martedì 7 giugno 2011

CRITICA
Ennio Abate
Samizdat e il poeta esodante
Dialoghetto n.2
Sulla tradizione




In un bar di Via Broletto a Milano


Samizdat –
Mentre venivo in metrò qui da te, mi chiedevo cosa m’avresti detto sulla tradizione. Bye-bye, no?

Il poeta –
Che fretta! Sapendoti, invece, moderno o quasi postmoderno, ho pensato di frenare la tua corsa parlandoti di un saggio di quelli tosti. L’ho letto giorni fa sulla rivista «L’Ospite ingrato» (n.2, nuova serie) del Centro Franco Fortini di Siena. Titolo:Tipologie della modernità ebraica. Autore: Stéphane Mosès. Partirei da qui per la nostra chiacchierata.  

Samizdat –
Pronto ad ascoltarti. Prima dimmi, però, chi è Stéphane Mosès, che non conosco

Il poeta –
Un professore ebreo, nato a Berlino nel 1931, vissuto in Francia, in Marocco, a Gerusalemme; e morto  di recente, nel 2007, a Parigi. Ha studiato tutta la vita le opere di Kafka, Rosenzweig, Scholem, Benjamin, Celan; di scrittori, cioè, che s’interrogarono sui problemi della tradizione. Ovviamente la loro, quella ebraica. Sarebbe sopravvissuta nel mondo moderno? Era definitivamente persa?

Samizdat –
Io, per anticiparti la mia opinione, sono convinto che la modernità sia inarrestabile e distruggerà tutte le tradizioni. Ricordi Goethe, la storiella di Mefistofele che distruggeva la casetta di Filemone e Bauci per fare posto alla torre di osservazione progettata da Faust? Quello era uno dei primi modernizzatori, l’antenato degli immobiliaristi che oggi, per elevare grattacieli, radono al suolo interi quartieri popolari. E Marx aveva capito ancora meglio: col capitalismo «tutto ciò che è solido si dissolve nell'aria». Oggi Zygmunt Bauman parla di «società liquida», ma la sostanza – più distruttiva che costruttiva - è quella. A quali conclusioni è giunto, invece,  il tuo Mosès?

Il poeta –
Dice che di fronte alla «eredità ebraica» (così la chiama), che poi è quella religiosa fissatasi nei grandi libri della cosiddetta Bibbia ebraica, ma anche in altri più antichi (Torah[1], Talmud,[2] Midrash[3]) gli scrittori che ti ho nominato hanno due atteggiamenti: alcuni pensano che essa resta tuttora fonte inesauribile di verità; altri, invece, la ritengono persa nel suo insieme, come uno specchio rotto, di cui però alcuni frammenti si conservano nella modernità e possono essere recuperati. Sono atteggiamenti che valgono anche per la nostra tradizione cristiano-borghese: ci sono quelli che considerano il Vangelo o la poesia di Dante fonti di verità viva e valida; e altri vedono solo rovine (o frammenti, se vuoi). Tra questi ultimi, coi quali simpatizzo, mi vengono in mente, per la tradizione cristiana, Michele Ranchetti, che scrisse un libretto dal titolo ultimativo: Non c’è più religione; e Franco Fortini. Il suo Extrema ratio, una resa dei conti anche con la «Grande Causa» della “tradizione” marxiana, aveva un sottotitolo significativo: «note per un buon uso delle rovine».

Samizdat –
Il mondo moderno smentisce tutte le verità eterne. Io dubito persino che sia possibile recuperare, cioè capire davvero, i frammenti del passato che c sono rimasti. Ci trasmettiamo così poco ormai da una generazione all’altra. Nella scuola, che dovrebbe essere il luogo del riuso delle tradizioni, gli insegnanti stentano sempre più a tenere lucidi  certi monumenti ritenuti eccellenti (Dante, Manzoni, ma mettiamoci pure Galilei, Marx o i “contemporanei” o persino la «tradizione dell’avanguardia»). Nella testa sempre più “liquida” degli studenti, però, resta solo il marchio, spesso poco simpatico, di un sapere obbligato e inerte: una formuletta, una citazione di un verso “famoso”, ma solo per far colpo.

Il poeta –
Non ti do torto. Aggiungerei che questi scrittori, ebrei e tedeschi, siccome vissero di persona la tragedia della modernizzazione nazista, videro prima e meglio di altri  il «filo spezzato della tradizione» (Hanna Arendt) o i sintomi della«malattia della tradizione» (Walter Benjamin). Altro che progresso…

Samizdat –
Se una tradizione non parla più, per me è meglio abbandonarla. Dispiace. È come se ti togliessero il paese in cui sei nato. Ti può restare una sua traccia carbonizzata nella memoria. Ma è difficile passarla a quelli che vengono dopo. Sono presi da altre cose, mossi da altre passioni. Ti ricordi come si consumò Primo Levi nel tentativo disperato di lasciare almeno un segno della tragedia collettiva vissuta ad Auschwitz?

Il poeta –
Mosès fa l’esempio di Kafka. Quanto  penò anche lui per la perdita del mondo dei suoi padri! Riferisce pure che Benjamin s’era chiesto perché nell’opera kafkiana le  figure degli studenti fossero tanto frequenti e che s’era risposto: «sono scolari che hanno smarrito la scrittura». S’intenda: la tradizione.  Anche noi siamo scolari…

Samizdat –
Dai, ti conosco! Fra poco mi dirai che i tuoi moltinpoesia somigliano agli studenti di Kafka! Vorresti immaginarteli, nobilitandoli, come dei volenterosi indagatori di frammenti dello Specchio della Tradizione che si è rotto, eh?

Il poeta –
Sempre cattivista tu! Eppure sbagli a snobbare quelli che resistono e non vogliono disfarsi della tradizione (religiosa o letteraria o poetica o politica). E se non avesse affatto perso senso? Se fosse solo temporaneamente (magari anche per decenni) inaccessibile, ma in futuro ridiventasse decifrabile e persino “utile”? Un amico di Benjamin, Scholem,[4] sosteneva proprio questo: i testi della tradizione ebraica  non hanno affatto perso il loro senso; sono i moderni che non lo intendono più, ma ritorneranno accessibili e comprensibili. Quando? Chissà …

Samizdat –
Si metteva contro la modernizzazione. Come in attesa della sua inevitabile fine? Non del tutto sciocco, l’ammetto. Tutto cambia. Tutto è possibile, forse. La storia è sempre piena di sorprese e trabocchetti. Ma io non mi fiderei troppo di questo desiderio di salvare il passato, il mito. O addirittura di tornare al passato, al mito. Mi pare una posa da reazionari…

Il poeta –
Direi che, sì, tutti questi pensatori e scrittori siano stati antimoderni o non si sono arresi al mito della modernizzazione. Le loro critiche spesso andavano a segno. Prendi il progresso. Col cavolo che la modernità ha mantenuto le sue promesse. E denunciare  i suoi fallimenti non significa per forza essere reazionari o oscurantisti. E poi credi che tutti ‘sti futuristi siano dei rivoluzionari? E che tutti i sedicenti rivoluzionari  lo siano davvero? Le cose sono sempre più complesse. Comunque, Mosès in proposito dice su Kafka una cosa interessante: i suoi racconti, che ad alcuni paiono solo delle parabole religiose di uno con lo sguardo volto al passato, per altri sono semplici segni, non rimandano più ad alcun significato fisso e preciso o ad una dottrina definita o a una tradizione organica e coerente. Sono appunto delle «rovine»…

Samizdat –
Beh, e che ci fai con le rovine? Le contempli, ci rifletti su, ti daranno qualche buona emozione, fanno tanto nostalgia, ma oggi non servono più a nulla…

Il poeta –
Qui ti sbagli. Puoi fare «un buon uso delle rovine» (Fortini). Le rovine possono essere i mattoni di una nuova costruzione. Certo, se le sai usare con grande libertà. Sapere aude! Se non t’impantani nella nostalgia della tradizione da cui provengono. Se non pretendi di ricostruirla, rifondarla, restaurarla quella tradizione (religiosa, politica, poetica). Se non ti lasci intimidire dall’eco degli Spiriti Magni, di cui parlammo la volta scorsa. Possiamo usare le rovine per una nuova costruzione. Che non chiamerei più moderna. Il nome oggi ci manca. Di certo sappiamo che anche il moderno è andato in rovine. E non afferrando cosa avverrà domani o dopodomani, non riuscendo a andare  oltre il moderno, a superarlo (come si diceva una volta), indichiamo quello che accade o sta per accadere con un termine vago e provvisorio: «post-moderno». Lì per ora c’è di tutto. Ciascuno  ci pesca quel che gli pare. E per ora è difficile distinguere il venditore di fumo dal profeta, il ready-made da un’idea originale, la menzogna dalla verità. 

Samizdat –
E in questa Babele tu vorresti cavartela ancora con «un buon uso delle rovine»? Non t’accorgi che tutti si abbandonano alla deriva, indifferenti a tutto: guerre, soprusi, disastri ambientali, follie d’ogni tio? Anche i tuoi coccolati moltinpoesia che fanno? Navigano sul Web e arraffano (se hanno qualche gruzzolo in banca) beni di consumo culturali. Ogni settimana in ogni paesino e in ogni metropoli quanti saranno gli spettacoli, gli “eventi”? Non si contano. L’ha detto bene Slavoj Žižek[5]: siamo tutti edonisti a joiussance obbligatoria e autistica nelle grinfie dei capitalisti «disinvolti», vestiti alla buona, come Bill Gates e i fondatori del gelato «Ben and Jerry». Altro che voglia di Realtà o nostalgia da Angelus novus alla Klee o alla Benjamin! E tu a questa massa di snob cetomedisti vorresti proporre «un buon uso delle rovine»? E quali poi? Quelle della  sagrestia ermetica? quelle degli assemblaggi patchwork delle neoavanguardie, quelle della poesia populista o neorealista?

Il poeta-
Beh, è tardi. Devo tornare a casa. Ho una rovina del Novecento da ristudiare. Riprenderemo il discorso al prossimo incontro…




[1] Thorah, è una parola ebraica che significa insegnamento o legge. Con questo termine si indicano i primi 5 libri del Tanakh, conosciuti anche col nome greco di Pentateuco (pente in greco significa cinque, teuchos significa libro), forse in riferimento al rotolo di pergamena in cui sono scritti.
[2] Diversamente dalla Torah, il Talmud è riconosciuto solo dall'Ebraismo che, assieme ai Midrashim e ad altri testi Rabbinici o mistici noti del Canone ebraico, lo considera come Torah orale rivelata sul monte Sinai a Mosè e trasmessa a voce, di generazione in generazione, fino alla conquista romana. Il Talmud fu fissato per iscritto solo quando, con la distruzione del Secondo Tempio di Gerusalemme, gli ebrei temettero che le basi religiose di Israele potessero sparire.
[3] Nella tradizione rabbinica, midrash designa anzitutto una attività e un metodo di interpretazione della Scrittura che, andando al di là del senso letterale - chiamato peshat o pashut (פשות), semplice, ovvio - scruta il testo in profondità (secondo regole e tecniche proprie) e sotto tutti gli aspetti, per attualizzarlo e adattarlo ai bisogni e alle concezioni delle comunità, e trarne applicazioni pratiche e significati nuovi che sono lontani dall'apparire a prima vista. I risultati di secoli di "ricerca biblica" nelle scuole (beth ha-midrash: cf Sir 51, 23) e nelle sinagoghe, dopo un lunghissimo periodo di trasmissione orale, furono progressivamente messi per scritto per formare le raccolte multiple chiamate midrashim
[4] Gershom Scholem (Berlino, 1897Gerusalemme, 1982) è stato un filosofo, teologo e semitista israeliano, proveniente da una famiglia ebraica di origine tedesca.

5 commenti:

Anonimo ha detto...

La scrittura è già di per se' un'arte intellettuale. E' fatta da segni alfabetici densi di significati. Come dire che sotto lo zampillo di una parola detta per automatismo ci sono nascosti secoli di storia. Eppure, che lo si sappia o meno, siamo tutti ottimi interpreti delle parole e, anche se a volte non ne conosciamo la provenienza, e ci accontentiamo del loro significato, le abbiamo comunque a disposizione.

Suppongo sia questo il merito della tradizione.

mayoor

Anonimo ha detto...

La voglia di trasmettere l'antico, il vecchio , la tradizione, richiedono tempo e passione e quando dico passione dico: commozione, empatia verso chi ci ascolta, ricerca e tanto amore per ciò che si vuol comunicare o tramandare. E' ancora l'uomo l'insostituibile fonte di comunicazione dei sentimenti che portano verso la vera intelligenza e la vera ricerca. Facciamo finta che non sia così, è più comodo.
Malinconicamente saluto Emilia.

Anonimo ha detto...

Interessante, suggestiva e ricca la resa in forma dialogante di un pensiero sulla tradizione e sulla modernità. Fa ricordare la funzione dei dialoghi socratici (allora senza bar e senza metrò).
La tradizione, pertanto, non è solo un 'trasferimento' automatico da un passato al presente, il quale poi, in una visione lineare e progressista si srotolerà nel futuro. Si tratta di prendere l'eredità dei padri e farla propria (quindi, metabolizzarla e trasformarla) come, cito a senso, proponeva Goethe. Essa, però, è anche traduzione, e ogni traduzione si trova davanti al difficile compito dell'entrare in contatto con l'essenza vera dell'oggetto d'origine e nello stesso tempo di tradirlo, traducendolo, perchè se ne rappresenterà soltanto una parte e in un contesto già mutato.
Che ne sarà del resto? Costituirà rovine, pezzi inutilizzati, ma comunque pronti ad altre costruzioni, o soltanto macerie polverose da cui non si può costruire nulla?
Tradizione, traduzione, tradimento: un gran bell'affare!!!

Rita S.

Anonimo ha detto...

Io penso che la nostra cultura sia stratificata; partendo dagli insegnamenti dei Padri ricevuti sin dall'inizio della vita e arricchita da tutti gli insegnamenti ricevuti nel tempo. Dal passato non ci arrivano "rovine" ma pezzi di specchio che arricchiscono il nostro sapere e ci guidano nel nostro cammino "contemporaneo". Anche Dante si era affidato a Virgilio suo Maestro per fare il suo viaggio e creare una lingua nuova direi "moderna" per il suo tempo. Io sono convinta che la tradizione non possiamo cancellarla e non dobbiamo dimenitcarla. Sarebbe un errore.
Luisa

Anonimo ha detto...

Luciana Castellina dice: -anche allora ci piaceva il nuovo ma lottavamo per cambiare, oggi siamo prigionieri del presente.- Emy