1. In una recente intervista sulla
storia del Gruppo ’63 (qui) alla domanda «Lei ritiene che un’esperienza simile, in cui si fa gruppo, sia
oggi ripetibile?», Umberto Eco risponde: «Mi pare difficile. È cambiato il clima. Balestrini ha cercato di far nascere un Gruppo 93, ma ciascuno poi ha corso per conto proprio. È un po’ per lo stesso motivo per cui oggi i giovani non si riuniscono più in associazioni o partiti. Siamo in un’epoca di cani sciolti». E più avanti lapidariamente aggiunge: «L’ultima possibilità data a una generazione di fare gruppo fu il ’68, ma non era gruppo letterario bensì politico. Diciamo che molte di quelle energie che in un’altra epoca sarebbero confluite in un’attività letteraria allora confluirono nella politica.». Queste parole di Eco, per le circostanze in cui le ho letto (qui), mi hanno colpito. Non credo che un destino, una maledizione, la «condizione postmoderna», la crisi generale condannino i poeti all’individualismo, ma l’esperienza empirica (anche personale) sembra confermare l’esattezza della diagnosi; e il fallimento (o interruzione o trasformazione…) del progetto «Laboratorio Moltinpoesia di Milano» (Per un rendiconto, aggiornato al 2011, delle sue iniziative leggi sotto Appendice 2) impone quantomeno
un ripensamento.
2. Ho parlato di fallimento: il gruppo che doveva cooperare
non s’è formato, il noi sperato non è
venuto fuori, il laboratorio è esistito
più di nome che nei fatti, è stato altra
cosa (un ibrido? un tira e molla inconcludente? un’occasione mancata?)
rispetto al progetto, che avevo abbozzato ed esposto la sera del 9 novembre
2006 in Palazzina Liberty a Milano (Cfr. sotto Appendice 1) e che era centrato sul come essere moltinpoesia o, fuori dal gergo, come essere positivamente poeti-massa. (Sia chiaro che respingo la
connotazione negativa che di solito il termine ‘massa’ ha nel dibattito
corrente). Nell’esporre dal mio punto di
vista le ragioni del fallimento, mi limito a quelle più vicine e concrete, quelle su cui è possibile
ragionare con gli altri partecipanti all’esperienza e gli “esterni”.
3. Paragonerei il «Laboratorio
Moltinpoesia di Milano» (più la mailing list e poi il blog) a delle botti. Mentre io vi versavo un preciso
tipo di vino - quello moltinpoesia - in
sotterranea o aperta competizione con il mio altri/e immettevano i loro vini (a mio parere:
più individualistici, ludico-spettacolari, più poetico-spiritualistici che
poetico-politici, più autoterapeutici che conoscitivi). Sono operazioni del tutto legittime, né sorprendenti né allarmanti.
Anche perché il Laboratorio, per il nome che portava, accettava a priori di essere plurale. Di più: era
costretto ad esserlo per
ragioni storiche: per l’assenza da tempo di un qualsiasi Croce o Dante che possano ergersi
ad autorità indiscusse; per il declino di canoni e tradizioni nazionali; per
l’invadente e distorcente concorrenza dei mass media; per la trasformazione
delle figure dell’intellettuale, del lettore, dello scrittore, del poeta. In
una parola: per la crisi dell’Istituzione Poesia. Non c’era da scandalizzarsi se le poesie proposte ai reading o ai microfoni aperti, nella mailing list e
poi sul blog o le opinioni sulla poesia (e sulle visioni del mondo sempre
sottostanti ad esse) erano e sono eterogenee per contenuti e qualità
linguistica. Si trattava solo di coordinare
le varie voci che si facevano sentire nel Laboratorio e produrre un discorso comprensibile, condivisibile, correggibile
e sviluppabile. E per questo era indispensabile la funzione di coordinamento,
che mi sono assunto come fondatore del
Laboratorio stesso, ma che più volte (e invano) ho proposto in tutta sincerità
che altri a turno si assumessero, respingendo le maliziose o parareligiose
proiezioni di chi quella funzione assimila alle figure di una
tradizione (per me pre-moderna) del guru
o del maestro. L’esperimento era,
dunque, aperto. Un appello, una sfida che, a differenza di altre, non si
rivolgeva a specialisti, ma
appunto a poeti- massa, a lettori-critici.
4. Quali i problemi e ostacoli
incontrati? Per quanto appena detto, sarebbe impreciso sostenere che nel
Laboratorio ci sia stata una dialettica tra chi proponeva ai poeti un Canone o
una Norma e chi la rifiutava. Una dialettica - confusa, incerta e in fin dei conti paralizzante - c’è
però stata. L’aut aut più concreto che si è posto mi pare il
seguente: o fare seriamente Laboratorio
e costruire un noi capace di
intervenire nell’attuale dibattito in poesia
o essere un circolo di appassionati di poesia che si riunisce “per il piacere della poesia”, per fare salotto. E uso questi termini senza sarcasmo o disprezzo, anche
perché il progetto, per come l’avevo articolato (lettura dei testi dei
partecipanti o di altri, esercizi critici su di essi, discussioni sui problemi
della poesia), dava spazio anche al
“piacere”, ma non si riduceva a questo.
5. Dopo un avvio abbastanza dinamico e
che lasciava sperare sulla possibilità di far convivere e interagire bisogni e
punti di vista diversi secondo la logica più conciliante dell’ et et, sono emersi dei dilemmi a cui abbiamo risposto
in modi tendenzialmente contrapposti e la discussione interna al gruppo “milanese”
si è andata bloccando in tre posizioni fisse:
-
la mia, mirante a delineare anche
teoricamente il discorso di come essere moltinpoesia e a mettere in primo piano la funzione della critica (costruttiva, non normativa o solo distruttiva)
da esercitare sui testi nostri e altrui e sulle poetiche che circolano nel dibattito
sulla poesia contemporanea;
- quella di altri (alcuni dei quali
hanno poi abbandonato il gruppo) che hanno svolto un loro discorso critico ora
in dialogo con il mio e quello di altri, ora giustapposto ad essi, ora in velata
o aperta competizione (e la cosa rientrava ancora pienamente e positivamente nell’ottica
plurale del progetto) ora di frontale
opposizione (in particolare: di svalorizzazione della funzione critica; di rifiuto del legame tra poesia e realtà
storico-sociale-politica; di legame immediato tra impegno sociale e poesia);
- quella, particolarmente enigmatica e
frustante per chi coordinava o partecipava alla discussione, dei numerosi
“silenti”, rimasti in una posizione
limbica, di attesa diffidente o forse di
sconcerto, ma in fin dei conti sterile.
6. Questa dialettica bloccata ha
impedito anche che la struttura
organizzativa - “leggera”, “informale” e “aperta”; e che prevedeva all’inizio la figura del coordinatore e l’incontro
“in cerchio” faccia a faccia alla Palazzina Liberty; e poi alcuni
Gruppi di lavoro - diventasse
collegiale e cooperante. La delega al coordinatore
è prevalsa. E la prevista formazione dei Gruppi
di lavoro non è decollata: ha funzionato per i 4 numeri del “fogliettone”; mentre il Gruppo
Critici è rimasto una cometa presto scomparsa (e del resto non non bene
accolta). Infine, dal 2009, anno di inizio del blog, dopo l’iniziale gestione
collegiale a tre, questa estensione “virtuale” del Laboratorio è stata vista
con diffidenza da alcuni, è rimasta estranea ad altri emi sono trovato di nuovo
a gestirla (anche tecnicamente) da solo.
7.
Come in tutti i gruppi si è avuta anche una dialettica tra gruppo chiuso e gruppo aperto (Fachinelli, Cfr. qui).
Per alcuni dei partecipanti al Laboratorio importanti erano soprattutto gli
incontri faccia a faccia, mensili o quasi, alla Palazzina Liberty di Milano. Per
me ci voleva una decisa proiezione del Laboratorio all’esterno. Dovevano/potevano
partecipare sia pur indirettamente
persone residenti in varie città o che
per vari motivi non potevano essere fisicamente presenti agli incontri in
Palazzina. La mailing list - come coordinatore ho redatto dei resoconti
ragionati sugli incontri “milanesi” almeno fino a due anni fa - permetteva questo ampliamento
del Laboratorio ad altre voci solo in apparenza “esterne”. E, sempre nella stessa logica, dal maggio 2009, con la
fondazione del blog (http://moltinpoesia.blogspot.com/),
ancora più decisamente ho puntato sulla comunicazione digitale che, pur con
complicazioni e condizionamenti, permette questo incremento di rapporti, non
necessariamente “inautentici” o destinati
a restare solo virtuali.
8. Un altro dilemma e motivo di tensione ha riguardato il
rapporto con la Casa della Poesia di Milano presieduta da G. Majorino, che
“ospitava” il Laboratorio nella sede assegnatagli dal Comune di Milano. Per dei
poeti-massa un sotterraneo antagonismo e una certa ambivalenza verso questo simbolo milanese della poesia
“ufficiale” o dell’establishment mi
paiono comprensibili. Ci si aspettava sicuramente una maggiore attenzione e qualcosa di più del “cantuccio” riservato al
Laboratorio nel programma annuale della
Casa della Poesia. Ed, in effetti, tranne alcuni “microfoni aperti”, che mi è stato chiesto di gestire come
coordinatore del Laboratorio e episodici confronti, c’è stata netta separazione
tra il Laboratorio e il Direttivo della Casa, mai reale collaborazione. Nella mia collocazione, in effetti scomoda, di coordinatore mi sono trovato a mediare tra
opposti snobismi; e a sopportare ora sciocche accuse di essere “complice” della
gestione del direttivo della Casa della Poesia ora rimproveri e frizzi perché
davo spazio alla “plebe poetica” o agli homeless della poesia (Enzo). Non aveva
per me senso né la “contestazione” (spesso poi semplice mugugno privato) di
certe pur criticabili iniziative della
Casa della Poesia né mettersi nella posizione dei clientes petulanti che richiedono più attenzione. Anche perché il Laboratorio non c’era, non si
formava, mi è parso giusto evitare polemiche in astratto (mentre alcune
concrete le ho condotte lealmente e ce ne sono tracce sul blog) e lavorare ad
un di fluidificazione dei livelli di
sapere e di potere purtroppo
cristallizzatisi negli ultimi tempi ai danni dei poeti-massa.
9. È rimasto poi irrisolto un problema
d’immagine del Laboratorio. L’idea di un
Laboratorio gratuito, aperto a tutti/e, senza filtri selettivi a priori, come quelli adottati dalle
scuole di scrittura o di poesia a pagamento e dalle comunicazioni professorali, è purtroppo apparsa come un
frutto fuori stagione, roba da
sorpassati. (Qualcuno mi ha fatto intendere che perdevo il mio tempo a gestire
una sorta di “Caritas dei poeti”, dilettanti, principianti o della domenica). Eppure il fatto che negli incontri alla
Palazzina Liberty o nella mailing list si siano affacciati - a volte
timidamente, a volte rumorosamente - sia il professore universitario che
l’impiegato, che il precario o la casalinga autodidatta, era un’occasione, se
il Laboratorio ci fosse stato o altri
avessero svolto con me quella funzione fluidificante tra
gli opposti snobismi, per imboccare una via ardua, ma capace di offrire spunti per capire meglio cosa possa
significare essere moltiinpoesia,
cosa potrebbe dire in positivo essere poeti-massa.
12.
Il punto di dissidio più forte ha
però riguardato proprio il ruolo della critica. Qui (sempre dal mio punto di
vista) una serie di dilemmi. I poeti/aspiranti poeti che approdavano al
«Laboratorio Moltinpoesia di Milano» o s’iscrivevano alla mailing list erano o
no rappresentativi dell’ipotetico soggetto moltinpoesia?
Arrivavano al Laboratorio attirati dal nome «Moltinpoesia», intuendo grosso
modo il discorso che tentavo di fare o
ci giungevano per sbaglio, solo per
uscire dalla solitudine o per tanti altri motivi, tanto che per loro un
qualsiasi altro circolo poetico sarebbe andato bene? E il nome moltinpoesia non alimentava forse un equivoco:
che ogni testo andasse bene e dovesse
essere solo applaudito? Se passava il principio che ogni testo scritto o letto è comunque poesia perché chi lo propone lo
vive come poesia, lo crede poesia, qualsiasi critica o la figura del
critico o del lettore-critico dovevano semplicemente scomparire. Anzi in base a
questa logica, che scova poesia
dappertutto e elimina ogni distinzione o confine, tutto diventerebbe poesia. E più che un Laboratorio sarebbe stato
meglio costruire un Registro, un Catalogo, un Dizionario. E da diligenti
scienziati positivisti o sociologi catalogare i testi (in teoria tutti i testi,
orali o scritti); e magari anche le espressioni delle rudimentali poetiche e
visioni del mondo degli «scriventi versi». Così
come erano. Estremizzo, ma si
profilava l’incubo di gestire un perenne microfono
aperto, o di stilare un catalogo neutro e acritico di tutte le voci percepibili. O si doveva, ottimisticamente, considerare tutte
quelle voci come frammenti di un discorso
dei molti che, prima o poi, si sarebbe costruito da solo, progressivamente e
spontaneamente?
13. Mi è parso politicamente ed
eticamente sbagliato alimentare un ginepraio di equivoci e di false attese; e
coprire un fenomeno estetico-sociologico
ambivalente e lutulento con una sigla in cui il molti diventava tutti. Non mi sono tuttavia mai convinto che al
fenomeno dei poeti-massa si possa/si debba rispondere, come dice Linguaglossa,
“alzando l’asticella” (di quanto poi?) o usando forme di respingimento indirette e mascherate. Ad esempio,
proponendo di discutere e commentare soltanto testi di poeti
“classici” o “riconosciuti” o di trattare soltanto problemi “generali”, tornando di fatto alla formula della “scuola di poesia” e ristabilendo un
chiaro rapporto tra maestri e discenti. Oppure selezionando in anticipo
il pubblico con cui dialogare ricorrendo
al filtro del denaro (corsi a pagamento, ecc.).
14. Per
non rimanere schiacciati tra due
spinte inconciliabili (quelle degli
«scriventi versi» che si presumono senza
alcuna verifica poeti; quelle delle élite che adottano canoni più o meno
restrittivi e spesso non dichiarati), bisogna riconoscere in via ipotetica l’esistenza di buone ragioni (da verificare!) in entrambi
questi “partiti” contrapposti. (Chi, senza verifica, può escludere che dei
“principianti” siano o diventino poeti? O che dei poeti “coronati” siano delle
patacche?). L’unica faticosa strada da imboccare era/è quella della mediazione,
della critica dialogante, del fare
laboratorio critico reciproco sia inter nos che extra
nos, quindi anche nei confronti dei principianti o dei
“dannati della poesia”. (Non mi sono mai rifiutato - per principio o accampando
scuse false (ovviamente ci sono limiti fisici…) - di leggere qualsiasi testo propostomi
come poesia e di dare un parere-giudizio sintetico). Resto convinto che si
debbano contrastare sia i ghetti degli esclusi che si sentono “incompresi” sia i
circoli riservati che si sentono “eletti”. Non si può mettere alla porta il
fenomeno degli «scriventi versi». O abbandonarsi alla tentazione autoritaria di
bloccarlo, suggerendo che si trasformino in “leggenti versi” degli autori per
noi validi. Insomma, non si può rispondere a questo problema come Maria
Antonietta, invitando a dare brioches al popolo affamato. All’inizio
dell’esperienza del Laboratorio e in particolare nel 2010, con il lavoro del Gruppo Critici, costituitosi al suo interno,
era parso che ci si avviasse in questa
direzione, puntando appunto a una reciprocità
del lavoro critico sui testi (nostri e d’altri) e a una discussione franca,
che evidenziasse i dislivelli di qualità dei testi invece di nasconderli o di
liquidarli come spazzatura. Poi, come ho detto, la dialettica si è bloccata. Non credo perciò che ci sia stata troppa
critica nel «Laboratorio Moltinpoesia di
Milano». Semmai poca. E a volte cattiva
critica (sleale, non argomentata e fastidiosamente personalizzata). Poi se qualcuno ha confuso la critica col litigio e
si e si è chiuso in un diplomatico silenzio, dovrebbe chiedersi lui quanto il suo
atteggiamento sia stato costruttivo. Ipotizzando che l’intolleranza alla
critica in poesia venga da posizioni più moderate e concilianti e di segno
etico-politico diverse o opposte alle
mie, ho scelto, con le dimissioni, la via del chiarimento. Così ciascuno può ridefinire
le proprie esigenze, riconoscere i suoi,
evitare di ridurre chi fa critica a un
fantasma repressore e dimostrare nei fatti cosa sa fare e vuol fare. Questa la
mia visione della vicenda.
18 febbraio 2013
APPENDICE 1.
I MOLTI NELLA POESIA D’OGGI
Il senso di questa
serata è sintetizzato nel titolo e sottotitolo dell’iniziativa: I molti nella poesia d’oggi. Microfono
aperto. Letture in vista di un laboratorio.
Il titolo allude a due
campi da esplorare:
- quello dei testi in
cui sia individuabile una presenza significativa (implicita o esplicita) dei
molti (in altri termini del sociale, delle classi, della gente), circoscrivendo
l’indagine alla poesia contemporanea ma senza escludere incursioni attualizzanti nei secoli trascorsi e
fino alle origini della poesia italiana: basti pensare ai molti nella Commedia di Dante…);
- quello dei soggetti scriventi poesia o similpoesia (questo è
punto cruciale e controverso), che si sono moltiplicati e rappresentano un
fenomeno oggi più che in passato notevole, ma le cui implicazioni
estetico-politiche - secondo me potenzialmente positive - resteranno confuse se
si continuerà a vederlo riduttivamente come mero epigonismo, futile moda o
normale escrescenza letteraria.
Il sottotitolo propone un metodo: l’ascolto della varietà di voci anche dissonanti – più
esattamente di segmenti di questa nebulosa di scriventi - che senza forzature e
settarismi possano liberamente confluire
in un laboratorio, dove avviare confronti paritari, inchieste puntuali e
riflessioni critiche coraggiose anche sullo stato attuale della poesia italiana
contemporanea.
Chi vi parla, e fa tale
proposta di lavoro, negli ultimi anni ha sondato su tale materia le opinioni di
alcuni poeti e critici, condotto con scarsi mezzi e in compagnia di amici trascinati un po’ per i
capelli una piccola inchiesta e
sviluppato un inizio di riflessione teorica poggiandosi su concetti filosofici
(moltitudine, esodo) e socio-politici (lavoro immateriale, postfordismo) per dare respiro problematico e non
corporativo al discorso che andava costruendo. Per onestà intellettuale preciso
che diversi miei interlocutori si sono
mostrati in vari modi scettici sul rilievo non tanto sociologico ma
estetico-politico che io tendo ad attribuire in prospettiva al fenomeno dei
tanti che scrivono versi.
Tuttavia il discorso
comincia a circolare e qui, nella Casa della poesia della Palazzina Liberty, è
stato organizzato nel marzo scorso un primo incontro con
letture di poesie e testi di
critica, che viene ripreso e approfondito questa sera.
Senza ombra di
cortigianeria ringrazio di ciò G. Majorino
per l’avallo cauto, intelligente
ma soprattutto non esteriore che mi ha dato. Chi frequenta, infatti, la sua poesia sa che
essa ha incorporato (termine ricorrente nel suo lavoro critico) i molti (la realtà dei molti); come sa quanta attenzione egli
abbia prestato ai complicati e ambigui
aspetti dell’«epoca del gremito» tra cui quello dei «tanti che scrivono
versi». Questo non vuol dire che ci sia coincidenza di vedute tra noi: ad es. i suoi
accenni a quel centinaio di «poeti veri, capaci di stile» (p.48) restati fuori
dalla sua ultima edizione di Poesia e
realtà non è detto che alludessero
alla «nebulosa o moltitudine poetante»
di cui mi sono azzardato a parlare io.
Importa però che il tema dei
molti in poesia si presti a confronti senza preclusioni e a insistenti interrogazioni.
E alcuni interrogativi
divenuti ormai “miei/suoi” richiamerò
stasera, spostandomi un attimo in zona poetica (o similpoetica?) e leggendovi
questo frammento in versi a cui sto lavorando e che proprio a lui e al tema in questione si
rivolge:
Quali colombe dal disio chiamate…?
No, come gocce d’ignote
bufere
alle vetrate della Casa
della Poesia
Giancarlo, premono molti
scriventi.
Chi sono? Quanti? Perché
così scrivono?
A che mirano? Curarsi
di loro
o il brusio di pubblico
dal palco reggere
modulandone ossequi e
domande?
E chi sono per noi che su
riviste
di poesia pubblichiamo i
versi
che ci piacciono?
Fratelli? Concorrenti?
Compagni di strada?
Pedine da manovra?
Possiamo aprirci benevoli
ad essi
reggere invidia, angosce, deliri
non sfuggirli, non
costruire valli
interiori? E mostrare
anche l’errore
dell’energia spostata dal
reale
dal vero alienata? E
parlare a lungo
con loro, seguirne lo
sciamare
nella notte e poi
riprendere a scrivere?
Ma torniamo all’ipotesi
di laboratorio. Come dovrà chiamarsi, che
attività svolgere, che temi affrontare e quali condizioni porre ai
partecipanti? Sono tutte questioni
aperte. Per conto mio, esso dovrebbe ospitare quanti potranno o vorranno dire
la loro sul tema dei molti in poesia, che siano tiepidi, scettici o persino
ostili e mossi da tutt’altro orientamento.
Il laboratorio dovrebbe servire a porre i
problemi giusti, a raccogliere le spinte
fondate su intelligenza, attitudine al
confronto con la realtà, passioni vere. Dovrebbe far discutere assieme e
schiettamente i poeti laureati con i poeti in attesa di laurea o con quelli a
cui le lauree importano poco. Mi aspetto solo che i molti (un centinaio come
dice Giancarlo o tanti di più?) escano
così da un anonimato generico, che si diradi la loro nebulosa e che si mostri -
spero - come un aggregato di singolarità
vere.
Più in dettaglio cosa dovrebbe fare questo
laboratorio? Alcune proposte erano già
state presentate nell’iniziativa del
marzo scorso: - preparare un questionario da rivolgere agli scriventi versi (quelli che pubblicano di
solito su riviste cartacee o ora on line
o presso piccole case editrici); -
organizzare occasioni di confronto tra
loro e critici o poeti-critici, magari su un testo o una raccolta di versi
o un saggio. Altre idee potranno venire fuori mano mano. Penso pure che i
momenti di confronto andrebbero organizzati in forma di agili seminari e che
sia prevista la presentazione pubblica
dei risultati. Ma di questo si parlerà se e quando il laboratorio s’avvierà.
Termino con un indovinello. Di chi parla
Vladimir Holan in questa poesia che ho scovato quasi per caso nelle ultime
settimane?
Dissi:”No, non chiamatela
Col nome di battesimo!”
E lui: “Ma è proprio quello che le piace!”
Dissi: “No, alla sua porta non bussate,
non è in casa forse, e io ne avrei paura!”
E lui: “Macché, quella
È sempre dappertutto!”
Dissi: “Forse non si è ancora
Decisa!”
E lui: “Possibile che abbia una misura
Lei che è senza confini?”
(Vladimir Holan, Il poeta murato)
Ennio Abate 9 nov. 2006 Casa della Poesia
Palazzina Liberty, Milano
APPENDICE 2.
Per avere un’idea delle
attività svolte dal Laboratorio dal 2006 al 2011 può servire la lettura di
questo Rendiconto consegnato a G. Majorino nel settembre 2011:
RENDICONTO
DEL LABORATORIO MOLTINPOESIA
«Questa nostra dottrina sarà forse accolta
con un sorriso da coloro che, riservando alla massa del popolo i vizi propri di
tutti i mortali, dicono che il volgo è in tutto sregolato, che fa paura se non
ha paura, che la plebe o serve da schiava o domina da padrona, che non è fatta
per la verità, che non ha giudizio, ecc. Invece la natura è una sola ed è
comune a tutti… è identica in tutti: tutti insuperbiscono del dominio; tutti
fanno paura se non hanno paura, e ovunque la verità è più o meno calpestata dai
cattivi o dagli ignavi, specie là dove il potere è nelle mani di uno o di pochi
che nell’istruire i giudizi non hanno di mira la giustizia o la verità, ma la
consistenza dei patrimoni
Baruch Spinoza, Trattato politico
Il Laboratorio Moltinpoesia ha iniziato le sue attività nel 2006. Il suo
scopo - rispondere alla crisi della
poesia mobilitando le energie dei tanti che
oggi scrivono o s’interessano di poesia con molta passione e poco o dubbio
studio - fu chiarito nel primo comunicato stampa del 12 marzo 2006.[1]
Da allora è diventato un
luogo - aperto a tutti: dalla casalinga al docente universitario - di incontro
e di discussione, mirando ad affrontare criticamente alcune questioni al centro
della riflessione dei poeti e dei (pochi) critici che oggi ancora s’occupano di
poesia contemporanea e incoraggiando al meglio una “critica dialogante” tra partecipanti eterogenei per età,
acculturazione e ideologia, portati
spesso ad oscillare tra opposti snobismi: elitari o populistici.
Gli
incontri - seguiti stabilmente da un nucleo di una quindicina di persone fino a
un massimo di 50-60 in particolari occasioni - sono avvenuti, con frequenza quasi mensile, dal settembre al giugno di ogni anno presso la Palazzina Liberty di Milano. Non è mancata
qualche uscita presso altri circoli culturali operanti a Milano e nei dintorni
per provare a sviluppare una dimensione “itinerante” del Laboratorio
stesso.
In
questi quattro anni sono state svolte le seguenti attività:
- partecipazione
e/o gestione di alcuni “microfoni aperti” proposti dalla Casa della Poesia;
- elaborazione di un questionario rivolto
a redattori di riviste di poesia (cartacee e on line) o a cenacoli e
associazioni culturali operanti nell’area di Milano e dintorni;[2]
-
presentazione e discussione di raccolte poetiche[3]
dei partecipanti al Laboratorio da parte di altri in vesti di “lettori-critici”;
- discussioni su autori di riferimento
introdotti da singoli partecipanti al Laboratorio;[4]
- discussioni
(sempre introdotte da singoli partecipanti al Laboratorio) su vari temi con
particolare attenzione al fenomeno ambivalente della “scrittura di massa” di
poesia.[5]
Tra gli incontri
più seguiti e significativi quelli con:
- G. Majorino sul Viaggio
nella presenza del tempo (dicembre 2007);
- G. Neri su Teatro naturale e teatro storico (marzo 2008);
- Eugenio Grandinetti su Catullo e la poesia degli antichi (marzo
2009);
- Enzo Giarmoleo su Ferlinghetti;
- Leonardo Terzo e Simona Viciani su Bukowski;
- Loredana Magazzeni, curatrice dell’antologia «Corporea» di poesia femminile;
- l’attore Oliviero Corbetta
che ha recitato testi di F. Fortini in una “prova di spettacolo”
intitolato PER UN BUON USO DELLE ROVINE.STORIA D’ITALIA TRA POESIE E PROSE
(febbraio 2010).
Il
Laboratorio ha anche:
- sviluppato alcuni
significativi esperimenti per produrre insieme un testo poetico a partire da un
tema;[6]
- costituito al suo interno
un “Gruppo Critici”;[7]
- stampato e pubblicato (a
sue spese) un FOGLIETTONE MOLTINPOESIA;[8]
-
costruito a partire dal maggio 2009 un
suo blog (http://moltinpoesia.blogspot.com/)
che ha pubblicato finora 341 post e, al 19 settembre 2011, ha ottenuto 35.634
visualizzazioni.
È in cantiere la compilazione di un Dizionarietto dei moltinpoesia, che
dovrebbe documentare in modo ragionato la
produzione di testi e il lavoro critico svolto in questi anni.
I
contatti tra i partecipanti al Laboratorio sono stati tenuti dal coordinatore, che ha
preparato i calendari annuali delle
attività, redatto per ogni incontro un dettagliato resoconto scritto e guidato
un vivace scambio di messaggi per posta elettronica.
Il coordinatore
del Laboratorio Moltinpoesia
Ennio Abate
19 settembre 2011
[1] Comunicato stampa
Sono in tanti oggi a scrivere, per lo più poesia: in
disparte, senza alcun mandato, isolati o in piccoli cenacoli. E poco si sa di
questa “nebulosa” o “moltitudine poetante”.
Si tratta dell’eterno ritorno degli epigoni? di un confuso Quarto Stato scrivente che preme e
asfissia gli scrittori e i poeti veri?
Le etichette di comodo (sottobosco, sommerso, poeti
part-time o della domenica, dilettanti) non mancano. E periodicamente
crestomazie, distinguo fra maggiori e
minori, rispolverature di canoni
finiscono per sbarrare ogni riflessione, discussione o seria inchiesta su tale
fenomeno estetico-sociale.
Eppure esso, malgrado limiti, ambiguità e rischi di derive
privatistiche, non solo è sintomo
interessante della crisi della poesia e di una sua vitalità extra-moenia, ma fermento di pratiche
estetiche più legate alle forme di lavoro e di vita dei molti.
[2] Questi
i gruppi con cui si era previsto di
stabilire dei contatti:
1. Gruppo “Logoi” di Nicoletta Czikk (Mi);
2. Gruppo Pezzaglia di Monza;
3. Arti mobili di Lucio Maj Tosi (Mi);
4. Il Segnale di Lelio Scanavini (Mi);
5. La Mosca di Milano (Mi);
6. Il Monte Analogo ( Mi);
7. Milanocosa (Mi);
8. Poeti dell’Ariete (Mi);
9. Il Verri (Mi);
10. Cenacolo di S. Eustorgio
(Mi);
11. Il Foglio clandestino di Gilberto Gavioli ( Sesto S. Giovanni);
12. Poesia di Crocetti (Mi),
13. Casa della poesia del Trotter (Mi);
14. Sinonimi e contrari (Mi);
15. Il caffè letterario di Renato Fondi ( Mi);
16. Il salotto Caracci (Mi);
17. Il salotto Siniscalchi (Mi),
18. Il salotto D’Isa (Mi);
19. Kamen di Anelli (Codogno);
20. Premio Marina Incerti ( Milano)
[3] Tabella
degli autori esaminati:
Autore
|
Titolo raccolta
|
Lettore-critico
|
Donato Salzarulo
|
L’ultima neve
|
Provenzale, Colnaghi
|
Luisa Colnaghi
|
Gufi e civette
|
Mannacio, Salzarulo, Braccini
|
Raffaele D’Isa
|
Ali di grafite
|
Braccini, Abate
|
Giuseppe Provenzale
|
TARME :NV:S:B:L:
|
Salzarulo
|
Ennio Abate
|
Salernitudine
|
Provenzale, Verri, Braccini
|
Eugenio Grandinetti
|
Inquietudini
|
De Simone Barbara
|
Marilena Verri
|
Spruzzi di materia grigia
|
Monti
|
Maria Maddalena Monti
|
Voci e passi
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Abate
|
Tina Campesi
|
[poesie]
|
Abate
|
De Benedetti
|
Schegge carsiche
|
Mannacio, Monti
|
Gabriele Pieroni
|
Polveri intelligenti
|
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Marina Massenz
|
La ballata delle parole vane
|
Abate
|
Giorgio Mannacio
|
Visita agli antenati
|
Abate
|
Fabiano Braccini
|
Poesie da ''Un'emozione, un soffio, ...un niente''
|
|
Barbara De Simone
|
Una dei molti
|
Salzarulo ,Verri
|
Flavio Villani
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Gli assedi del nulla
|
Abate, D’Isa
|
[4] Sulla poesia
di Alda Merini e sul “fenomeno Merini” (Roghi e Tomasi);
Su Lucrezio (Grandinetti); Su Galeazzo di Tarsia (Grandinetti); Su Szymborska (Colnaghi);
Su Fortini-Milano/ Pasolini-Roma (Abate); Su Zanzotto (Salzarulo).
Su Lucrezio (Grandinetti); Su Galeazzo di Tarsia (Grandinetti); Su Szymborska (Colnaghi);
Su Fortini-Milano/ Pasolini-Roma (Abate); Su Zanzotto (Salzarulo).
[5] Temi
trattati nelle discussioni o per posta elettronica:
1. Sulle
letture pubbliche di poesia (e sul pubblico della poesia oggi);
2. Sul rapporto tra esordienti (o scriventi) e
poeti noti;
3.
Pubblicazione e piccoli editori;
4.
Poetiche implicite o esplicite nella scrittura poetica di massa;
6. Sui
siti di poesia in Internet;
7.
Esiste la poesia al femminile?;
8.
“Poesia civile” e poesia “politica”;
9. A
cosa serve scrivere poesia oggi?;
10) Il
poeta e gli altri (scienziati, politici, religiosi, gente comune);
11. La
poesia nelle riviste italiane.
12. Sugli
autori di riferimento dei partecipanti al laboratorio.;
13.Sui difficili rapporti tra poesia e critica.
nella società delle comunicazioni di massa
14. Esplorazioni/traduzioni
(riflessioni sul lavoro di traduzione da poeti stranieri;
15. Cos’è il poetry slam.
[6] I temi
suggeriti sono stati i seguenti: MEMORIA,
AMORE,CHIAVE, VIAGGIO, STORIA,POESIA,LONTANANZA, TEMPO, DISTANZE, NOSTALGIA,
FIORI, INFANZIA.
[7] Il “Gruppo Critici”, composto da
Marcella Corsi e Salvatore Dell’Aquila di Roma, Mario Mastrangelo di Salerno,
Luca Chiarei e Lucio Mayoor Tosi di Milano, ha esaminato alcune raccolte proposte in forma anonima da altri
partecipanti al Laboratorio, commentandole e giudicandole. Un incontro finale
del Laboratorio ha discusso i risultati.
[8] Ne sono usciti finora 4 numeri. Il
foglio è composto di 4 paginette contenenti testi poetici,
brevi notizie sul Laboratorio MOLTINPOESIA, noterelle critiche e qualche
immagine in b/n.
29 commenti:
caro Ennio Abate,
credo che l'esaurimeno dell'esperienza del Laboratorio della poesia era scritto nel destino della sua stessa nascita; come ha detto Umberto Eco, oggi non ci sono più le condizioni per una esperienza di Gruppo, ciascuno pensa di fare tutto «in proprio» tramite l'appartenenza e l'affiliazione a Gruppi di potere e a Istituzioni; ciascuno pensa di scavalcare gli altri (concorrenti) tramite conoscenze ed appoggi. Detto questo, ritengo che il fallimento del Laboratorio sia un fatto positivo: bisogna però prendere atto delle cause che hanno condotto al fallimento di una esperienza. E anche la incomunicabilità tra aspiranti poeti e critici è un sintomo di quel degrado generale del comparto poesia, e intendo anche quella che tu chiami "ufficiale", che ufficiale non è affatto, ma che si aggiudica la patente di nobiltà auto leggittimandosi "ufficiale".
Come sai, ho scritto qualche giorno addietro a molti editori di operare un «filtro» alle loro spedizioni di libri di poesia a me diretti, in specie se provenienti da «dilettanti». Qualcuno mi ha indicato come arrogante, qualche altro è caduto dal cielo, qualche altro ancora mi ha detto che la sua casa editrice non pubblica «dilettanti» ma solo dei bravi poeti. Ora, lo capisco, in questa confusione babelica c'è anche l'interesse degli uffici stampa degli editori di mediobassa qualità a difendere gli autori pubblicati dando loro la patente di «bravi poeti», con il che siamo arrivati alla conclusione di una «alleanza» tra la moltitudine poetante e la moltitudine editante contro la «critica» che non spalanca loro ponti d'oro e viali d'argento.
Di contro, la poesia "ufficiale" non adotta certo un diverso comportamento: autori come Valerio Magrelli, Franco Buffoni, Frabotta e altri espungono dalla loro bibliografia le recensioni non favorevoli, le nascondono, le cestinano, lasciano in evidenza soltanto le recensioni amicali o le piaggerie di corte. Ormai si è stabilita la legislatura dei poeti di corte e dei critici di corte; chi non si adegua viene semplicemente espunto, semplicemente non esiste nell'"ufficialità". È davvero un fatto aberrante: che un deterioramento simile sia avvenuto è indice di un degrado sociale diffuso che non ha colpito solo il comparto poesia ma è indice di una profonda infiltrazione di conformismo e di omologismo che si è diffusa a macchia d'olio nella nostra società.
Caro Ennio,
la tua decisione di sciogliere il gruppo dei Moltinpoesia è giunta come fulmine a ciel sereno, e forse sarebbe stato meglio parlarne insieme, mettendo la questione in agenda invece di cedere così, d'un tratto. Io come forse pochi altri abbiamo partecipato nella misura che sentivamo per noi possibile. Poco, lo ammetto, ma so che non tutti si sentivano in conflitto con le modalità della ricerca che tu avevi avviato, anzi la riconoscenza verso il tuo operato è stata riconosciuta da tutti, anche perché non pochi, e mi metto tra questi, hanno constatato che la loro scrittura è andata migliorando nel tempo. Forse non era questo il tuo obiettivo primario, o non solo questo, forse stavi applicando le procedure tipiche delle avanguardie attive fuori dai cancelli del '68 senza tener conto del clima mutato in questi ultimi decenni. Le parole che riporti di Eco sono chiare in proposito. Se guardiamo alle cose con questa prospettiva allora dovremmo riconoscere che il fallimento sta, più che nelle procedure, nei tuoi intendimenti di voler promuovere un attivismo divenuto astorico dove si cerca di evitare l'aggregazione populista per promuovere una neo-militanza culturale, magari ancor tutta da scoprire e conoscere. Viste così le cose, per come sono andate, era una scommessa che poteva anche non riuscire. Se nei molti fossero confluite le decine di giovani che scrivono e leggono pubblicamente ancora oggi in tanti centri sociali, o che so alcuni artisti che gravitano nell'area di Macao, forse sarebbe stato diverso. Ma con quello che si scrive, e per come si scrive, anche alla casa della Poesia, credo che molto difficilmente si sarebbe potuto instaurare un dialogo con quel tipo di realtà viva ed emarginata (o che si auto emargina, e ci tiene).
(continua)
Quindi è una questione di componenti sociali, di valutazioni sulla nebulosa degli scriventi versi che deve contentarsi di stare nei margini di quel pubblico della poesia che agonizza da parecchio tempo, che non è fatto di casalinghe, professionisti o gente qualunque, ma da poeti o se dicenti tali. Persone cioè che, per età e posizione sociale, non sono nella condizione di voler "mordere la realtà" se non per grazia della poesia stessa. A me sembra che l'area dell'aggregato Moltinpoesia sia questa, anche se so quanto avresti voluto aprire le porte (tipo l'inchiesta sulle diverse realtà culturali da intervistare e contattare). Ma non è andata, anche perché di uscite verso la città (e non verso la casa della poesia) non ne sono state fatte, con la sola eccezione del Fogliettone che a ben vedere e malgrado gli sforzi altro non era che un foglio per gentili scolaresche, non quello che ti aspetteresti da una moltitudine di persone che hanno da dire la loro con coraggio e inventiva, e magari con quel tanto di provocazione che aggrega da sempre le avanguardie artistiche, dal futurismo al gruppo 63.
Per esperienza so che un gruppo è fatto da tre/quattro persone può approfondire meglio sia la conoscenza reciproca che l'accordo sulle poetiche, ma in trenta o quaranta si avrebbe anche la forza di uscire allo scoperto, non certo per fare rivoluzione, ma per aggregare con la poesia ponendo domande ed emozioni, sì.
Ora non so, immagino anche chi voglia scrivere facendo ancora il verso al novecento, dopo il salutare lavoro svolto dalla critica, da te e dagli altri critici, credo che qualche pensiero se lo sarà fatto. Il rapporto tra esordienti e poeti noti porta gli uni nella direzione degli altri, e forse sarebbe meglio volgere lo sguardo da altre parti. L'università, pur ignorandoti, ti tiene d'occhio comunque.
mayoor
Ciao Ennio,
ogni esperienza conclusa può ricominciare a riprendere vita in un altro quando/dove/con chi. Bene fai ad analizzare chirurgicamente il corpo del fallimento. Ma bene dice chi afferma che la fine è insita nell'esperienza.
Senza malinconie, e se l'esperienza di gruppo la si crede ancora necessaria, occorre ripensare e ricominciare. Perfetta la fotografia che ne fate nei precedenti post. Ma se la situazione è pessima, e non si può neanche dire che sia favorevole, allora è necessario continuare ad agire. Anche se a sentire la necessità di FAREGRUPPO fossero in 3-4, è bene che questi trovino le modalità consone ad agire insieme.
La stessa malattia indivialesibizionistica la si rileva in qualsiasi ambito, è generalizzata nel sociale, nel politico, nell'artistico. Ma niente paura! Che sia un mondo di stronzi non ce lo deve dire Eco...
Anche Farepoesia (nel suo microcosmo) si è arenato sostanzialmente per le stesse motivazioni individual-protagonistiche e per lo scarso spirito collettivo e di reale condivisione. Ma appunto si continua lo stesso, magari si attende la giornata buona per ricominciare...
C'è assoluto bisogno di attività di gruppo, di equipe, di attività collettiva. Gruppi disposti a sviluppare un lavoro settimanale, dal vivo, e in parte sui social network, in cui ci si metta però in discussione in tutto e per tutto, con l'obiettivo di produrre lavori più efficaci e incisivi. Io personalmente ci starei volentieri! Saluti
Caro Ennio, non saprei dire quanto sia giusto chiudere un'esperienza come Moltinpoesia, ne hai presentato i sintomi, le terapie tentate per salvare la paziente idea dei molti, fino poi a rassegnarsi che non c'era o non c'è più niente da fare... per un'idea che ha stentato a nascere. Però c'era quell'idea come a me sembra che c'è ancora. Mi auguro e auguro a tutti noi di non cadere nell'oblio.
Riporto di seguito un commento che solo per motivi di tempo non mi è stato possibile inserire ieri sera sul post precedente, perché mi sembra pertinente per quanto è in corso d'opera:
Prima di arrivare a comprendere dell’esistenza del gruppo ho sempre visto questo blog come un luogo o un mezzo in cui o attraverso il quale fosse possibile il confronto su una materia di difficile definizione come la poesia.
Una volta appreso del gruppo , con la sua crisi, espongo ora una mia riflessione:
Se il gruppo, o l’idea che di esso ne avevate, non è riuscito a elaborare un ragionamento che validasse la ragione stessa del suo essere gruppo, se cioè non ha saputo veicolare il pensiero oltre il comune sentire, per il fatto stesso che questo blog sopravvive probabilmente allora lo stesso gruppo non può dirsi ‘fallito’.
Così come non vedrei quell’inabissamento - per usare l’immagine datane da Emilia Banfi - di tutto quanto (gruppo e blog), se ancora c’è coesione tra i componenti, come sembra, almeno stando all’intervento di Mayoor e quello di Ennio.
Non condivido la visione che sembra emergere da vari commenti, di una sorta di lunga marcia avviata da Ennio e che avrebbe condotto o che condurrebbe le opinioni verso una direzione studiata, a sé congeniale. Personalmente non vedo in Ennio l’intento ‘monomaniacale’ di condurre degli ignari verso il ‘suo’ ragionamento. Vuoi perché di gente ignara non è questo il caso, vuoi perché non è certo con l’argomentazione delle proprie opinioni che si può imputare questo a Ennio, come non lo si può biasimare per il suo animato confrontarsi sui pareri altrui.
L’impressione ricevuta dagli interventi di Ennio è anzi quella di portare nella direzione di capire se la poesia risponde e se corrisponde al cosa e a quanto si vorrebbe dire scrivendo poesia; o se, al contrario, facendo poesia non facciamo che una semplice operazione di chirurgia plastica lasciando trasparire solo la superficie di ciò che invece vorremmo dire. Anche le impennate critiche di Linguaglossa le leggo allo stesso modo.
Per questo ritengo validissimo il suggerimento di Mayoor (del quale apprezzo l’umiltà), di partire dai testi, e di lavorare sui testi, sarebbe quantomeno da prendere in considerazione per capire come fare d’ora in poi.
Partendo da qui mi auguro anch’io che si possa uscire da un vicolo che non si sa bene dove conduce.
Giuseppina Di Leo
A Giorgio Linguaglossa:
No, come ho detto, non credo nel destino e neppure che Eco abbia del tutto ragione (ho solo riconosciuto che la sua diagnosi colpiva nel segno, m’imponeva un ripensamento).
Il Laboratorio per come l’avevo proposto non era un progetto irrealistico, rispondeva comunque ad esigenze reali (perché, se no, anche i poeti individualisti e/o “arrivisti” ci hanno messo piede in qualche modo?), le può sotto altra forma raccogliere ancora adesso se molti di quanti vi hanno finora partecipato stanno decidendo di continuare. Il punto dolente, per me, è stato che - diciamo così - queste esigenze non si è riusciti a cucinarle a puntino, a sgrossarle, a farle funzionare per *fare laboratorio* appunto.
Ho parlato, è vero, di fallimento del progetto “mio” proprio perché è rimasto in fondo “il progetto di Ennio”), ma non capisco perché il fallimento «sia un fatto positivo», come tu affermi. A meno di non pensare che non avesse né capo e né coda e ben gli sta.
Anche le cause di esso mi pare di averle indicate con una certa precisione, evitando di stare sul generico/generale ( la crisi, la condizione postmoderna, ecc.).
Quanto al tuo atteggiamento di critico verso i «dilettanti» e alla sicurezza con cui tu sembri poter individuare i «bravi poeti», ti ho già fatto presente le mie riserve. Nella logica con cui mi sono mosso io nel *fare laboratorio* ho voluto proprio evitare di stabilire quel netto e ultimativo confine tra dilettanti e bravi, che tu sembri fissare; e, semmai, rendere fluidi i rapporti di scambio e di critica tra le due (generiche) categorie.
Altrettanto generica (e rischiosa) - l’ho detto anche in altre occasioni – trovo la categorie della “poesia ufficiale”. Fare di tutt’erba un fascio anche di essa non mi va. Parliamo dei singoli, esaminiamo la loro produzione e loro comportamenti, mettiamo in discussione le “cordate”, le “mafie”, ma documentando e provando ogni singola nostra affermazione.
[continua]
(continua):
A Mayoor:
Precisiamo: non ho deciso di «sciogliere il gruppo Moltinpoesia». Mi sono ritirato, mi sono dimesso da coordinatore, ho persino proposto io a quanti volevano continuare le date degli incontri che la Segreteria della Casa della Poesia nel frattempo mi aveva comunicato, non sapendo che avevo scelto di dimettermi.
Non è nemmeno il caso di parlare di «fulmine a ciel sereno»:tu sai bene che la discussione soprattutto nella mailing list s'era bloccata nelle varie posizioni che ho indicato. E non è neppure esatto dire che il progetto del Laboratorio era sul modello delle « avanguardie attive fuori dai cancelli del '68».
Qui non ci si intende. Nel post sul Gruppo ’63 ho chiarito quanto fosse differente il clima e la rete di rapporti in cui agiva quel Gruppo e le caratteristiche diverse, anche sociologiche, dei *moltinpoesia* o *poeti-massa* d'oggi. (Differenze che mi hanno suggerito quel tipo di atteggiamento che ho detto verso la Casa della Poesia di Milano e il suo Direttivo).
C’era uno scarto tra il modo come io pensavo dovesse funzionare il Laboratorio e quello che volevano fare gli altri?
È proprio quanto ho scritto. Basta rileggere attentamente il punto in cui parlo, dimostratosi vano l' *et et*, di aut aut tra *fare laboratorio* e fare gruppo o salotto (e ho precisato pure che non ce l’ho contro i gruppi che raccolgono la “passione per la poesia” così come viene, rifiutandosi di delineare un progetto…).
Se uno tira la fune verso il progetto e altri verso il salotto, le due cose alla lunga ( sono passati 6 anni dall'inzio del 2006) non sono conciliabili.
C’era bisogno di un chiarimento. Ed è questo che sta avvenendo.
Per ultimo non ho mai proposto l’attivismo, la «neo-militanza», ma *fare laboratorio* in modo serio e verificabile.
A Tito Truglia:
Certo ogni esperienza ( la nostra stessa vita…) ha un termine. E si ricomincia( in parte continuando, in parte innovando) sempre. ( O ricominciano altri).
A Giuseppina Di Leo:
Come ho detto sopra a Mayoor, non ho né “sciolto” né “chiuso” l’esperienza dei *moltinpoesia*. E non c’è nessun «inabissamento». Dopo numerosi tentativi, ho visto irresolubile il blocco della dialettica interna al Laboratorio e, dimettendomi da coordinatore, mi sono assunto le mie responsabilità e messo gli altri di fronte alle loro. Io continuo questo blog, dal quale magari verrà fuori un *fare laboratorio* più preciso. Altri costruiranno un gruppo più adatto alle loro esigenze e con una dialettica diversa. Non è vero, dunque, che « non c'è più niente da fare». C’era da uscire da un equivoco. Se ne sta uscendo. C’è da fare cose per cui si è convinti di spendersi. Senza lasciarsi trainare; o ridursi a sgambettare chi vuol fare o a tacere (in eterno) senza far capire se si approva o disapprova quello di cui si discute. Senza trainare a forza passando per autoritario, estremista, litigioso, moralista, ecc.
[Fine]
Le cause che, a mio avviso, hanno determinato la fine del gruppo sono diverse, ma alcune sono più rilevanti:
1. I partecipanti erano motivati da interessi diversi e divergenti:
- alcuni per leggere i loro testi o mandarli nella mailing list ed avere delle
risposte o commenti da un palcoscenico prestigioso;
altri per emergere e farsi notare con i propri testi;
altri ancora per il piacere di incontrarsi e sentir parlare di poesia;
nessuno con un vero entusiasmo, nessuno per lavorare per il bene e l'evoluzione del laboratorio (escluso il coordinatore);
2. Molti partecipanti con carattere litigioso, con la voglia di affermare il proprio ego
pronti a scagliare invettive e offese via mailing list, molto spiacevole per chi doveva leggerli nei messaggi mail.
3. Alcuni pronti a criticare in modo negativo e cattivo il lavoro degli altri. (Vedi i commenti assurdi e le insinuazioni sul mio commento al poema di Majorino. E recentemente riguardo alla mia introduzione su Ezra Pound, hanno detto che “Ennio ha dato un grande aiuto”).
Per quanto riguarda il coordinamento devo sottolineare due punti:
1. La “critica” è stata affidata a inesperti o incapaci (solo due o tre non rientrano in questa categoria) che hanno sbagliato persino l'interpretazione dei testi. Non hanno fatto una critica costruttiva ma hanno toccato la sensibilità o l'amor proprio di alcuni autori. Infine tale critica pubblicata sulla mailing list allargata HA causato l'allontanamento di alcuni più risentiti.
2. Sulla poesia impegnata politica o civile, il gruppo era diviso: alcuni hanno scritto testi impegnati, per altri questo tema risultava difficile o impossibile. Anche per questa insistenza si è verificato scontento e una rottura.
Credo sia molto difficile organizzare/coordinare un gruppo di scrittori poetanti, pieni di ambizioni, vanità e con poca o niente umiltà. Molti dopo aver fatto leggere alcuni testi, ricevuto un pallido complimento o una falsa lode, si sentono e si atteggiano da poeti.
Questi sono i guai dei Molti...
Ho molto ammirato e apprezzato l’impegno di Ennio, la sua dedizione, il suo ideale di fare un laboratorio per tutti, senza alcuna esclusione, ma questo è forse la causa principale dell'impossibilità di coordinare e far funzionare un gruppo frequentato da persone che stanno su livelli molto diversi per cultura, interessi, ideologie, passioni e scopi.
Cara Luisa,
non mi sembra il caso di parlare di "inesperti e incapaci", sapevamo tutti che le critiche svolte dai partecipanti del gruppo avevano lo scopo di un'esercitazione. Non ci fu mai nulla di personale in quelle critiche, ne' poteva essere diversamente perché i testi erano anonimi, non firmati. Gli autori, invece di offendersi tanto avrebbero potuto controbattere spiegando, quindi partecipare al gioco, e sarebbe stato per tutti un utile esercizio. E' a causa di questi malumori che l'esperimento si fermò e non fu ripetuto.
Nessun poeta è esente da vanità, non è bello ma è comprensibile dal momento che per molti l'unica moneta di scambio è fatta di apprezzamenti e approvazione. Ma certo che val di più l'attenzione, e questa è sempre stata data sia da Ennio che da ciascun componente del gruppo. Ma non basta l'applicazione e la buona volontà, il lavoro "per il bene e l'evoluzione del laboratorio" , bisogna anche tener conto del fatto che l'azione della scrittura è solitaria e individuale. Sono del parere che un laboratorio di poesia debba puntare sul mettersi - individualmente - in gioco. Senza questa partecipazione il collettivo è solo una messinscena senza protagonisti.
Toh, è apparsa la mia foto nell'icona. Chissà che ho combinato ieri sera cercando di sistemare il mio account.
NON CI SONO Più I GRANDI SODALIZI
Non ci sono più i grandi sodalizi perché c’è Gruppo finché c’è una Tradizione cui bisogna opporsi. Le grandi amicizie intellettuali, le grandi avanguardie si sviluppano in base all’esigenza di contrastare il gusto tradizionale in arte e i comportamenti politici passatisti in politica, ma quando vengono meno queste due condizioni non c’è più bisogno né di una Avanguardia in arte (cioè di un’alternativa) né di una Rivoluzione in politica.
Oggi, nel Dopo il Moderno, si assiste (abbiamo assistito) al venir meno di quelle due pre-condizioni che hanno consentito nel Novecento la costruzione di una Avanguardia in arte e di una Rivoluzione in politica. La situazione attuale (sia in arte che in politica), è, diciamo così, «liquida», priva di forma (e io direi priva di sostanza), sfuggente, elusiva; le classi piccolo borghesi si sono liquefatte in Ceto Medio Mediatico; quelle borghesi si sono solidificate nei campi elisi dei paradisi fiscali e del Mega Lusso. Gli scrittori che non hanno uno stipendio (come me che faccio altro) sono diventati dei giornalisti, al massimo, dei giornalisti della cultura (in via di liquefazione), con un bagaglio culturale eterogeneo e massmediatizzato. I migliori professori universitari quando si affacciano alla cultura si devono travestire da giornalisti dell’industria dell’intrattenimento culturale globale. In queste condizioni io non trovo nulla di eccezionale nella fine del Laboratorio di Ennio Abate, anzi, mi meraviglierei del contrario. E non mi meraviglia affatto del fallimento della rivista di poesia che ho condotto dal 1993 al 2005 «Poiesis»; quel progetto è fallito per mancanza di destinatari e di interlocutori. E ne ho preso atto chiudendo la testata. La decisione di Roberto Bertoldo di chiudere agli aspiranti poeti italiani le pubblicazioni su «Hebenon», è stata una scelta drastica, ma un atto necessitato da quelle due condizioni che, oggi, non ci sono più: oggi ciascuno mira al proprio tornaconto immediato e personale, ciascuno guarda i propri interessi di bottega, non c’è più bisogno a salire sul tram del desiderio (della Poesia), c’è la realtà del Reale. E nel Reale c’è contiguità e affinità, c’è scambio di merci e di prezzi. Il rapporto che c’è fra critica e poesia è regolato da quello che vige sul mercato delle vacche, sui prezzi delle vacche. Il Laboratorio di Ennio Abate era palesemente fuori luogo (fuori tempo), così come era fuori tempo «Poiesis», dove però potevo contare su intelligenze come Giuseppe Pedota, Maria Rosaria Madonna e Lisa Stace. Morti i primi due e ritiratasi a vita normale la terza, sono rimasto solo io. E ho chiuso baracca.
SULLE RAGIONI DELLA CRISI
Sulle ragioni della crisi odierna dei cenacoli di artisti, Jacqueline Goddard, una delle ragazze di Man Ray, azzarda un’ipotesi originale, incredibilmente semplice: Scrive: «Negli anni Trenta, Parigi era il centro del mondo e Montparnasse era un club», racconta l’ex modella, una delle poche testimoni viventi di quell’epoca leggendaria. «Joyce, Duchamp, Ricasso, Bréton… Ci trovavamo alla Coupole dove Bob, il barman, teneva liberi alcuni tavoli per noi e i nostri amici. Tutto avveniva per un tacito accordo, senza neanche bisogno di darsi appuntamenti. E questo per un fatto molto semplice: allora non c’era il telefono… Una fortuna! Nessun telefono avrebbe potuto competere con Bob. E c’è di più. Al telefono possono parlare soltanto due persone. Noi, invece, eravamo in tanti a confrontarci, a litigare, a vivisezionare le idee». Era questo il segreto? La comunicazione reale anziché quella filtrata dai media? È forse un caso che il celebre detto di Aristotele («Amici miei… non c’è più nessun amico») si affermi proprio nel Villaggio Globale governato da Sua Maestà il computer e popolato da folle solitarie? «Eravamo amici e siamo diventati estranei» (La Gaia Scienza). Ancora una volta Nietzsche è stato lucido profeta.
Il nostro tempo è abitato dalla inimicizia tra artisti e critici, anzi, mi correggo perché voglio essere più preciso: dalla amicizia posticcia e ipocrita tra di essi. Gli Uffici stampa degli editori ormai hanno i propri critici, le collane di narrativa e di poesia hanno i propri critici che non sono altro che degli impiegati del catasto… è la mappa catastale che dirige il traffico, e gli addetti alla Informazione non devono fare altro che «filtrare» i rumors, i messaggi, fare filtro, eliminare chi può disturbare il catasto.
Che lo "spirito dei tempi" non favorisca la solidarietà è verissimo, ma non scambiamo una situazione generalizzata per una situazione "assoluta". Non siamo tutti nemici tra nemici. A volte le motivazioni "strutturali" non sono utili a spiegare dl tutto eventi locali. Le famose "lucciole" ci sono ancora, poche ma ci sono, e finché ci sono è necessario che lottino per mantenersi in vita e possibilmente per invertire la tendenza. Coraggio, a volte basta poco!Si tratta di trovar la formula, il mastice, gli elementi, sì: soprattutto lo spazio fisico e i tempi giusti.
A Linguaglossa
Non ci sono più i grandi sodalizi? Non ci possono essere più le Avanguardie e le Rivoluzioni? E allora?
Non possiamo vivere nella nostalgia del Grande o del Solido o della Sostanza o della Parigi degli anni Trenta. Non possiamo ridurci a constatare la divaricazione tra Ceto Medio Mediatico ed élite del Mega Lusso e a ripetere ad altri e a noi stessi che siamo gli ultimi mohicani o siamo fuori tempo e fuori luogo. Non possiamo pensare di salvarci o fare qualcosa di buono rinunciando alla comunicazione telefonica o per posta elettronica o sui blog. Non possiamo, scrisse bene una volta Paolo Virno, «tenere il broncio al proprio tempo».
Per me ha ragione Tito (Truglia): chiusa una baracca se ne costruisce un’altra progettandola meglio, curando di più le fondamenta, scegliendo con più cura i materiali. Il nichilismo è uno schermo che impedisce di capire che «non siamo tutti nemici tra nemici». Già su questo blog siamo ormai una decina di interlocutori fissi, con cui oltre a continuare a dialogare si può prudentemente ritentare un nuovo progetto.
da Rita Simonitto
Metto giù alcuni pensieri rispetto all’esperienza del Laboratorio dei Moltinpoesia che Ennio ha illustrato per esteso in questo post, esperienza che era centrata sul *come essere moltinpoesia o, fuori dal gergo, come essere positivamente poeti-massa*.
Le sue riflessioni e le risposte del gruppo hanno messo in evidenza in modo più pregnante di quanto fosse stato fatto in precedenza (ma ogni cosa acquista colore diverso se si colloca in tempi diversi) un investimento così passionale (e pertanto molto - sanamente - conflittuale) nei confronti di questa impresa, tale da farmi pensare a quel tormentato processo con cui i genitori devono fare i conti quando devono adattare la ‘fantasia del bambino ideale’ con la ‘realtà del bambino esperito’.
Non sto tacciando Ennio di ‘idealismo’ o di ‘non aver avuto i piedi per terra’.
Il mio vuole essere un discorso ‘come se’.
Infatti, se, come afferma Tito Truglia, è pur vero * che la fine è insita nell'esperienza * , sarà altrettanto importante fare tesoro dell’esperienza stessa.
Infatti voglio sperare che questi interventi possano portare l’iniziativa su una strada meno ideologizzata e più realistica (forse). Perché una mia impressione da “esterna” è che forse si sia cercato di porre un po’ il carro davanti ai buoi: poeti-massa si nasce (in virtù del “desiderio” di “Moltinpoesia”) o si diventa (attraverso il lavoro dei “Moltinpoesia”)? Abbiamo visto come il bambino “Laboratorio” sia nato (2006), e come sia comunque cresciuto tra non poche difficoltà (confrontandosi con fratelli di strada più o meno accreditati in virtù di ‘sacri lombi’ o soltanto perchè più scafati e agguerriti). Adesso è giunto il momento della maturità per cui ci si pone di fronte al cambiamento che può essere ‘radicale’ o ‘riformista’, nel senso di rinforzare qualche impostazione.
A mio avviso, da un lato, si dovrebbe continuare a mantenere il dibattito sulla *centralità* della critica contro:
a) la *svalorizzazione della sua [importante] funzione*;
b) il rifiuto presentato nei confronti del legame tra poesia e realtà storico-sociale-politica;
c) la diffidenza rispetto al legame che ci può essere tra impegno sociale e poesia.
E dove per *critica* (vedi etimo) si intende la messa in crisi del sistema delle false evidenze, affrontandone anche il temporaneo vuoto concettuale senza dover subito ricorrere a ‘tamponamenti di linguaggio’, per cui si cambia la forma linguistica ma, gira, gira, il valore della moneta è sempre quello.
Dall’altro lato, dovrebbe sempre mantenersi presente il confronto con quell’aut aut che non è di poca cosa: *l’aut aut più concreto che si è posto mi pare il seguente: o fare seriamente Laboratorio e costruire un noi capace di intervenire nell’attuale dibattito in poesia o essere un circolo di appassionati di poesia che si riunisce “per il piacere della poesia”, per fare salotto*.
L’unico ‘neo’ che troverei rispetto a questa definizione riguarda quell’*essere capaci di intervenire* che mi sembra eccessivamente onnipotente e azzardato (ancorchè comprensibile) dati i tempi bui che corrono (o fors’anche a causa di questi).
Il fatto stesso che Ennio riconoscesse la pluralità (*anche perché il Laboratorio, per il nome che portava, accettava a priori di essere plurale*), questa stessa faceva parte del principio “molti sono chiamati, pochi sono gli eletti”, ragion per cui anche i tratti *più individualistici, ludico-spettacolari, più poetico-spiritualistici che poetico-politici, più autoterapeutici che conoscitivi*, dopo un po’ avrebbero fatto il loro tempo… ma non per una questione di competizione e quindi di battaglia ai ferri corti, ma perché queste cose si estinguono da sé, se non viene dato loro di che foraggiarsi. Però, purtroppo, questo lo si può sapere solo dopo e non prima, per cui si tratta di aspettare che le cose si decantino.
[continua]
[continua]
Ennio dice: *Si trattava solo di coordinare le varie voci che si facevano sentire nel Laboratorio e produrre un discorso comprensibile, condivisibile, correggibile e sviluppabile. E per questo era indispensabile la funzione di coordinamento, che mi sono assunto come fondatore del Laboratorio stesso, ma che più volte (e invano) ho proposto in tutta sincerità che altri a turno si assumessero, respingendo le maliziose o parareligiose proiezioni di chi quella funzione assimila alle figure di una tradizione (per me pre-moderna) del guru o del maestro*.
Ma questo è l’iter che accompagna la formazione di un gruppo eterogeneo (di tipo non politico e fondato su un compito non ben definito) dove il conduttore viene inconsciamente investito di questo ruolo, non importa quali siano le sue reali attitudini o prestazioni (ovvero, né guida, né guru, né maestro). Non si tratta di etichettarle come funzioni pre-moderne che dovrebbero sparire. Esse esistono e sono fisiologiche al costituirsi dei gruppi. Poi, si spera, evolveranno.
Certo, la situazione diventa problematica quando ci si trova di fronte al mare magnum: *Arrivavano al Laboratorio attirati dal nome «Moltinpoesia», intuendo grosso modo il discorso che tentavo di fare o ci giungevano per sbaglio, solo per uscire dalla solitudine o per tanti altri motivi, tanto che per loro un qualsiasi altro circolo poetico sarebbe andato bene? E il nome moltinpoesia non alimentava forse un equivoco: che ogni testo andasse bene e dovesse essere solo applaudito? Se passava il principio che ogni testo scritto o letto è comunque poesia perché chi lo propone lo vive come poesia, lo crede poesia, qualsiasi critica o la figura del critico o del lettore-critico dovevano semplicemente scomparire. Anzi in base a questa logica, che scova poesia dappertutto e elimina ogni distinzione o confine, tutto diventerebbe poesia*.
Ma, come dice Mayoor, per fronteggiare tutto questo potrebbe esserci il criterio di partire dai testi e lavorare sui testi.
Potrebbe essere un buon discrimine.
Perché mai "una casalinga di Voghera” (Arbasino), un “pastore abruzzese o un bracciante lucano” (Moretti) dovrebbero sentire il bisogno di mettersi in un Laboratorio? Di poesia, poi? E ‘aggratis’, non tanto nel senso pecuniario ma in quello ‘para-cristiano’ ovvero senza alcuna responsabilità o responsività: se ci sono bene, se poi io non ci sono ci saranno altri al posto mio. Questo potrebbe essere il pensiero di uno dei “Molti” che parte già da una posizione di de-individualizzazione e di de-responsabilizzazione rispetto ad una iniziativa.
O,anche,come dice Ennio, attraverso l’individuazione dei campi da esplorare:
- *quello dei testi (ribadendo e amplificando il concetto espresso da Mayoor) in cui sia individuabile una presenza significativa (implicita o esplicita) dei molti (in altri termini del sociale, delle classi, della gente)*;
- *quello dei soggetti scriventi poesia o similpoesia*;
- quello che permette di sviluppare *un inizio di riflessione teorica poggiandosi su concetti filosofici (moltitudine, esodo) e socio-politici (lavoro immateriale, postfordismo) per dare respiro problematico e non corporativo al discorso che si va costruendo*.
- ma anche quello che sostiene Giuseppina Di Leo e cioè *di portare nella direzione di capire se la poesia risponde e se corrisponde al cosa e a quanto si vorrebbe dire scrivendo poesia; o se, al contrario, facendo poesia non facciamo che una semplice operazione di chirurgia plastica lasciando trasparire solo la superficie di ciò che invece vorremmo dire*.
Perché mettere dei paletti dovrebbe essere vissuto come separazione tra un dentro (buono) e un fuori (cattivo), o nel caso peggiore, una forma di ‘razzismo’?
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Forse questo progetto dei ‘Moltinpoesia’ poteva essere equivocato come la ricerca di un movimento caratterizzato da un bisogno più che legittimo, dati i tempi vacui e vani che corrono, di ‘socializzazione tout court’. Ma non per tradurre, anacronisticamente, il tentativo movimentista del ’68 in poesia, o *per promuovere una neo-militanza culturale* (Mayoor), ma nemmeno al fine di istituire ‘sodalizi’. E ciò non solo perché *non ci sono più i grandi sodalizi perché c’è Gruppo finché c’è una Tradizione cui bisogna opporsi* (Linguaglossa).
Linguaglossa continua: *La situazione attuale (sia in arte che in politica), è, diciamo così, «liquida», priva di forma (e io direi priva di sostanza), sfuggente, elusiva; le classi piccolo borghesi si sono liquefatte in Ceto Medio Mediatico; quelle borghesi si sono solidificate nei campi elisi dei paradisi fiscali e del Mega Lusso* e dove tutto indica *un degrado sociale diffuso*.
Però se noi leggiamo questa trasformazione epocale utilizzando il solo riflettore cultural-sociologico rischiamo di mettere in secondo piano quello politico, mentre è lì che si giocano le grandi trasformazioni in termini di egemonia (anche culturale) nella spartizione e gestione di sfere di influenza.
Per questo credo che sia importante che la posizione del poetare oggi (il suo senso e i suoi codici) non possa prescindere dall’interrogazione ‘politica’.
E’ questa realtà che dovrebbe chiamarci e scuoterci anche se purtroppo le sirene del potere, in una società disgregata (ma chi e che cosa hanno prodotto questa disgregazione?) mantengono il loro fascino. E’ a questa sollecitazione cui dovrebbero rispondere i “Molti” (anche se sono pochi) i quali sono alla ricerca di qualche cosa che non appaia soltanto come un rifugio ‘religioso’, una vetrina in cui esporre la propria mercanzia, ma un luogo dove sia reso *possibile il confronto su una materia di difficile definizione come la poesia.* (G. Di Leo).
Linguaglossa: *Oggi, nel Dopo il Moderno, si assiste (abbiamo assistito) al venir meno di quelle due pre-condizioni che hanno consentito nel Novecento la costruzione di una Avanguardia in arte e di una Rivoluzione in politica*.
Ciò che continua a stupirmi è che nessuno, parlando del Novecento (o può essere che io non me ne sia accorta e allora chiedo venia), faccia riferimento al fatto che il Novecento ha vissuto ben due guerre mondiali così tragiche e tremende da aver lasciato segni la cui portata è a tutt’oggi inimmaginabile, proprio perché sepolta dalle manifestazioni di superficie legate alla ricostruzione e al benessere.
Siamo vivi e questo basta! Ma può bastare se guerre continuano ancora? O è solo perchè non sono più affare nostro? Oppure perché si tratta di guerre ‘umanitarie’ non di invasione, ca va sans dire?
Non è anche questo un Reale su cui la poesia potrebbe interrogarsi?
R.S.
[Fine]
caro Ennio e interlocutori del blog,
io penso (pur non avendone mai preso parte per ragioni di distanza Roma-Milano) che il Labortorio di Abate partisse da un presupposto errato:
che potesse esistere un luogo dove i "molti" della "poesia" potessero scambiarsi le esperienze estetiche. Ora, io invece ritengo che oggi non v'è più un "luogo", per il semplice fatto che un luogo è tutti i luoghi e che internet abbia cambiato le carte in tavola.
O meglio, esistono i corsi di scrittura creativa dove "i molti" tentano la scorciatoia verso la scrittura dei "pochi": pagano, e con i soldi credono di poter adire al limbo dei Beati. È legittimo, se tutto è merce lo è anche quello della poesia. Anzi, ritengo giusto che chi voglia appropriarsi dei «segreti» della poesia debba anche sborsare degli euro quale contro partita.
Ma quando i "molti" vogliono imporre la dittatura, non del proletariato, ma dei "molti", ecco, allora io non ci sto; la poesia è una cosa difficilissima, sia detto a chiare lettere, ed è cosa per pochi, dico pochi in tutto un secolo!
Il fatto che io, come critico improvvisato (diciamo così), anche in questo blog, mi sia fatto delle inimicizie e attirato antipatia per delle critiche un po' liquidatorie che ho fatto qua e là, ne è la prova. Nessuno (dico Nessuno) è disposto a prendere in esame una critica da parte di un critico: c'è il narcisismo, l'auto stima, l'auto esaltazione, l'ignoranza, la superficialità di chi scrive che sono ostacoli alla instaurazione di un dialogo tra critico e autore. Nessuna delle due parti è disposta a cedere un millimetro per capire le ragioni dell'altra. E poi la critica è una cosa difficile, occorrono studi specifici e particolarissime attitudini che pochissimi hanno (come del resto avviene per la poesia). Quindi, sia la critica che la poesia sono cose per "pochi", anzi, per "pochissimi".
Tanto premesso, ritengo invece molto utile che un vero laboratorio di confronto possa essere questo blog. È questo il vero blog dei nostri tempi: e allora rafforziamolo.
Caro Giorgio,
nel tuo discorso riaffiora un “pregiudizio elitario estremizzato”, secondo il quale per i “molti” (dalla decina, alle migliaia e più) in poesia non c’è proprio alcun spazio. Forse neppure come lettori o lettori-critici o dilettanti.
Da questo tuo punto di vista, cui fa da sfondo - a me pare - un’antropologia iper-hobbesiana, è del tutto impossibile qualcosa che non sia la guerra di tutti contro tutti anche in poesia. La guerra, la competizione prevale *in assoluto* e qualsiasi forma di cooperazione e persino di confronto non avrebbero alcun senso.
La guerra sostituisce il laboratorio e basta.
Perciò risulterebbe del tutto indifferente che un tentativo di laboratorio possa avvenire in un luogo fisico, nel quale delle persone si incontrino faccia a faccia o un luogo virtuale, come su un blog, dove lo scambio delle «esperienze estetiche» (con lo strascico delle altre, per me inseparabili dalle prime) avviene a distanza.
Dove sia poi questa « dittatura, non del proletariato, ma dei "molti"» davvero non la vedo. Al massimo c’è una confuso, ambiguo, approssimativo, illusorio tentativo da parte di una fascia estesa di popolazione acculturatasi nella scuola di massa per appropriarsi di un Valore-Poesia, del resto in crisi.
Il fenomeno di solito è solo oggetto di sprezzo, mentre io ho cercato di pensarlo come un *problema* sul quale promuovere un intervento critico a più voci. Perché ci vedo un legame con la crisi della poesia ( dei “pochi”) e perché non sono affatto convinto che la poesia e la critica debbano essere « cose per "pochi", anzi, per "pochissimi"».
Non mi pare poi fondata l’affermazione che «Nessuno (dico Nessuno) è disposto a prendere in esame una critica da parte di un critico». Il fatto che i tuoi scritti vengano pubblicati su questo blog la smentisce. Può darsi che questo a te non basti, ma questo è un altro problema. Ti ricordo, infine, che inimicizie e antipatia possono essere un contorno inevitabile dell’esercizio della critica; ma le “critiche al critico”mi paiono legittime e persino utili.
Bene, al di là delle schermaglie verbali, sono evidenti (mi sembra) in ognuno buone intenzioni costruttive. Ennio chiude ma riapre invitando come sempre alla partecipazione, Rita comincia ad appuntare indicazioni sul come fare, Giorgio anche lui considera già buono quello che avviene in questo blog. E allora perché non continuare a sezionare e a mattonare costruttivamente?
Provare a delineare la fisionomia del "perfetto" laboratorio? Le geometrie del buon-gruppo poetico?
Si parlava del Gruppo 63, ecco, secondo me quello era solo un cartello, una riunione abbastanza ambigua di soggetti che non hanno creato una dimensione collettiva, solidale, condivisa. Sull'oggi direi che pur apprezzando molto le potenzialità della rete, il luogo fisico resta fondamentale. Il luogo, e il tempo che i soggetti dovrebbero mettere a disposizione.Partire dai testi? Certo, io sono d'accordo, ma con rinnovate energie rispetto ai vari livelli su cui si deve coinvolgere la vita del gruppo: obiettivi culturali, obiettivi strettamente artistici, obiettivi umani...
Le capacità? Certo che sono importanti, ma non devono essere necessariamente a quantità escludente. Un laboratorio si motiva anche in quanto fenomeno "didattico", fossimo tutti belli e "imparati" non ci verrebbe in mente di partecipare ad una attività di condivisione costruttiva.
Caro Tito,
non si tratta di «schermaglie verbali»: le intenzioni costruttive marciano solo quando i frammenti di pensiero o gli abbozzi di discorsi già presenti nella mente di uno, due, tre, dieci, ecc. persone formano una frase sensata, comprensibile, espandibile, appoggiata in una corretta proporzione tra “reale” e “possibile”.
Più che delineare la fisionomia del “perfetto” laboratorio o del « buon-gruppo poetico», insisterei nel confronto tra i soggetti reali che in questo blog hanno accettato e cominciato a dialogare tra loro.
Vediamo se il dialogo prosegue e come prosegue. Poi, se risultasse incoraggiante, possiamo tentare l’incontro/confronto anche in un luogo fisico.
Si potrebbe cominciare col coadiuvarmi con proposte per il blog, come sta facendo da tempo Giorgio. O col delineare una serie di rubriche ragionate. Ecc.
Scusa la mia cautela, ma, dati i precedenti fallimenti (per me numerosi: Inoltre, Il Monte Analogo, Manocomete, Laboratorio Moltinpoesia di Milano) non voglio rischiare un altro incontro/confronto tra sordi.
Ok, l'espressione era detta con sincera benevolenza. Saluti!
Caro Mayor,
la critica è una cosa seria, non può essere considerata un gioco, chi espone i testi alla critica ci crede, se si tratta di un gioco non è più critica e non è costruttiva. Anche il Laboratorio di poesia non puà esere considerato un gioco o un luogo di attività ludiche. Tutti i partecipanti devono essere consapevoli che sono loro stessi a costruire e mantenere in vita il laboratorio sia con la collaborazione sia con la loro partecipazione agli incontri. Chi partecipa al laboratorio deve esere disposto a collaborare e condividere. Se mancano alcuni principi il laboratorio viene meno e alla fine si chiude.
Luisa
cari interlocutori del blog,
credo che il «luogo» del blog possa essere molto utile al reciproco confronto di posizioni e di idee, espresse nella più ampia libertà. Ciò significa che tutti possono partecipare al dibattito e alle discussioni senza sentirsi dimidiato se qualcuno di noi manifesta e sostiene una posizione non condivisa, come spesso succede, l'importante è che ciascuno esponga le proprie opinioni nella massima libertà e franchezza. Personalmente, ammiro la schiettezza delle opinioni e la franchezza, non riesco a sopportare i gesuitismi e le diplomazie di chi intende soltanto favorire la parola buonista e igienica.
Una sola esortazione: che ogni posizione venga espressa ma soprattutto argomentata, altrimenti se ci si limita alla professione di fede (priva di adeguata motivazione) si resta nel regno indistinto e chiuso del dogma.
Oggi non è più il tempo di poetiche "normative" come ha bene chiarito Rita Simonitto, ma sicuramente una poetica è normativa per chi la esercita e la applica nel proprio lavoro quotidiano, per poi cessare di essere normativa una volta che il pensiero estetico venga portato a conseguenze ulteriori. Per contro, «una» poetica è per eccellenza normativa, ma non per questo deve diventare un dogma.
Attendere la trasformazione dei rapporti di produzione per fare una poesia «nuova», significa attendere l'avvento del «messia», è un pensiero non-dialettico, o meglio, pre-dialettico. Spinge alla inazione (o meglio, a una azione limitata al Politico). Chi fa poesia la fa sul campo (cioè sulla pagina scritta), non può attendere l'avvenuta modificazione dei rapporti di produzione tra Lavoro e Capitale.
Fortini prendeva un abbaglio gigantesco quando riduceva lo spazio per la poesia in quella sottilissima fenditura tra Lavoro e Capitale. Non è questo il modo giusto per porre il problema, che esiste, ma non in questi termini. E la storia del Novecento ci insegna che proprio quando le condizioni per fare poesia sono palesemente e fortemente avverse alla poesia, si è avuta grande poesia. E allora, come la mettiamo?
Caro Giorgio,
la mettiamo proprio nei modi in cui tu qui sostieni:"che ogni posizione venga espressa ma soprattutto argomentata".
Tu scrivi: "Fortini prendeva un abbaglio gigantesco quando riduceva lo spazio per la poesia in quella sottilissima fenditura tra Lavoro e Capitale.Non è questo il modo giusto per porre il problema, che esiste, ma non in questi termini".
Espressa questa posizione, a te ora il compito di argomentarla.
Da parte mia non vedo nessun abbaglio di Fortini, che pensava alla poesia in termini storici e perciò, in epoca industriale, essa non poteva essere vista al di fuori del conflitto Lavoro Capitale che per lui investiva anche il linguaggio "materia prima" della poesia.Né mi pare che da quella sua visione se ne possa derivare una sorta di *attendismo*("attendere l'avvenuta modificazione dei rapporti di produzione tra Lavoro e Capitale"): Fortini ha fatto poesia, sebbene le condizioni per dare poesia fossero palesemente e fortemente avverse alla poesia("Nulla è sicuro, ma scrivi" leggiamo in "Traducendo Brecht"). Né mi pare che la grande poesia del Novecento sia comprensibile
staccandola dai conflitti del secolo.
Ma a te la parola e confrontiamoci pure...
A Ennio:
Tutti in qualche modo e qualche volta diventiamo sordi , tutti tutti e, come dice il vecchio detto, non c'è peggior sordo di chi non vuol sentire. Emilia
...e sentire lo scriverei così: S E N T I R E. Emilia
caro Ennio Abate,
quando dico che dobbiamo leggere e interpretare la poesia tenendoci a distanza da categorie dell'economia come rapporti di produzione e forze produttive e economicistiche come salario e capitale, non intendevo certo fare ritorno a Croce al concetto di poesia=lirica pura; dico soltanto che dobbiamo leggere la poesia come un particolare genere, come dire, una particolare forma di linguaggio, ed è soltanto applicando le categorie del linguaggio che noi possiamo entrare dentro la serratura della poesia e dentro la cassaforte del Moderno. Non occorre la dinamite per far saltare il Moderno ma basta una poesia per cambiare le carte in tavola di ciò che si intende (comunemente e convenzionalmente) per poesia. I «conflitti» in poesia devono potersi rintracciare all'interno del suo dispositivo estetico e poetico, questo voglio dire, e non all'esterno. I conflitti esistono nella forma poetica come «traccia», orma mnestica; e, a volta sono invisibili ad intere epoche. Voglio dire che tanto più alta è la formalizzazione dei testi quanto più in profondità scendono i «conflitti». Insomma, il discorso è complesso e poliedrico e andrebbe inquadrato da differenti punti di vista ermeneutici.
La poesia apre l'impensato al pensiero, frattura l'impensato, ma dice l'impensato tramite le categorie del linguaggio, e quindi è una attività altamente razionale-fantastica. La logica è la grammatica profonda del linguaggio, al di là della sua grammatica concettuale che ne è la sintassi. La metaforologia è quella branca dell'ermeneutica che studia le peculiarità delle metafore. Il linguaggio, qualsiasi linguaggio umano è metaforico e simbolico, e soltanto in ultima istanza e in ordine cronologico-storico è un fatto comunicazionale. La comunicazione è la coda del linguaggio metaforico.
L'idea che il linguaggio metaforico sia la testa, mi piace molto. Vorrei darne un esempio...ma non lofaccio. Emilia
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