lunedì 23 giugno 2025

Ma su quale pero state?

 



di Ennio Abate

Ma su quale pero state?
Vi accorgete di cosa sta succedendo nel “mondo”?
Perché vi nascondete nel fogliame di questi pseudoragionamenti («La Pena coincide con la Cura») e nella vostra ambivalenza (irrisolta) nei confronti della poesia e del mondo?
Perché vorreste “guarire” da soli/e?
Perché dite: «La Poesia non ci salverà» e dopo un po’ vi contraddite e vi esce un: «La poesia e la scrittura sono salvifiche»?
Come fate a sostenere che «La poesia è vita» con tanta morte e tanti morti che serialmente si moltiplicano in tante guerre che pur esse si moltiplicano?
Perché volete preservare il vostro «purgatorio della poesia»?
Sicuri che siete «sospesi su un ponte» e non nella vostra ambivalenza?
Sicuro che la formuletta rimbaudiana «il poeta è veggente» non sia diventata, a forza di ripeterla, uno scongiuro stantio?
Possibile che v’interroghiate sulla “malattia” e vi preoccupiate soltanto che «non si può narrare dunque non diventa arte»?
E che vi incitiate («bisogna vivere molto, stare tra la gente») e non vi accorgiate che la vita la stanno massacrando per tutti/e? E che la “gente” è ormai un surrogato di miti sociali esauriti (polis, popolo, umanità, classe)?


In replica al post su Facebook di: 

Pare che l'amica poeta Valeria Raimondi abbia un'idea diametralmente opposta a quella della poeta Donatella Bisutti ... leggiamo quel che Valeria mi ha fatto pervenire ... lo trovo molto interessante perché è la Vita e non la Poesia che infine trionfa ...
(17 maggio 2017)
La Poesia non ci salverà
Nell’arte, o meglio nell'atto creativo, La Pena coincide con la Cura : la pena è quella che viviamo ed attraversiamo, è nella dimensione dell’essere, nel trascorrere tragicomico degli eventi; la cura nella lucida consapevolezza della follia della vita, che pur non vogliamo rinnegare.
La poesia è vita, ma necessariamente resta un po' ai margini della vita stessa.
La poesia e la scrittura sono salvifiche non come mero sfogo personale, ma in quanto, per loro natura, mostrano un orizzonte più vasto, una dimensione altra che può comprendere e persino salvare dalla follia dell’esistere, ma mai normalizzare.
Perciò io difendo il diritto alla cura, ma anche quello alla "incurabilità".
Si scrive nel mezzo, sospesi su un ponte, intravvedendo la guarigione: non si potrebbe mai più scrivere, una volta attraversato il ponte, perché solo da lì lo sguardo vede, comprende e tiene insieme le due sponde.
Sul ponte sta la sentinella, il poeta che considera e vede. Davvero il poeta è veggente : viaggia pericolosamente dal Di Qua al Di Là, ma conosce la strada.
Nella malattia il dolore è inutile, sterile, non si può narrare dunque non diventa arte, perché la vita, nella malattia, è un surrogato.
Nella guarigione il dolore, come anche l’ispirazione, vengono richiesti in modi e in tempi stabiliti, che non sono quelli dell’arte.
Nel purgatorio della poesia c’è liberazione, il dolore è compreso, ma modulandosi e decantando diventa compatibile con la realtà.
Perciò bisogna vivere molto, stare tra la gente, riempire il ponte di presenze e di colori per poterci restare senza parlare solo di sé stessi.
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Anna Catastini, Mariapia Quintavalla e altri 21
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