"C’è in Fortini l’idea marxista propria del suo tempo secondo cui la poesia deve essere capace di esercitare un ruolo di guida e di educazione dialettica dei lettori di poesia verso i prodotti di poesia nella prospettiva escatologica della lotta di classe". E' possibile ancora oggi pensare alla poesia come la voleva Franco Fortini? E cioè non "aroma spirituale" (per le élites) né "vino dei servi" (per un ceto medio ubriacato dalla società dello spettacolo), ma strumento per "espandere le facoltà critiche dei lettori"? Questo il problema che pone il commento di Linguaglossa a "Neve e faine", un testo che respira ancora in un'epoca di grandi speranze storiche. [E.A.]
Scrive Franco Fortini ne L’ospite ingrato (1966): «La menzogna
corrente dei discorsi sulla poesia è nella omissione integrale o nella
assunzione integrale della sua figura di merce. Intorno ad una minuscola realtà
economica (la produzione e la vendita delle poesie) ruota un’industria molto
più vasta (il lavoro culturale). Dimenticarsene completamente o integrarla
completamente è una medesima operazione. Se il male è nella mercificazione
dell’uomo, la lotta contro quel male non si conduce a colpi di poesia ma con
“martelli reali” (Breton). Ma la poesia alludendo con la propria
presenza-struttura ad un ordine valore possibile-doveroso formula una delle sue
più preziose ipocrisie ossia la
consumazione immaginaria di una figura del possibile-doveroso. Una volta
accettata questa ipocrisia (ambiguità, duplicità) della poesia diventa tanto
più importante smascherare l’altra ipocrisia,
quella che in nome della duplicità organica di qualunque poesia considera
pressoché irrilevante l’ordine organizzativo delle istituzioni letterarie e, in
definitiva, l’ordine economico che le sostiene».