domenica 13 marzo 2011

CONTRIBUTI
Ennio Abate
Poesia e vicende libiche.
A partire dalla poesia
di Salvatore Dell'Aquila


Provo a mandare avanti l’esperimento iniziato con la pubblicazione della poesia di Salvatore e ad annodare i fili  dei problemi che colgo nelle varie mail.
Rileggo innanzitutto l’oggetto primo del contendere, la poesia (per me rientra nella categoria!) di Salvatore:

Nei pressi del Giardino degli Aranci
  
Tra intonaci sbiaditi in via di Sant’Alessio
nordafricani e slavi persone dei balcani
sbiadite anch’esse scolorate
giacche troppo sottili per febbraio
o senza giacca avendola scambiata
non per abbecedari ma speranze
di un lavoro avvilente duro
pelli grinzose già sfinite vuote
senza doni da offrire
ai putridi politici italiani
mi sporgo sopra Roma
tento lo sguardo a sud
cerco scirocco
se giunge, dico, la sabbia dei deserti
e piove sull’asfalto
potrò vedere le nuvole d’iprite
inondare la cinta di Bengasi
imparzialmente accendere i polmoni
o le fiamme dei pozzi tanto desiderati
i corpi accartocciarsi come carte al fuoco
vedere e non sentire
sapere e non capire

Mi soffermo qui solo su un elemento, che mi fa giudicare interessante questa poesia: la messa a fuoco onesta e pacata della difficoltà in cui ci troviamo nel rapporto con l’altro da noi. In questi versi dai toni bassi (e quindi inconfondibile con  certi toni gridati di “poesia civile” o “impegnata”) vedo in azione uno sguardo esterno (quello a cui siamo costretti, direi) sui migranti. Esso va da italiani generici ad altrettanto generici «nordafricani e slavi persone dei balcani».
È uno sguardo da cui trapela un accenno di premura, di preoccupazione e di compassione umana, quando si sofferma su un dettaglio: le giacche dei migranti «scolorate» e «troppo sottili» per (il freddo di)  febbraio.
La visione dell’altro da sé resta però invischiata nel proprio mondo (magari memore di povertà passate, quelle degli «intonaci sbiaditi in via di Sant’Alessio» o presenti nella storia di Pinocchio: «o senza giacca avendola scambiata/ non per abbecedari»). Non introduce in quello altrui, dei migranti. Non  si esce dunque dal limite dello sguardo (o di una poesia dello sguardo), potrei dire. Non c’è, non ci può essere forse, dialogo. Anche quando si aggiungono - intuiti - altri  particolari sulla realtà che gli altri vivono: quei migranti fanno « un lavoro avvilente duro» (due aggettivi comunque generici); hanno «pelli grinzose già sfinite vuote».
Siamo,  dunque, pienamente nell’esperienza del quotidiano, dove ormai consueta è questa presenza assente dei migranti arrivati fin qui da noi, ma da noi separati più di quanto siamo noi separati da altri italiani. (Mi sentirei di dire, esagerando: siamo nel piccolo orrore quotidiano, caratterizzato da uno scarto, ormai subito con impotenza, tra noi e loro).
Se allo sguardo sul quotidiano Salvatore, sporgendosi «sopra Roma», tenta di sostituire la forza dell’immaginazione poetica, cercando ansioso qualche segno della tragedia sociale e politica in corso in Libia, nella «sabbia dei deserti», che a volte arriva dall’Africa nei cieli romani, altrettanto impotente è il risultato: il suo “vedere con la mente” (o con l’immaginazione) è  indebolito dal «non sentire»; e quel sapere (che possono dargli e darci i mass media) è un «non capire». Disperatamente, l’altro da noi rimane  altro da noi. Noi rimaniamo noi.  O - ancora una volta esagero -  il nostro orrore “di pace” resta separato dal loro orrore di rivolta o di guerra civile. La sua poesia  a me questo dice.

Sulla discussione  nata da questa poesia aggiungerei:

1. Più che «preconcetta» la critica  di Linguaglossa alla poesia di Dell’Aquila  mi è parsa sbrigativa. Come se Giorgio abbia la testa  presa da altri problemi e non sia riuscito a soffermarsi su questo testo. Capita. Però, è vero, lo liquida, non lo riconosce, non lo ammette nel suo campo d’attenzione e di emozioni: «la composizione (dire poesia è troppo) di Salvatore Dell'Aquila è ingenua». Nella replica onestamente ammette di mirare ad altro: « Per quanto riguarda la mia critica a Dell'Aquila la mia è una riflessione in generale». Ora però, dopo la «critica alla critica» (o al critico) e la difesa della propria poesia da parte di chi l’ha scritta,  io inviterei a pronunciarsi sulla «riflessione in generale» di Linguaglossa. Non mi vanterei come l’anonimo commentatore del blog, dicendo «non ho capito nulla di quanto ha scritto Liguaglossa e me ne trovo abbastanza contento».

2. Nel caso di "Nei pressi del Giardino degli Aranci" io pure – l’ho detto – sono convinto che  non ci sia «una scimmiottatura di partecipazione all'azione che tradisce un'incapacità d'azione e/o una rinuncia all'azione». C’è una tensione poetica, secondo me positiva, verso i drammatici eventi del Maghreb e, in particolare, della Libia. C’è chi in questi giorni li segue ricorrendo a considerazioni politiche o umanitarie. E chi, come Dell’Aquila, mette mano alla pena o al PC e  li accosta poetica-mente. O tenta di farlo. Io direi  prima di tutto: bene. Poi si apra pure il discorso sul risultato.  È poesia, non è poesia, è poesia di bassa, media o alta qualità?  Linguaglossa si è pronunciato. Ha motivato teoricamente (non ideologicamente..) il suo giudizio negativo. Perché, credo, egli ha un’idea precisa della poesia  o della poesia da farsi oggi a Novecento compiuto. Espressa in vari libri e opere, questa idea  va conosciuta e discussa.
3. Assodato, perciò, che la poesia di Salvatore  non sia così ingenua da  volersi « partecipazione all'azione» o si  presti ad una «utilizzazione utilitaristica, scopistica, solipsistica, per uno scopo che è al di fuori» del linguaggio poetico, si tratterebbe di capire:
a) se davvero anche il linguaggio poetico di Salvatore non «arriva da lontano ed è diretto lontano» ;
b) se il linguaggio poetico «per sua stessa natura» si sottragga davvero «ad ogni utilizzazione utilitaristica, scopistica, solipsistica, per uno scopo che è al di fuori di esso».
Io non lo credo. Vedo pratiche poetiche che rientrano in tutte queste tipologie discutibili. E in altre ancora. 
Se davvero  ci fosse tale «natura» (se non immutabile, alquanto “fissa”), che impedisse questi usi del linguaggio poetico – per Linguaglossa degenerati o deformanti; per  altri normali -  i tentativi, secondo me in molti casi apprezzabili e andati a buon esito,  di “afferrare”  tramite  un linguaggio poetico "nuovo"(più duttile, reinventato, aggiornato, ecc.) qualcosa  che sta «al di fuori» del linguaggio stesso (la realtà, la politica,  l’Altro o gli altri, l’inconscio, ecc.), egli avrebbe ragione a condannare certi tentativi, che alla luce di questa verità filosofica risulterebbero “contro natura”. Di conseguenza avrebbe pure ragione a mettere in guardia i poeti dall’occuparsi di certe cose, di certi contenuti, degli eventi libici insomma. Avrebbe ragione a dire: occupatevi di rose o  trattate di rose nelle vostre poesie, alludendo magari al “resto”.  Avrebbe ragione a dire: «chi vuole fare politica la faccia e non perda tempo a scrivere poesie politiche perché farebbe soltanto un cattivo servizio alla politica e alla poesia».  (Parole quasi simili a quelle con cui Leonardo Terzo  bersagliò la mia poesia del 9 gennaio scorso, Cronache di perfomer,  sulle vicende  tunisine).

4)  Linguaglossa  se la sente davvero di assegnare al poeta il  solo compito di parlare « di quello che sa e che fa e che ha fatto durante la giornata presente e passata e trapassata»? (Faccio notare con un po’ d’ironia che, quando poi si ritrova di fronte ai poeti che davvero solo questo fanno, neppure lui li sopporta più di tanto; e gli dà, in molti casi giustamente, dei “minimalisti”!). Oppure di  indurli (al massimo)  a contrastare «idillio» e  «visioni acritiche e contemplative», come fossimo - che so - all’inizio della rivoluzione industriale del Settecento?  Su questo sono in  disaccordo. Mi sento di escludere che, qui tra noi, ci sia qualcuno che vuole «fare del turismo politico-poetico». Sono il primo a prendere le distanze da una certa poesia “civile” o dell’ ”ìmpegno”, che  si sente o vuole passare come azione politica. Non credo però che ci sia una “natura della poesia” da rispettare. O che il poeta non debba misurarsi  (persino  “sporcarsi”) con certi temi anche  schiettamente politici.  Esiste senz’altro (anche per i giovani poeti) un linguaggio  poetico da conoscere e da cui (possibilmente) partire, che si è storicamente costituito (che “viene da lontano”), ma esso   ha le sue «incrostazioni storiche» e può essere  sia base d’appoggio  sia ostacolo. E poi si trasforma col tempo  e non ha quella fissità che mi pare Linguaglossa tende ad attribuirgli.

5. Tito Truglia, invece, aggira nel suo commento un problema oggi cruciale, che Linguaglossa pone chiaramente quando sostiene: o poesia o politica (aut aut che rimanda a uno più antico: o poesia o vita) e tenta una sorta di “compromesso storico” tra le due alternative: «Si potrebbe dire che un testo poetico mira sempre a scatenare una “azione” (e per azione si deve intendere anche un “moto di emozione”, o un “movimento di pensiero”)». In queste affermazioni sento echi delle teorie performative del linguaggio e echi della lezione pasoliniana, che so  cara a lui e alla rivista FAREPOESIA, che nello stesso suo titolo mette assieme i due termini che Linguaglossa  separa. Ci sono molti trabocchetti nella posizione che Tito abbraccia e spero che riusciremo a ragionarci su col tempo anche con il contributo di Linguaglossa. 
6. Un altro problema "tormentoso" raccolgo dalla mail di Tito. È questo: cosa pensare, come giudicarel’invasione di testi scritti  (o letti o recitati) che si vogliono poetici e sono tipici di questo periodo di “democratizzazione” (apparente? reale) di tante cose (compresa la poesia)? Anche su questo punto la posizione di Linguaglossa ha il merito della chiarezza. Egli distingue tra «composizione» (alias «non poesia»; e qui ci rientra di tutto: la poesia sfogo adolescenziale o d’occasione, etc.) e «poesia» (ed è chiaro a chi leggerà i suoi libri quale sia per lui).  Tito mi pare invece combattuto e incerto. Tende, credo, a non guardare in  faccia la contraddizione tra quantità e qualità di questa “proliferazione poetante” (o “moltitudine poetante”). Per averne tante volte discusso nel Laboratorio MOLTINPOESIA  io gli suggerirei maggiore prudenza.  Non si può estremizzare fino a dire che “tutto è poesia” o che “tutti fanno poesia”  appena aprono bocca o  mettono qualcosa per iscritto. A Tito, mi pare, un po’ viene la tentazione di dirlo («Dalle cancellature, alle grafie futuriste, allo spontaneismo operaio, alle allergie fonetiche... Tutto ormai ha dignità di stare nella poesia»). Subito dopo, però, tende ad attenuarea tirando fuori un «dovere di qualità» davvero troppo generico. (Chi poi lo dovrebbe sentire? Il poeta o l’aspirante poeta? Spontaneamente?).  
7) Se davvero tutta la produzione attuale di versi  fosse “poesia” (virgolettiamo per l’incertezza insuperabile del termine quanto mai "ballerino" e problematico) e non si  dovesse, come desidera Tito, « mettere ogni volta in discussione lo status della poesia» (perché questo sarebbe un atteggiamento censorio, illiberale e poco gradito ai “poetanti”), i casi sono due: o davvero è così,  e allora  siamo in un’epoca dove la poesia è bene “di massa” (un po’ come il “surrealismo di massa” di Fortini)  e i critici  devono cambiare mestiere e andarsene a spasso e  ciascun poeta  farà liberamente quello che vuole, stabilendo lui quale sia il proprio «dovere di qualità»; o il problema della poesia/non poesia rientra dalla finestra e si ripropone, magari in un contesto mutato rispetto anche a un recente passato (anni Settanta all’incirca), magari se ci si domanda: quale poesia è più poesia tra tanta “poesia”.
Alla “vecchia” (?) distinzione poesia/non poesia (che era poi un criterio gerarchico di qualità)  si dovrebbe sostituire qualcosa di più valido. Non l'indistinzione, il "tutto fa brodo". Quindi non si sfugge al dilemma. Per analogia: se la democrazia fosse l’utilitaria per “tutti”  o la poesia fosse la scrittura e la mezza pubblicazione per “tutti” (che poi passa inosservata da tutti o quasi), io avrei dubbi sull’uso appropriato sia del termine ‘democrazia’ sia del termine ‘poesia’. Difendere o coccolare «una dimensione occasionale, frammentata, temporanea, gratuita, della poesia» è solo menare il can per l’aia.  Non credo che  si possa evitare il conflitto e la scelta. Non siamo in grado di farla noi? La faranno altri o - come si dice - il Tempo o la Storia. Se - esempio di Tito - Bembo privilegiò «la lirica petrarchesca in opposizione al plurilinguismo di Dante», dobbiamo capire le ragioni storiche che permisero la sua affermazione. Altri, in certi momenti, hanno ribaltato  o tentato di ribaltare quella “preferenza” a favore di Dante. E anche  in questo caso  dobbiamo capire le ragioni. Ma il discorso sarebbe lungo e tronchiamolo qua.


1 commento:

Anonimo ha detto...

Senza entrare tanto nel merito, noto che se una poesia ha scatenato tanti commenti critici vorrà pur dire che non è stata scritta invano e che contiene indubbie e provocanti qualità. La tua nota, Ennio, circa l'osservatore "Non si esce dunque dal limite dello sguardo (o di una poesia dello sguardo)" è smentita dalla seconda parte, a partire da "mi sporgo sopra Roma" in poi. Lì c'è un salto di linguaggio, e non tanto per l'uso dell'io, coinvolto, quanto proprio per il linguaggio che cessa di essere prosaico come invece accade nella prima parte che è descrittiva.
Tuttavia senza questa prima parte, che si potrebbe dire tagli la poesia in due, non si capirebbe il finale che mi sembra sia la dichiarazione onesta del limite doloroso di chi vede le cose da qui, da un altro paese.

mayoor