lunedì 13 giugno 2011

SCRIVERE AL PRESENTE
Rita Simonitto
Sulla velocità del tempo
e la poesia
come tentativo di presentificare l’assente


A volte, e non solo a volte, la velocità del tempo e degli eventi supera le nostre misere risorse per cui facciamo davvero fatica a starci dietro: dopo pochi giorni ciò che avevamo in animo di dire sembra essere già in via di superamento, nel senso che dell’altro ha preso quel posto.
Proprio in risposta a questa situazione di continuo (anche se a volte apparente) superamento dei fatti, io tento di intervenire utilizzando il dire poetico, ovvero tento di rappresentare attraverso di esso (poi non so con quali risultati) le sensazioni, i ricordi e le riflessioni che mi sono state sollecitate nell’immediato da quel particolare evento. Il quale, a questo punto, cessa di essere delimitato/definito da un nome, o da una situazione ‘precisa’ (a meno che questa stessa non richieda esplicitamente di essere nominata) e si trasforma invece in un personaggio, in una “funzione rappresentativa”. In questo modo, la poesia ricorda a me quel singolo momento e al lettore momenti analoghi in cui si sono verificate quelle specifiche congiunture.
Il problema che si pone, e che è un grosso problema, è quello di riuscire ad esprimere nel particolare una risonanza universale. Credo sia questa una delle funzioni della poesia. Qui rimane lo sforzo della memoria storica personale/collettiva affinchè il tempo che passa non si trasformi in un tempo ormai senza parole. Con tutta la pena che il ricordo comporta quando si rapporta con la luce della verità, ma anche il confronto con l’abuso del ricordo come arroganza o melanconico rifugio. [R.S.]

Illusioni perdute

Immagina che venga giorno, anche se mutevole di sole
e di equilibri stanco e di promesse. E che ogni senso
tenda ancora antiche corde irriconoscibili a dirsi
e sleghi ipotesi di nebbia a pali ormai vetusti.
Sarà il suo essere giorno sufficiente
per colmare lo scarto che incredulo cogli
nel volto rinnegante dell’amico
che ragione ti dà per pura convenienza?

Sarà questa la palese verità
che nel letto solitario non ti scalda l’anima
ma ancor di più stropiccia le lenzuola
per un sapere ormai inutile?

O, ancora una volta,
piegati con cura i giornali dell’oggi
così come quelli di ieri
e telefonato qua e là per accertarti

che  ancora un pensiero
ti accompagni, sia pure nella violenza
del suo darsi, ti sei guardato allo specchio
e non hai visto niente?

Dove il tuo sguardo appassionato
follemente sicuro di appoggiarsi
al declinarsi fecondo della diversità
che vivifica l’anima?

Dove hai riposto le corpose parole,
non flata vocis soltanto,
che scaldavano il cuore
nelle gelide mattine dei picchetti?

Non ci sono più un dove, un tempo, un sogno.
Lavoranti a schiera hanno fatto pulizia con secchiate
di gialla varechina che abrasiva cancella
definizioni, immagini e confini.

Quell’odore ti impregna le narici e giorno e notte
e pulsa nella testa l’acido rumore del morente
che con dita ischeletrite si aggrappa ad un nonnulla
mentre sta dicendo addio a tutto.

Homeless cui non bada nessuno, su te stesso accartocciato,
cerchi di levar le croste ma ogni volta bubbona la ferita.
Rauco il tuo grido saltella qua e là:
 “una bandiera, una bandiera”.

Giugno 2009/Maggio 2011

Rimemorando smemorar

Da me che vuoi sapere, dimmi.

Sai che ho dimenticato i nomi di chi era con me
e assieme a me con altri coltivava il sogno
del pensiero nuovo che sfidava il cielo.
Ho stracciato le pagine delle notti insonni,
turbini tra tediose civette e i fuochi del cuore,
dove si srotolavano i progetti di un vivere diverso.
Per questo oggi all’appello non chiamatemi più.
So che ho già detto “assente” molte volte,
come quando dilatata pupilla solitaria
vi mostravo l’urna/pancia del cavallo acheo,
presi voi nella conta delle schede
pencolanti le case sul bordo della frana
mentre tutti ballano nell’aia.

Oggi, chiusa la partita, la ola ormai lontana,
giocatore spiazzato qui ti siedi e mi poni
inservibili domande solo per affilarti i denti.

31.05.2011

A(s)solo

Ciliegio, hai gemmato anche quest’anno
e fatto fiori che da bianca nuvola
si trasformeranno in rossi frutti.

Non so che farmene di te in questo marzo
che la grigia vergogna scolorisce e non dà
pause di promesse perché sempre più a fondo
ha tagliato i gangli della vita.

Dopo terremoti di uomini, d’acqua e di terra
mi sento senza appartenenze
ma nello stesso tempo
accomunata a forza agli italiani traditori
senza neanche la grandezza astuta di Arlecchino
servitor di due padroni.

Tossico il mio sangue si incrementa di veleni
divoranti come ruggine sul forte sicomoro
“anche tu soffri” gli dico “macerando un verde
non più brillante”.
So che articolo parole senza armonia
mentre aspetto che uno dei dodici bugiardi
ceda il passo alla lancetta e lì si fermi
custode ormai inutile del tempo.

Oh ciliegio, dai giardini di Čechov alle nebbie di Kioto
dove mai porti oggi il tuo inutile splendore?
Nessuno c’è che mi canti una canzone,
che mi trattenga la treccia di capelli,
che mi mostri piccoli sentieri, anche se aspri
poco importa, ma qualcosa di vivo
che sappia di futuro?

27.03.2011


1 commento:

Anonimo ha detto...

Intensa, Rita Simonitto, un'umanità delusa che ancora risplende nel suo animo ,nel suo ciliegio nel suo andare avanti in un'amoralità davanti alla quale soffre. Parole d'amore , di rabbia provocante, stese magnificamente. Grazie Emilia Banfi