di Ennio Abate
Sempre nella logica del Riordinadario, e cioè della ricostruzione del mio percorso (in questo caso in poesia), ripubblico l'editoriale da me scritto nel 2005 per il numero 4 della rivista Il Monte Analogo. Lascio ad eventuali lettori - vecchi o giovani ancora interessati al lavoro poetico - il compito di stabilire il valore del metodo critico da me allora seguito e le analogie o differenze con il dibattito sulla poesia oggi in corso nelle varie "bolle" accademiche o sui social.
Nell’ottobre 2005 Il Monte Analogo ha risposto [qui] assieme ad altre 26 riviste italiane di poesia a un questionario di 13 domande [qui] proposto da L’Ulisse, rivista on line diretta da Broggi, Dentati e Salvi.
Rileggere pazientemente i risultati dell’inchiesta pubblicate sul n. 5-6 della stessa nel sito www.liecollelibri.it permette di rivedere la nostra immagine in una sorta di foto di gruppo, di riflettere sul lavoro d’insieme svolto da un campione significativo di quanti a vario titolo si occupano oggi in Italia di poesia e di avere una percezione della varietà delle ricerche attuali, della complessità dei problemi e anche delle difficoltà di affrontarli.
Vediamo con ordine:
Le dichiarazioni di programma (o di poetica) vanno dal recupero del simbolismo in polemica con le neoavanguardie (es. Anterem, Smerilliana, Atelier) alle aperture socio-antropologiche (es. Atelier, Clessidra, La mosca di Milano, Pagine, Polimnia, Annuario, Le voci della luna); dal ripensamento critico (o storico-critico) dello spazio letterario o poetico (es. Kamen, Il segnale, Hebenon, Tratti) alla volontà di relazionare la poesia con l’extra-letterario, sociale e a volte politico (es. Daemon, La gru, Pagine zero, Re, Semicerchio, Versodove, Nuovi argomenti).
Forti differenze d’impostazione ci sono tra le riviste che danno prevalenza o esclusività alla poesia (ad es. Anterem) o alla critica (ad es. Kamen, Hebenon) e le riviste che non perdono di vista l’extraletterario (neonata, Il Monte Analogo, col suo sottotitolo rivista di poesia e ricerca, forse sta a mezza strada tra i due poli).
Si colgono poi tante altre diversità e sfumature, ricollegabili agli ambiti sociali o istituzionali in cui agiscono i redattori o alla scelta, motivata o meno, dei destinatari: c’è chi si rivolge a un pubblico non specializzato o a lettori-scrittori sentiti loro pari dai redattori e chi opera in ambiti parauniversitari e paraeditoriali o legati ai mass media e a grosse istituzioni (Nuovi argomenti, Re, Semicerchio) che ha col pubblico un rapporto più verticale e gerarchico. Anche la gestione organizzativa - sempre secondo le dichiarazioni e per esemplificare - ha forme varie: collegiale (Il segnale), iperindividualista (Steve), artigianale (Atelier) o professionale (Tratti).
Tra i problemi aperti, spesso comuni a varie riviste, i più ricorrenti sono: la critica all’accademia o alla grande editoria (a volte con accentuazioni esasperate e moralistiche: Atelier, Hebenon, Clessidra); la volontà di misurarsi con la «globalizzazione» per fuoriuscire dall’ambito strettamente nazionale e aprirsi alle letterature straniere o alle cosiddette letterature “minori”; il bisogno di confronto e di dialogo (espresso però in modi enfatici e astratti); l’investimento (spesso poco problematico) sul valore etico della poesia (Atelier, Versodove); la pluralità delle ricerche in corso (a volte sentita come una ricchezza, a volte quasi come una minaccia). Risulta sintomatico che un problema di grande attualità storica, come quello della cultura della differenza impostosi col femminismo, sia dichiarato centrale solo da Voci della luna, appare aggiunto ne Il Segnale, non è presente in modo dichiarato nelle altre riviste.
Alla fine di queste considerazioni viene da porre una questione: anche stavolta, sia pure su un sito del Web molto frequentato (dai poeti!), le riviste sono state per così dire esposte “in vetrina”, ma ciascuna è rimasta nella sua bella celletta. A quando un dialogo non diplomatico, un confronto non cannibalico o settario, ma critico tra loro (o almeno alcune di loro)?
Le questioni dirimenti per uscire da un vago e ormai asfissiante pluralismo di facciata e passare da una sorta di privatizzazione competitiva della ricerca poetica a una messa in comune dell’esperienza plurale che oggi caratterizza quest’epoca (e non solo in poesia) non mancano.
E sarà pur scandaloso ricordarlo a poeti e critici letterari, ma è bene imparare da microbiologi, genetisti e altri scienziati, da tempo convinti che il sapere e l’informazione non vengono prodotti da singoli individui, bensì collettivamente, attraverso la cooperazione; e che quindi la natura sociale e comune della produzione odierna mette in discussione la loro privatizzazione. Questo principio, anche se si fa finta di non accorgersene e troppe sono ancora le resistenze, vale sempre di più anche per la poesia (o, ad essere prudenti, almeno per il lavoro svolto dalle riviste).
Chiediamoci, infatti, perché dei singoli - poeti o critici – tendono a fare rivista. Anche se scetticismo e individualismo sono sempre in agguato e le redazioni funzionano spesso da recinti patriottici o settari, anche quando proclamano volontà di dialogo e aperture all’altro, i singoli oggi accettano sempre più spesso di “fare gruppo” (fare rivista è questo).
Perché “lo spirito del tempo” lo richiede (o, più terra terra, le trasformazioni del lavoro e della società spingono in questa direzione), l’individualismo romantico è acqua passata (molto mitizzata, tra l’altro!) e nel fare rivista i singoli sentono la possibilità di anticipare non qualcosa che li trascende ma che arricchisce la propria singolarità, sempre meno separabile dal resto (chiamatelo come volete: materia, mondo, società, inconscio, moltitudine, altro).
Realisticamente le attuali riviste restano per lo più una palestra (a volte un ring) per poeti e critici. In esse esigenze di singoli, esigenze di gruppo e esigenze del resto si fanno sentire. A volte si arriva a buone mediazioni, a volte esse colluttano malamente. Ma se l’esperienza resiste nel tempo e si diffonde nello spazio, ci sarà - si spera - per i partecipanti un acquisto di saggezza, ci saranno metamorfosi: il singolare si coniugherà col plurale in forme meticce e alla fine – se venti favorevoli spirano portando aria fresca e nuova - l’io sarà meno io (chiuso, narcisista, a tutto tondo) che all’inizio e il noi meno noi (superegoico, rigido, burocratico).
Cosa verrà fuori? Non lo sappiamo. Ma sentiamo che oggi nessuno dei due modelli estremi e a loro modo classici della storia delle riviste novecentesche - quella incentrata sulla forte personalità dell’Autore e quella avanguardistica più o meno collegiale (i futuristi, la neoavanguardia, ecc.) -, pur essendo di tanto in tanto riprese, valgono davvero per questo presente di convulsa transizione (dal moderno al postmoderno per alcuni, di disagio della civiltà senza sbocco rassicurante per altri).
Per
finire. L’analisi della nostra foto di rivista nel gruppo delle
altre c’induce a un sano relativismo, ci stimola a riesaminare
quello che facciamo anche alla luce di cosa fanno le altre, e semmai
a passare dalla foto di gruppo fatta da L’Ulisse
a un fotografarsi e parlarsi reciproco, invece di convivere
diplomaticamente o fingere di non pestarsi i piedi. Sarebbe un bel
passo avanti.
Appendice
Un commento di Cristiana Fischer (7 marzo 2024)
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