venerdì 8 febbraio 2013

Mario Marchisio,
"La falena sulla palpebra.
Poesie gotiche 1973-2007".
Con una nota di Giorgio Linguaglossa.



Mario Marchisio La falena sulla palpebra. Poesie gotiche 1973-2007 Mimesis, Milano 2008

Ofelia

C’è un vento lieve che increspa l’acqua
C’è un vento che l’accarezza:
Erba, fiume, fronde contro il cielo,
E lei nell’acqua e i pesci che la schivano.
E un tiepido raggio esplora il silenzio,
Un sole tiepido indugia sul vetro
Nero dei suoi occhi, scende agli splendori
Dell’esilio senza tempo a cui fa vela
Mentre resta là in fondo cullata
Dal guizzo dei pesci, né trema
Se gelo anche l’abbraccia. non trema
Ofelia, di verdi alghe incoronata.





Il ritorno

Sono giunto prima che l’alba
Troncasse nel sangue
Il balbettio senza meta
Delle tenebre. Oh sangue
Denso e cupo di quelle stanze
Dove pure del sangue
Nessuno parla; oh pareti
Nere imbevute di sangue
Scarlatto, ora crosta
Che grida roca nel sangue
Novello che dentro le sgorga;
È tornato il pallido sangue
Barcollando nel buio!
Una coppa di sangue
Vi preme di nuovo, cuscini
Rossi in velluto, ma sangue
Che serpeggia ed annega.
Sono entrato: ecco sangue
A fiotti sulle finestre,
Porte e sedie grondano sangue.
Non potevo dimenticare
Nelle vene a lungo il sangue
Cupo denso implorante.
È tempo, è tempo di sangue.


In alto, in cima

In alto, in cima
Alla ricurva scala
Udire gli angeli le lodi il canto
D’ogni divino amore, ogni giorno divino
Senza pudore
Levarsi lieto, dare le spalle al mondo,
Come una febbre scuotere le più remote venerdì
Monche di sangue, d’ingrato sonno piene
E di terrore.

«Eccoti qui, civetta, malinconico
Barbagianni, e voi rissosi o muti
Amici. Quale lunga attesa
Ci strazierà
Prima che schiuda i suoi cupi fulgori
Quaggiù la vera, la sola santa di luce
Notturna! Pietoso un angelo l’induca
A medicare i nostri volti i nostri cuori
Sigillandoli
Per farne urna, intatta madia e specchio, fiume
Dalla riva taciturna…»

Sostare,
Mutarsi in calma; cedere
All’umido sorriso che ora fluttua nelle tenebre.


Mentre mi seppellivano

Mentre mi seppellivano
All’ombra dei platani casta
Un miagolio di sordidi violini
Riempiva l’aria: i grilli e le cicale
Astute… Io ero vivo, io
Mi divertivo.


Carme ipogeo

I

Ama talvolta comparire Satana
Dove l’acqua s’increspa, dove scorre
Se traluce quel malefico profilo,
La coda di minutissime scaglie
Nere o verdastre, il ripugnante zoccolo
Che insegue nelle vie da carne umana.
Egli ha saputo edificare il mondo
Fatto certo insondabile per chi
Consuma gli anni ricercando Dio
Da una palude all’altra: in ogni vena
Buia di vita: stomaco, vampiro.
Sozzo l’ardore che lo guida e preme
Per quanto voli con ala celeste
A dare un nome al fango, alla paura.
Oh fiumi di Babele incandescenti,
Quell’arte che rende iniqui e felici
- Creare – muta adesso nelle viscere,
Superba luce, fra le stelle erranti
Giacque sepolta e il giorno del risveglio
Fu la sua fine, la fine indicibile…

II

Nessuno si vanti di riconoscere
Il volto divino: qui non esiste
Corpo mai che non mostri l’abisso
E i neri figli in fermento: riparo
Non si trova qui nell’onda che inghiotte.
È Satana a confondere le lacrime
Del sonno e della veglia affinché muoia
Con l’ultima scintilla anche l’abbraccio
Azzurro sopra gli angeli di Dio.
Poiché l’ampolla traboccante grazia
E alta armonia rifugge i vani sguardi
Solo l’inferno è visibile in terra,
Solo il demonio è tangibile; come
Al misero cieco cui non si dona
Altro che un’unica, maligna notte.
L’esplorerà con passi titubanti,
Nell’odio che il timore ingigantisce:
Ne pioveranno elmi, spade, corazze
E un fuoco di silenzio crocifisso:
Un’anima dal fuoco snaturata.


Garuda

Dal buio, dove la tigre sogna l’antilope,
Discende la virgola rosa che è la mia lingua,
L’Aurora inseguita dalle folgori di Indra
Abbandona il suo carro e di se stessa tinge l’oceano
Dell’aria, un solo gemito un solo sospiro
Racchiuso nel cerchio dei grandi occhi accesi.

Le oscilla sul petto l’incerto lucore
Che la pioggia di latte ha trasformato in Ganesa,
Pachiderma e bambino in un unico stampo
Fratello di Skanda, progenie di Siva:
La verde foresta drizzandosi in piedi
Si srotola e distende come una tunica sull’acqua.

Se un fantasma di sofferenza accorcia
La linea sovrumana di quelle braccia
Protese all’incontro alla notturna vampa
Sinuosa in mezzo al cielo ombelico di brace,
Io rompo ogni indugio, m’inabisso per non tornare
Fino al giorno in cui la morte si consegni ai miei artigli.

*Nota di Giorgio Linguaglossa

Se la via della «povertà», che sa di utopia francescana, è probabilmente una via illusoria e salvifica, ne consegue che anche la via del «lusso» non è mai innocente, anzi, di più: quasi sempre ci ritroviamo tra le mani oggetti di oreficeria, elitarie smancerie, dolciumi. Perché non c’è più una strada, un sentiero assicurato (nel bosco coperto di foglie)  per il quale qualcuno abbia stipulato un contratto di assicurazione verso terzi contro i sinistri causati dalla speculazione dei beni mobili delle scritture talqualiste, replicabili e moltiplicabili; non c’è più un «bosco» in cui smarrirsi. Per Marchisio il peccato del «viandante» è nel suo stesso vagabondare; il viatico del «viandante» è il suo errare (il suo peccato).
La scrittura letteraria è uno «spazio di morte» ha scritto Blanchot ma uno «spazio» dove protagonista assoluta è la vita; dal corpo morto della scrittura ora risorge la vita. Ed ecco che il cattolicissimo Mario Marchisio si ritrova a meraviglia in questo «spazio di morte» qual è il «poetico». Preceduta da Versi giocosi e satirici (1999) e dal canzoniere amoroso Il viandante (2003), questo volume conclude il trittico delle poesie complete dell’autore torinese secondo il retro di copertina del libro. Sono dunque versi di un bilancio di vita, un epicedio tortuoso e maniacale sull’ossessione del «diavolo e della carne», del simbolico e del metafisico.
I saggi di questi ultimi anni sul post-contemporaneo di Roberto Bertoldo affrontano una serie di questioni. La domanda che si pone l’opera poetica è: chi è colui che parla e a chi lo dice?  C’è separazione tra l’autore e il lettore? Da dove deriva questa separazione? Ma la parola dell’autore non nasce da una situazione comune a tutti i parlanti? Non è la parola della poesia quella della comunità? O è quella di una dispersione? La parola della poesia non fonda né stabilisce nulla, tranne la propria interrogazione? Un tempo forse la sua finalità era quella di dare un senso più puro alle parole della tribù; oggi è una domanda che la poesia rivolge a se stessa. Questa domanda è un atto di fede, un dubbio, una ricerca? La domanda prende una forma: ecco alcuni segni che si proiettano su un fondale bianco da cui si diramano una molteplicità di significati possibili. Il significato finale di questi segni non può essere conosciuto dal poeta: viaggia insieme al tempo, o meglio, si dirama in più temporalità. Il poeta interpreta ciò che il tempo dice, ma il tempo dice: nulla: dunque nichilismo. Ed ecco che un autore integralmente cattolico come Mario Marchisio tenta di opporsi con tutte le proprie forze al nichilismo; ed ecco spiegata la ragione della adozione di uno stile gotico.
La «secolarizzazione» che ha investito il discorso poetico lo ha privato, da un lato, del radicamento ad uno sfondo metafisico-simbolico, dall’altro, lo ha reso, nelle sue versioni epigoniche, sempre più riconoscibile, di aproblematica identificazione. Lo stile di Marchisio, invece, appare di problematica identificazione: un bersaglio mobile. Lo sviluppo delle tecniche del tardo Moderno, che ha invaso anche la vita quotidiana, ha avuto un contro effetto anche nel discorso poetico, deprivandolo di tutto ciò che è il «territorio del poetico». Ciò che resta oggi di questo processo che ha attraversato il Novecento è, appunto, il discorso poetico del post-contemporaneo: la tematica del rapporto erotico invade il genere poesia, diventa preponderante, occupa lo spazio di quello che negli anni Ottanta si definiva il «Privato» e che oggi, grazie alla influenza mediatica delle televisioni, è diventato uno spazio voyeuristico, dandystico, di un dandysmo di massa. A tutto ciò si oppone lo stile gotico e raffinato della poesia di Mario Marchisio; un modo come un altro di spadaccinare il nulla che ci sovrasta, fingendo di ungere la punta del fioretto prima di un altro affondo sulla pedana del male.


3 commenti:

Anonimo ha detto...

Dio mio! Emy

Mayoor ha detto...

Il termine "Gotico" veniva usato nel Rinascimento per indicare l'architettura non di moda, perché in quell'epoca era moderno il neoclassico. Lo si potrebbe dire anche qui, dopo aver letto queste poesie di Marchisio? Dipende. Si sa che dal settecento in poi il Gotico non ha mai smesso di far parlare di se'. Se non avessi letto che Marchisio è del '53 nulla mi avrebbe impedito di pensare ad un giovane dark innamorato di Poe che scriveva: "... Ho udito tutte le storie nel Paradiso e sulla Terra. / 
Ho veduto molte cose all'Inferno. / 
Ma il suo occhio d'avvoltoio azzurro chiaro / 
è l'occhio del Diavolo in persona. / Portatemi via adesso! /  
Ma fate che il silenzio anneghi il battito del suo cuore. / 
Non posso sopportarlo! / Liberatemi dall'orrendo mare che non posso vedere. / 
Vi prego, liberatemene!" . Quindi un dialogo con la modernità sarebbe possibile, anche senza scomodare l'eterno. Altro non posso dire ma ce ne sarebbe: il "nulla" che è anche nelle tematiche (perché no filosofiche) che degenerarono dal Punk ai Dark, e magari anche gli Emo. Ma non vorrei scadere troppo nel ridicolo, anche perché è evidente che la fattura e la visionarietà di queste poesie sono d'altro livello. Strano però, per un cattolico credente, trattar così da vicino il nulla, e così disperatamente.

Anonimo ha detto...

Se difficile è alle volte comprendere il significato di ciò che ci circonda, riuscire ad esprimerne la complessità con la poesia allora la sfida è vinta. La poesia di Marchisio va ben oltre lo sguardo, è una ricerca in continuo divenire.
L'immagine del pellegrino, come evidenzia Linguaglossa, è una metafora molto cara al credente ed è al tempo stesso l'emblema dell'uomo, il suo stigma l'avvertire l'essere del mondo.

Giuseppina Di Leo