta


Sussurri

Nella nebbia del mattino
ho visto un dio

dipinto dell’arancio
trasognato dei lampioni,

uno sgambettare d’ombre
sedute nell’eclissi.

Riflessa
nelle lacrime del tempo
mi respiro

e dissolvo…

così, come succede ai sogni.


lA FANCIULLA MUTA

Hanno chinato la cima
i cipressi
ad annusare l’odore dei prati

un odore bianco
un nonnulla
un marmoreo affiorare
di gigli

e il silenzio
è un richiamo del cielo
un sorriso stupito
un fantasma

la fanciulla muta.

Come il nascere di un uovo

Il sole smuove la coperta

ancora trema il corpo
che l’anima trattiene a stento
il suo respiro verde

violento

come il nascere di un uovo
che ferisce gli occhi
mette sete
bagna

cerca nel bianco delle mani
i semi aperti.

La primavera sguscia
di sangue in sangue
che si è fatto linfa

catetere di fluido in decomposizione
pronto a rigenerarsi nell’ampolla.

Frode di cieli blu
assassinati nell’infanzia.


Spleen

E del perché
della domanda, sempre
quella, che non ha risposta
porto nelle mie palme
il vuoto universale

contorto ramo secco
ancora assorbo
l’umidità del sangue
versato sulla terra

e ancora mi rivolto
nella cenere che il fuoco
ha condannato al rogo

Uomo sacro,
cranio,
nascosto simulacro
che il mio viso offusca,

porti, nell’orbita scoperta
del mio essere di ossa

- in estremo gesto -
la risposta.


Nin-tu
(Dea sumera Nin-hursanga, detta anche Nin-tu(r): la Signora della Nascita. In origine chiamata Ki, la Terra, era considerata la madre di tutti gli esseri viventi.)

Sorella MadreTerra
infausta nelle mie mani
lasciasti il dono

dissipato
alfine come topi in massa
nell’innato istinto
correremo giù dalla tua rupe
ciechi come falene
rese cieche dalla luce
folli come scimmie
rese folli dalla prigionia
gravidi come cagne
sciuperemo il seme
prosciugheremo il mare
e il miracolo dei pesci
non si ripeterà
la spiga brucerà l’asfalto
landa di nessuno.

Solo ci sarà dato
il respiro degli eroi
che seppero cantarti
benevola e terribile
vulcano d’Islanda
lapilli e cenere
l’incanto e la paura
l’inesplicabile bellezza
tanto che ingrata torno
a consegnarti un intimo vagito.

Mi lascio attraversare

Mi lascio attraversare
verbo che scivola

si ferma
ristagna
si allarga

mi lascio penetrare
voce
che non è verso

poesia
che non è parola
ma anima
e vita
di vite vissute

mi lascio plasmare
divento terra

e lo sputo di dio.


Occhi di cane

Aiuola
sudicia
di sporco cittadino
di carte e croste
unte
di nerosmog
preservativi consumati
di non amore
un lillacino petalo
di ciclamino
spunta
un po’ di sbieco
la bellezza
occhi di cane
mi si accuccia affianco
e sorride
alla caparbietà della vita.


TELESHOW

Sto sul moto dell’indifferenza e ascolto
ho imparato a non ferirmi ai rovi
con il vento dell’autunno che scompiglia,
rabbiosa a ricoprirmi

mentre il sangue mi colava sul colletto
del dolore

dell’orgoglio lacero
del figlio ucciso
femmina per parto
cassa di risonanza
rovesciata

grido muto
ristrozzato in gola

gazza ladra che soffoca i pulcini
una piuma in un palmo
nell’altra il guanto.

Non sporcarsi le mani,
questo è importante.

Pigiare un tasto
serve
urge
cambiare canale
non sapere
non vedere
non capire
basta!

La rivoluzione è altrove
e poi non serve
e poi non cambia
e poi domani
la giustizia non sarà mica una manciata di parole

voglio bruciare, al rogo
questo foglio figlio
dell’indifferenza.


Te Deum per San Valentino

Non fatene una scatola di cioccolatini
di quel che resta:
sembianze scolorite di animali vivi;

i petali hanno smesso di contare
i loro fiori - e la tempesta…
la tempesta esala,
a stento, un lamento di marea.

La tua immagine
rifrange sulla spiaggia
con lo stesso umore
monotono di terra

ed io mi avvolgo, brulicando,
nel giardino dei gerani calpestati

sussurro
tra labbra di zolle e crochi
il seme posseduto

di corteccia
e della pioggia, il nome.


Batuffoli di luna

Sdraiata sulle mie ginocchia
aperte a risucchiare il mondo
come lava di caldera
brucio
le ceneri del grande giorno.

C’è stato un tempo
in cui gli occhi
erano specchio di marea salata,
rigurgito di piuma.

C’è stato un tempo

in cui batuffoli di luna erano seno e latte,
ora sono oro
colato nel mio letto.

E mi seduco
di gigli sparpagliati sulla fossa

nessuna ombra segue il passo
nessuna ora suona.

Ma tu sei il tempo che c’è stato
respiri i fianchi e il ritmo della danza
e perdi il sonno,
le ore e il nettare di dio.

Io mi rinasco uccello
e piombo sulla culla dell’ignaro sonno,
ombra,
che osa fissare il cielo.


Biancoenero

Copro la distanza dei chilometri
col biancoenero di un’immagine
dal finestrino chiuso

nulla si concede in questa calca
di umori d’uomini affrettati
verso la conquista dell’arrivo.

Non un volto, non un gesto…
mi appartiene
pure di questa umanità
trattengo l’assoluto

lì dove s’accalca,
volto le pagine dell’astio
nell’indugio.

Ho desiderato
un’altro spazio
al di là dell’ultima fermata.
Forse ti ho vinto sul tempo

forse, il tuo posto vuoto,
mi ha permesso di esistere.


L’abbandono

Prima che il solco
germogliasse la mia vita

prima,
prima del tempo.

Il treno che non presi
tacque il suo urlo di partenza.

Mossi la mano in segno di saluto
per sempre, sulla porta.



* Chiara Mutti è nata il 3/1/1964 a Roma, lavora presso l’Archivio
fotografico della Galleria nazionale d’arte moderna di Roma.
E’ appassionata di fotografia, letteratura, archeologia e antropologia.
La fanciulla muta” è la sua prima raccolta di poesie.

1 commento:

Anonimo ha detto...

Una musica infantile percorre questi versi, ricerca di ricordi . desiderio di superare le prove della vita con un passo attento ma sicuro. Anche la paura della perdita , la trovo molto ben inserita in tutte le poesie. C'è qualcosa comunque , di già ascoltato, di già visto forse in un tempo del mio tempo. Emy