martedì 21 novembre 2023

A che cosa servono i gruppi di poesia sui social?

 

di Luca Chiarei

PER LEGGERE CLICCA QUI

2 commenti:

Ennio Abaten sintonia… Nevio Gambula https://www.facebook.com/nevio.gambula/posts/pfbid0Pyd19CDRnAoVTxQD1pWbs3ZVpNoADj6XiQyd6NC2wTwfqjm2nGuFFj2DdkeWa8HXl 40 m · La notizia della decisione della poetessa Anne Boyer mi ha fornito l’occasione per scrivere alcune note, quelle che seguono. Trovo interessante l’idea di «rifiuto attivo» espressa dalla Boyer, ossia di non partecipare alla narrazione dominante che “igienizza” il linguaggio sino a rendere accettabile il massacro di Gaza. Dal momento che stiamo assistendo a una carneficina, bisogna contrastare il linguaggio che la tollera o la sollecita con un’azione netta di distacco: «Non posso scrivere di poesia» – afferma la poetessa americana – «tra i toni ‘ragionevoli’ di coloro che vogliono acclimatarci a questa sofferenza irragionevole». *** DI COSA PARLA IL SILENZIO? APPUNTI «Che tempi sono questi, quando parlare d’alberi è quasi un delitto perché su troppe stragi comporta silenzio!» Bertolt Brecht Esiste il silenzio sintomatico, ossia un silenzio che nell’astenersi dal dire esplicita qualcos’altro. Il silenzio di tanti artisti e di tanti intellettuali di fronte allo sterminio dei palestinesi di Gaza, per esempio. Il problema non è di ordine morale; non è in gioco la capacità di distinguere ciò che è bene o male, giusto o sbagliato. Sembra quasi che accettino una situazione, che vivano una sorta d’impotenza, oppure che quella forma del dire – che è un dire politico – non competa a chiunque. Di cosa è sintomo questa ritrosia a dire? Non appena è emerso questo nuovo e devastante evento, in molti hanno cominciato a riflettere; interrogativi, conferme, nuove conoscenze, un’abitudine positiva che si è talvolta trasformata in azione. Non sono mancati gli articoli, i commenti, le note – e le manifestazioni di solidarietà. A prescindere dai contenuti, questo modo di agire – per se stessi, sul piano della riflessione, e per gli altri, sul piano della condivisione – è certamente importante, politicamente importante, e persino bello, umanamente bello. Il primo passo, comune a molti, è stata l’indignazione. Indignarsi, e farlo pubblicamente, non è che un modo per attivare la ragione: di confrontarsi con l’evento e con il contesto che lo ha provocato. Ora, tutto questo dovrebbe appartenere a chiunque, ogni cittadino dovrebbe sentirsi in dovere di venire allo scoperto: di rischiare la testimonianza. Siamo parte di quell’evento, nostro malgrado; semplicemente lo ignoriamo? Non è vitale, per il cittadino, e per la stessa condizione geostorica, l’atto di esaminare i concetti e le formule con cui si rappresenta quell’evento, e di criticarle laddove esse fossero nocive per la conoscenza e l’azione? Non è vitale, per chiunque, interrogarsi sul senso del proprio essere parte di quel contesto generale che ha permesso alla situazione israelo-palestinese di deteriorarsi? Non è vitale, per chiunque abbia a cuore la giustizia e la pace tra i popoli, interrogarsi sulle narrazioni che ne accompagnano lo svolgersi tragico? Che il silenzio sia sintomo di una perdita? Della perdita di agire la critica; di criticare, insomma, il pensiero e il reale? Ma senza critica non si esce dal cuore stesso dell’umano? Non diventa, la vita separata dalla critica, una riproduzione del proprio carattere animalesco? *** Gunther Anders è stato un implacabile fustigatore dei “silenti”, e non senza ragione. Per esso, il silente è peggio – eticamente, politicamente – del complice che sostiene apertamente, e senza vergogna, i «manager del cinismo», ossia chi determina le forme crudeli del mondo. Il mutismo del silente – la sua indulgenza – non fa che affermare il presupposto che non c’è motivo per criticare o per ribellarsi; non dicendo niente, non partecipando al discorso pubblico, essi semplicemente lasciano che le azioni di chi gestisce il potere accadano. Anche tacere – scrive Anders – è azione. Si obietterà che parlare è un esercizio futile – tanto più oggi, con il rumore di fondo dei social – e che la critica è impossibile. Ma anche pensare questa futilità o impossibilità è una forma dell’agire: cioè la modalità più consolante di posizionarsi nell’angolo più remoto del reale, quello dove gli avvenimenti sono sì visti, ma con gli occhi di un testimone che non vuole presentarsi in tribunale. Di fronte a questa reticenza, lo stesso Anders non esitò a parlare di «responsabilità collettiva»: nel ripetersi di eventi palesemente tragici, l’atto di tacere ci rende responsabili – politicamente responsabili – dell’orrore. Anche Hannah Arendt insiste sul concetto di responsabilità collettiva, ossia di una responsabilità politica del soggetto per gli atti compiuti dai membri della sua comunità. Ogni cittadino che vive “passivamente” un contesto e che non esprime o agisce la critica è, benché non direttamente colpevole, in qualche modo responsabile delle scelte che qualcun altro ha compiuto per lui. Considerando che per Arendt l’agire politico è l’intreccio di azione e linguaggio, ed essendo entrambi “uno spazio intersoggettivo”, gli atti del “tacere” e del “non agire” si configurano come una forma del “subire” il reale e le determinazioni di chi controlla le scelte politiche che interagiscono con esso e che lo influenzano. Il problema – scrive Arendt – non è “morale”, non riguarda l’io, bensì “politico”, riguarda il mondo; e allora l’interrogativo diventa: di fronte a quell’evento tragico, qual è l’impatto del mio comportamento? È meglio, per il singolo, restare in disparte, spogliandosi della possibilità di influire in qualche modo su quella «catena d’atti malvagi» di cui è costituito l’evento, oppure sentirsi parte di una comunità e mettersi in conflitto con il contesto che lo rende possibile? A questa domanda, probabilmente, non è facile rispondere; la stessa Arendt usa una formula dubitativa: «potrebbe risultare alla fine che nessuna norma morale, individuale e personale, di comportamento sia in grado di assolverci dalla nostra responsabilità collettiva». Quando il fervore del fanatismo, sembra dirci Anders, si impossessa d’una strategia geostorica, il tempo che ci separa dalle imprese sanguinarie è troppo breve per lasciare correre. Insomma, di fronte a eventi tragici (ora Gaza, ieri Siria, Yemen, ecc.), nulla dovrebbe sembrarci più urgente che prendere la parola in pubblico. D’altra parte, seguitando con Arendt, anche nostra è la responsabilità «per cose che non abbiamo fatto», ma di cui siamo testimoni; e «assumerci le conseguenze di atti che non abbiamo compiuto, è il prezzo che dobbiamo pagare per il fatto di vivere sempre le nostre vite, non per conto nostro, ma accanto ad altri, ed è dovuta in fondo al fatto che la facoltà dell’azione – la facoltà politica per eccellenza – può trovare un campo di attuazione solo nelle molte e variegate forme di comunità umana». [Continua] ha detto...

n sintonia…

Nevio Gambula
https://www.facebook.com/nevio.gambula/posts/pfbid0Pyd19CDRnAoVTxQD1pWbs3ZVpNoADj6XiQyd6NC2wTwfqjm2nGuFFj2DdkeWa8HXl
40 m ·
La notizia della decisione della poetessa Anne Boyer mi ha fornito l’occasione per scrivere alcune note, quelle che seguono. Trovo interessante l’idea di «rifiuto attivo» espressa dalla Boyer, ossia di non partecipare alla narrazione dominante che “igienizza” il linguaggio sino a rendere accettabile il massacro di Gaza. Dal momento che stiamo assistendo a una carneficina, bisogna contrastare il linguaggio che la tollera o la sollecita con un’azione netta di distacco: «Non posso scrivere di poesia» – afferma la poetessa americana – «tra i toni ‘ragionevoli’ di coloro che vogliono acclimatarci a questa sofferenza irragionevole».
***
DI COSA PARLA IL SILENZIO?
APPUNTI
«Che tempi sono questi, quando
parlare d’alberi è quasi un delitto
perché su troppe stragi comporta silenzio!»
Bertolt Brecht
Esiste il silenzio sintomatico, ossia un silenzio che nell’astenersi dal dire esplicita qualcos’altro. Il silenzio di tanti artisti e di tanti intellettuali di fronte allo sterminio dei palestinesi di Gaza, per esempio. Il problema non è di ordine morale; non è in gioco la capacità di distinguere ciò che è bene o male, giusto o sbagliato. Sembra quasi che accettino una situazione, che vivano una sorta d’impotenza, oppure che quella forma del dire – che è un dire politico – non competa a chiunque. Di cosa è sintomo questa ritrosia a dire?
Non appena è emerso questo nuovo e devastante evento, in molti hanno cominciato a riflettere; interrogativi, conferme, nuove conoscenze, un’abitudine positiva che si è talvolta trasformata in azione. Non sono mancati gli articoli, i commenti, le note – e le manifestazioni di solidarietà. A prescindere dai contenuti, questo modo di agire – per se stessi, sul piano della riflessione, e per gli altri, sul piano della condivisione – è certamente importante, politicamente importante, e persino bello, umanamente bello. Il primo passo, comune a molti, è stata l’indignazione. Indignarsi, e farlo pubblicamente, non è che un modo per attivare la ragione: di confrontarsi con l’evento e con il contesto che lo ha provocato. Ora, tutto questo dovrebbe appartenere a chiunque, ogni cittadino dovrebbe sentirsi in dovere di venire allo scoperto: di rischiare la testimonianza.
Siamo parte di quell’evento, nostro malgrado; semplicemente lo ignoriamo? Non è vitale, per il cittadino, e per la stessa condizione geostorica, l’atto di esaminare i concetti e le formule con cui si rappresenta quell’evento, e di criticarle laddove esse fossero nocive per la conoscenza e l’azione? Non è vitale, per chiunque, interrogarsi sul senso del proprio essere parte di quel contesto generale che ha permesso alla situazione israelo-palestinese di deteriorarsi? Non è vitale, per chiunque abbia a cuore la giustizia e la pace tra i popoli, interrogarsi sulle narrazioni che ne accompagnano lo svolgersi tragico? Che il silenzio sia sintomo di una perdita? Della perdita di agire la critica; di criticare, insomma, il pensiero e il reale? Ma senza critica non si esce dal cuore stesso dell’umano? Non diventa, la vita separata dalla critica, una riproduzione del proprio carattere animalesco?
***

Ennio Abate ha detto...

[CONTINUA]

Gunther Anders è stato un implacabile fustigatore dei “silenti”, e non senza ragione. Per esso, il silente è peggio – eticamente, politicamente – del complice che sostiene apertamente, e senza vergogna, i «manager del cinismo», ossia chi determina le forme crudeli del mondo. Il mutismo del silente – la sua indulgenza – non fa che affermare il presupposto che non c’è motivo per criticare o per ribellarsi; non dicendo niente, non partecipando al discorso pubblico, essi semplicemente lasciano che le azioni di chi gestisce il potere accadano. Anche tacere – scrive Anders – è azione.
Si obietterà che parlare è un esercizio futile – tanto più oggi, con il rumore di fondo dei social – e che la critica è impossibile. Ma anche pensare questa futilità o impossibilità è una forma dell’agire: cioè la modalità più consolante di posizionarsi nell’angolo più remoto del reale, quello dove gli avvenimenti sono sì visti, ma con gli occhi di un testimone che non vuole presentarsi in tribunale. Di fronte a questa reticenza, lo stesso Anders non esitò a parlare di «responsabilità collettiva»: nel ripetersi di eventi palesemente tragici, l’atto di tacere ci rende responsabili – politicamente responsabili – dell’orrore.
Anche Hannah Arendt insiste sul concetto di responsabilità collettiva, ossia di una responsabilità politica del soggetto per gli atti compiuti dai membri della sua comunità. Ogni cittadino che vive “passivamente” un contesto e che non esprime o agisce la critica è, benché non direttamente colpevole, in qualche modo responsabile delle scelte che qualcun altro ha compiuto per lui. Considerando che per Arendt l’agire politico è l’intreccio di azione e linguaggio, ed essendo entrambi “uno spazio intersoggettivo”, gli atti del “tacere” e del “non agire” si configurano come una forma del “subire” il reale e le determinazioni di chi controlla le scelte politiche che interagiscono con esso e che lo influenzano.
Il problema – scrive Arendt – non è “morale”, non riguarda l’io, bensì “politico”, riguarda il mondo; e allora l’interrogativo diventa: di fronte a quell’evento tragico, qual è l’impatto del mio comportamento? È meglio, per il singolo, restare in disparte, spogliandosi della possibilità di influire in qualche modo su quella «catena d’atti malvagi» di cui è costituito l’evento, oppure sentirsi parte di una comunità e mettersi in conflitto con il contesto che lo rende possibile? A questa domanda, probabilmente, non è facile rispondere; la stessa Arendt usa una formula dubitativa: «potrebbe risultare alla fine che nessuna norma morale, individuale e personale, di comportamento sia in grado di assolverci dalla nostra responsabilità collettiva».
Quando il fervore del fanatismo, sembra dirci Anders, si impossessa d’una strategia geostorica, il tempo che ci separa dalle imprese sanguinarie è troppo breve per lasciare correre. Insomma, di fronte a eventi tragici (ora Gaza, ieri Siria, Yemen, ecc.), nulla dovrebbe sembrarci più urgente che prendere la parola in pubblico. D’altra parte, seguitando con Arendt, anche nostra è la responsabilità «per cose che non abbiamo fatto», ma di cui siamo testimoni; e «assumerci le conseguenze di atti che non abbiamo compiuto, è il prezzo che dobbiamo pagare per il fatto di vivere sempre le nostre vite, non per conto nostro, ma accanto ad altri, ed è dovuta in fondo al fatto che la facoltà dell’azione – la facoltà politica per eccellenza – può trovare un campo di attuazione solo nelle molte e variegate forme di comunità umana».
[Continua]