martedì 2 novembre 2010

APPUNTAMENTO
Lab. MOLTINPOESIA
alla Palazzina Liberty
mart. 9 nov. ore 18
Giuseppe Beppe Provenzale racconta Domenico Tempio


Domenico Tempio è uno studioso locale degno di tre o quattro saggi e due tesi di laurea? O un poeta del valore di Parini danneggiato però dalla geografia, dalla storia scritta dai vincitori e infine soffocato dalla lingua? Ai loro tempi Catania e Milano avevano lo stesso numero d’abitanti, la stessa storia di dominazione spagnola alle spalle, un’economia fiorente e la stessa quantità di poveracci. E allora?
La geografia ha posto le due città in bacini d’utenza assai differenti e di differente visibilità.
In un tentativo di correzione della storia scritta  hic et nunc tento di raddrizzarne le sorti. 

Trascurando la elevata produzione di Domenico Tempio, quella illuminista di impegno sociale, ho focalizzato la mia conversazione sulla sua produzione licenziosa. Egli, con notevole coraggio e la maggiore capacità espressiva della lingua siciliana, ha scelto di scandagliare pieghe e abissi di animi che non avevano visibilità nella società civile, né tanto meno voce. Una voce verista anti-litteram che rischia grosso con l’inventio di persone, situazioni e dettagliate descrizioni di particolari fisiologici. Questa voce e la ricercata espressività osano molto, ma  solo per rendere più impressiva e condivisibile la sua rigida morale, scopo celato o palese di ogni suo componimento. Porgo un assaggio con il più comprensibile componimento in toscano, scritto – tutto sommato – con una penna d’oca intinta nell’inchiostro grigio.
Da Il Padre Siccia
(seppia che si nasconde dietro l’inchiostro nero; già la scelta di questo nome è “la morale”)

Oh che follia/ Taci, perché non sai la Teologia./ Questa sì bella usanza /da Sodoma abbruciata fu sodomia chiamata;/ ma perché sia peccato /io non capisco ancor./ Si l’adulterio è tale/ che sia dal ciel punito./ La fede coniugale viene a tradirsi allor./ Sta il gran peccato espresso /nell’accoppiarsi insieme/ diversità di sesso; ma se si sparge il seme /tra l’uomo e l’uomo istesso,/ che non sia permesso/ portami un argomento,/ una ragione, ed io questo cular desio/ discaccerò dal cor.

Un prete pedofilo tenta di traviare un ragazzo, ci riesce ma il teatrino delle parti e l’immoralità dei due è nell’ultimo verso della pantomima: il cazzo entrò sì franco /e tu ti lagni ancor?

Un altro esempio, ma per via della lingua di maggiore difficoltà di comprensione, è la poesia la Monaca dispirata che nei suoi vagheggiamenti da tempesta ormonale brama tanto il pene da essere critica (e assai informata) su quanto ne viene sprecato nelle camerate della caserme dove grossi minchi di surdati/ chi ntra d’iddi lu darreri/si lu pigghianu arraggiati. Sprecato anche nei conventi dove cc inni sunnu/ beddi minchi rancitusi: non havennu nuddu cunnu,/ si la minanu oziusi.
Il coraggio di un linguaggio naturale e forte ha consentito al Tempio di creare libere immagini forti e camei di vite spicciole di persone mai personaggi. Una galleria di defunti senza una targa stradale di marmo né una lapide, eppure hic più viva di qualsiasi astrazione e mappatura geocritica.

Giuseppe Beppe Provenzale





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