Le
liriche raccolte ne "La fanciulla muta" (lepisma, 2012)
sono trafitte da lampi di nobiltà letteraria e tendono alla misura
del volo transoceanico (che più spesso è traiettoria del viaggio
interiore) anche nella più compiuta e perfetta immobilità. non è
ambizione consapevole o velleità programmatica – bensì,
piuttosto, timbro di un’impronta naturale – questo respiro largo
di una poesia che raggiunge, in sé, l’altezza e la luce della
classicità. Chiara Mutti ha una voce congeniale al registro
“sublime”: insegue l’inesplicabile bellezza del mondo, e ne
attraversa i livelli camminando lungo percorsi labirintici di
“incanto e paura” (ecco il sublime). una poesia “dolce e
forte”, tenera e crudele: un “marmoreo affiorare di gigli”, un
“sangue rosso, rappreso ai piedi nudi della gioia”. immagini,
queste, ghermite con gli “artigli dell’anima”, che lasciano
graffi leggeri ma non per questo meno penetranti: anzi. una poesia
siffatta va configurandosi, a certe condizioni, come rito alchemico
di ricomposizione delle forze: nasce dal confronto della vita (nella
sua irriducibile caparbietà) con la morte ingannatrice, col tempo
dell’uomo immerso dentro il vuoto cosmico.
il poeta fissa l’istante “nel divenire eterno”: tenta di “rubare l’immagine all’oblio”, di “fermare l’onda”. al musicista sfugge l’accordo nel silenzio che lo inghiotte: come fermarlo? i corpi “stillano” immagini come emanazioni ectoplasmatiche. ogni cosa libera nel tempo, istante per istante, le sue fotografie. ogni attimo è la foto del mondo donata al cielo. le scene della realtà si perdono, svaniscono, se nessuno le raccoglie: i contorni degli esseri (animati e inanimati) sfumano nel vuoto. affondano nell’invisibile in cui il poeta acconsente di calarsi, fino all’immagine incerata del “senza forma”. il colore del colore, il vuoto del vuoto: l’essenza inconoscibile. per questo Chiara Mutti “nella nebbia” (cioè nell’opacità stanca e confusa del vivere) può dire, col suo sguardo lucido: “ho visto un dio”. sono gli alberi in particolare (forse perché affondano nella linfa della terra con le radici, ma “spolverano il cielo con le cime”) a infondere nel sogno “l’ultimo respiro degli dei” in un mondo ormai disincantato e desacralizzato. Ma la realtà censibile e razionalizzabile non esaurisce tutto ciò che è: la più parte sfugge nell’oblio, nel mistero dell’invisibile. Il mistero deborda dai suoi confini: è un segreto “trattenuto a stento”. il poeta deve essere paziente nell’attendere e abile nel cogliere la subitanea rivelazione. il “perimetro dell’umano cosmo” sfuma così in “sacro cerchio” dove vola, libero, il “respiro verde dell’anima”. e c’è, alla base della poesia di Chiara Mutti, un desiderio e un bisogno di scavo, di ricapitolazione dell’esperienza, che testimonia anche dei suoi interessi antropologici (toccare il fondo, le radici dell’uomo attraverso la cenere e il sangue delle generazioni) e archeologici (le orme stratificate dell’uomo nel tempo: “parole di strati diversi / - lingua di vita / accatastata su vita”). che non esclude, peraltro, lo studio archeologico del sé: la costruzione della persona, le ere geologiche e geometriche assimilate nella propria crescita. “dai sepolcri / della memoria occulti / estraggo (…) una triste sublime / malinconia (…) echi d’infanzia”, per cui “riflessa / nelle lacrime del tempo / mi respiro”. "sunt lacrimae rerum": ecco la predisposizione emotiva che intride la sua visione del mondo, il suo modo profondo di guardare alle cose.
il poeta fissa l’istante “nel divenire eterno”: tenta di “rubare l’immagine all’oblio”, di “fermare l’onda”. al musicista sfugge l’accordo nel silenzio che lo inghiotte: come fermarlo? i corpi “stillano” immagini come emanazioni ectoplasmatiche. ogni cosa libera nel tempo, istante per istante, le sue fotografie. ogni attimo è la foto del mondo donata al cielo. le scene della realtà si perdono, svaniscono, se nessuno le raccoglie: i contorni degli esseri (animati e inanimati) sfumano nel vuoto. affondano nell’invisibile in cui il poeta acconsente di calarsi, fino all’immagine incerata del “senza forma”. il colore del colore, il vuoto del vuoto: l’essenza inconoscibile. per questo Chiara Mutti “nella nebbia” (cioè nell’opacità stanca e confusa del vivere) può dire, col suo sguardo lucido: “ho visto un dio”. sono gli alberi in particolare (forse perché affondano nella linfa della terra con le radici, ma “spolverano il cielo con le cime”) a infondere nel sogno “l’ultimo respiro degli dei” in un mondo ormai disincantato e desacralizzato. Ma la realtà censibile e razionalizzabile non esaurisce tutto ciò che è: la più parte sfugge nell’oblio, nel mistero dell’invisibile. Il mistero deborda dai suoi confini: è un segreto “trattenuto a stento”. il poeta deve essere paziente nell’attendere e abile nel cogliere la subitanea rivelazione. il “perimetro dell’umano cosmo” sfuma così in “sacro cerchio” dove vola, libero, il “respiro verde dell’anima”. e c’è, alla base della poesia di Chiara Mutti, un desiderio e un bisogno di scavo, di ricapitolazione dell’esperienza, che testimonia anche dei suoi interessi antropologici (toccare il fondo, le radici dell’uomo attraverso la cenere e il sangue delle generazioni) e archeologici (le orme stratificate dell’uomo nel tempo: “parole di strati diversi / - lingua di vita / accatastata su vita”). che non esclude, peraltro, lo studio archeologico del sé: la costruzione della persona, le ere geologiche e geometriche assimilate nella propria crescita. “dai sepolcri / della memoria occulti / estraggo (…) una triste sublime / malinconia (…) echi d’infanzia”, per cui “riflessa / nelle lacrime del tempo / mi respiro”. "sunt lacrimae rerum": ecco la predisposizione emotiva che intride la sua visione del mondo, il suo modo profondo di guardare alle cose.
da
“La
Fanciulla Muta”
Sussurri
Nella
nebbia del mattino
ho
visto un dio
dipinto
dell’arancio
trasognato
dei lampioni,
uno
sgambettare d’ombre
sedute
nell’eclissi.
Riflessa
nelle
lacrime del tempo
mi
respiro
e
dissolvo…
così,
come succede ai sogni.
lA
FANCIULLA MUTA
Hanno
chinato la cima
i
cipressi
ad
annusare l’odore dei prati
un
odore bianco
un
nonnulla
un
marmoreo affiorare
di
gigli
e
il silenzio
è
un richiamo del cielo
un
sorriso stupito
un
fantasma
la
fanciulla muta.
Come
il nascere di un uovo
Il
sole smuove la coperta
ancora
trema il corpo
che
l’anima trattiene a stento
il
suo respiro verde
violento
come
il nascere di un uovo
che
ferisce gli occhi
mette
sete
bagna
cerca
nel bianco delle mani
i
semi aperti.
La
primavera sguscia
di
sangue in sangue
che
si è fatto linfa
catetere
di fluido in decomposizione
pronto
a rigenerarsi nell’ampolla.
Frode
di cieli blu
assassinati
nell’infanzia.
Spleen
E
del perché
della
domanda, sempre
quella,
che non ha risposta
porto
nelle mie palme
il
vuoto universale
contorto
ramo secco
ancora
assorbo
l’umidità
del sangue
versato
sulla terra
e
ancora mi rivolto
nella
cenere che il fuoco
ha
condannato al rogo
Uomo
sacro,
cranio,
nascosto
simulacro
che
il mio viso offusca,
porti,
nell’orbita scoperta
del
mio essere di ossa
-
in estremo gesto -
la
risposta.
Nin-tu
(Dea
sumera Nin-hursanga, detta anche Nin-tu(r): la Signora della Nascita.
In origine chiamata Ki,
la Terra, era considerata la madre di tutti gli esseri viventi.)
Sorella
MadreTerra
infausta nelle mie mani
lasciasti il dono
dissipato
alfine come topi in massa
alfine come topi in massa
nell’innato
istinto
correremo
giù dalla tua rupe
ciechi come
falene
rese cieche dalla luce
folli come scimmie
rese folli dalla prigionia
gravidi come cagne
sciuperemo il seme
rese cieche dalla luce
folli come scimmie
rese folli dalla prigionia
gravidi come cagne
sciuperemo il seme
prosciugheremo
il mare
e il miracolo dei pesci
non si ripeterà
la spiga brucerà l’asfalto
landa di nessuno.
e il miracolo dei pesci
non si ripeterà
la spiga brucerà l’asfalto
landa di nessuno.
Solo
ci sarà dato
il
respiro degli eroi
che
seppero cantarti
benevola e terribile
vulcano d’Islanda
lapilli e cenere
l’incanto e la paura
l’inesplicabile bellezza
benevola e terribile
vulcano d’Islanda
lapilli e cenere
l’incanto e la paura
l’inesplicabile bellezza
tanto che
ingrata torno
a consegnarti un intimo vagito.
a consegnarti un intimo vagito.
Mi
lascio attraversare
Mi
lascio attraversare
verbo
che scivola
si
ferma
ristagna
si
allarga
mi
lascio penetrare
voce
che
non è verso
poesia
che
non è parola
ma
anima
e
vita
di
vite vissute
mi
lascio plasmare
divento
terra
e
lo sputo di dio.
Occhi
di cane
Aiuola
sudicia
di
sporco cittadino
di
carte e croste
unte
di
nerosmog
preservativi
consumati
di
non amore
un
lillacino petalo
di
ciclamino
spunta
un
po’ di sbieco
la
bellezza
occhi
di cane
mi
si accuccia affianco
e
sorride
alla
caparbietà della vita.
TELESHOW
Sto
sul moto dell’indifferenza e ascolto
ho
imparato a non ferirmi ai rovi
con
il vento dell’autunno che scompiglia,
rabbiosa
a ricoprirmi
mentre
il sangue mi colava sul colletto
del
dolore
dell’orgoglio
lacero
del
figlio ucciso
femmina
per parto
cassa
di risonanza
rovesciata
grido
muto
ristrozzato
in gola
gazza
ladra che soffoca i pulcini
una
piuma in un palmo
nell’altra
il guanto.
Non
sporcarsi le mani,
questo
è importante.
Pigiare
un tasto
serve
urge
cambiare
canale
non
sapere
non
vedere
non
capire
basta!
La
rivoluzione è altrove
e
poi non serve
e
poi non cambia
e
poi domani
la
giustizia non sarà mica una manciata di parole
voglio
bruciare, al rogo
questo
foglio figlio
dell’indifferenza.
Te
Deum per San Valentino
Non
fatene una scatola di cioccolatini
di
quel che resta:
sembianze
scolorite di animali vivi;
i
petali hanno smesso di contare
i
loro fiori - e la tempesta…
la
tempesta esala,
a
stento, un lamento di marea.
La
tua immagine
rifrange
sulla spiaggia
con
lo stesso umore
monotono
di terra
ed
io mi avvolgo, brulicando,
nel
giardino dei gerani calpestati
sussurro
tra
labbra di zolle e crochi
il
seme posseduto
di
corteccia
e
della pioggia, il nome.
Batuffoli
di luna
Sdraiata
sulle mie ginocchia
aperte
a risucchiare il mondo
come
lava di caldera
brucio
le
ceneri del grande giorno.
C’è
stato un tempo
in
cui gli occhi
erano
specchio di marea salata,
rigurgito
di piuma.
C’è
stato un tempo
in
cui batuffoli di luna erano seno e latte,
ora
sono oro
colato
nel mio letto.
E
mi seduco
di
gigli sparpagliati sulla fossa
nessuna
ombra segue il passo
nessuna
ora suona.
Ma
tu sei il tempo che c’è stato
respiri
i fianchi e il ritmo della danza
e
perdi il sonno,
le
ore e il nettare di dio.
Io
mi rinasco uccello
e
piombo sulla culla dell’ignaro sonno,
ombra,
che
osa fissare il cielo.
Biancoenero
Copro
la distanza dei chilometri
col
biancoenero di un’immagine
dal
finestrino chiuso
nulla
si concede in questa calca
di
umori d’uomini affrettati
verso
la conquista dell’arrivo.
Non
un volto, non un gesto…
mi
appartiene
pure
di questa umanità
trattengo
l’assoluto
lì
dove s’accalca,
volto
le pagine dell’astio
nell’indugio.
Ho
desiderato
un’altro
spazio
al
di là dell’ultima fermata.
Forse
ti ho vinto sul tempo
forse,
il tuo posto vuoto,
mi
ha permesso di esistere.
L’abbandono
Prima
che il solco
germogliasse
la mia vita
prima,
prima
del tempo.
Il
treno che non presi
tacque
il suo urlo di partenza.
Mossi
la mano in segno di saluto
per
sempre, sulla porta.
* Chiara Mutti è nata il 3/1/1964 a Roma, lavora presso l’Archivio
fotografico della Galleria nazionale d’arte moderna di Roma.
E’ appassionata di fotografia, letteratura, archeologia e antropologia.
“La fanciulla muta” è la sua prima raccolta di poesie.
1 commento:
Una musica infantile percorre questi versi, ricerca di ricordi . desiderio di superare le prove della vita con un passo attento ma sicuro. Anche la paura della perdita , la trovo molto ben inserita in tutte le poesie. C'è qualcosa comunque , di già ascoltato, di già visto forse in un tempo del mio tempo. Emy
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