Nella nostra mailing list Enzo Giarmoleo ha posto un problema: se uno mette in versi (trascrive più o meno fedelmente) un articolo in prosa, fa poesia? Qui propongo un altro "esperimento": se uno afferra qualcosa di reale dell'altro e ha cognizione del suo dolore e lo scrive "bene", fa della prosa o della poesia?
Proviamo a parlarne a partire da questo pezzo di Luciano Roghi...[E.A.]
Mario è nato e cresciuto nella stessa casa dove ha abitato sino a due giorni prima della morte.
Settantaquattro anni di vita all’interno delle stesse mura, prima con i genitori, e successivamente con l’unico fratello, con il quale da anni non condivideva quasi nulla più . Troppe rabbie immotivate (rancori che nel tempo si erano trasformati in silenzio), avevano diviso inesorabilmente i due.
Un buco alla gola era l’esito di un intervento che Mario aveva subìto molti anni prima a causa dell’insorgenza di una grave malattia. Come un proiettile che in un lampo gli aveva asportato la massa malata e con essa le corde vocali, egli si era ritrovato senza più voce.
Alcune vite, di per sé già silenziose, sembra necessitino per una strana beffa, di un ulteriore mutismo, quasi a suggerire che il loro racconto oltre a non avere importanza, non meriti neppure di compiersi.
Nel suo silenzio Mario aveva proseguito a lavorare, senza mai chiedere niente a nessuno. Aveva continuato a consumare cene a orari differenti dal fratello, si era occupato del giardino coltivando ortaggi, e aveva visto nascere ed eclissarsi gli astri per infiniti anni senza mai pensare alla natura del loro splendore.
L’autunno era sceso ancora una volta nella sua casa. Nella sua abitazione faceva freddo ma lui sembrava non patirlo, nonostante un’altra malattia lo minasse da tempo. In vita sua non aveva mai fumato né bevuto alcolici, ma il male che l’aveva attaccato era tipico del peggiore tabagista e del più accanito etilista.
Un addome gonfio e sproporzionato su un corpo ormai scheletrico gli ostacolava il respiro che era aspro e affannato, obbligandolo dopo aver compiuto il minimo sforzo, a sedersi e riposare.
La cucina era la stanza dove trascorreva tutto il suo tempo. Lì mangiava e dormiva. Il suo pasto lo preparava all’alba per mezzogiorno, ed esso consisteva in una manciata di riso, colorata di salsa.
Il divano era un giaciglio sporco e arruffato da coperte e lenzuola ormai logore.
La casa era piena di polvere, annerita e sudicia come se anch’essa, come il suo abitante, non volesse più raccontarsi.
I balzi di un gatto, che sembrava ancora più sporco di quanto in realtà non fosse, animavano la gelida immobilità dell’alloggio. Mario, quotidianamente preparava la medicazione alla gola; srotolava una benda estratta da un cassetto colmo di robivecchi, e questa, mentre andava a cadere per terra, diventava un giocattolo per il gatto, che, drizzandosi sulle zampe posteriori, si metteva a giocherellare con la garza, sfilacciandola e affondandovi le grinfie.
Gli arredi della stanza erano disseminati di fotografie. Sopra la credenza volti di persone sicuramente amate, o soltanto legate da una lontana parentela, sembravano vegliare su quell’uomo, in un’atmosfera solenne e sarcastica.
Eppure anche quei visi, come gli oggetti domestici abbandonati e spenti, non sembravano convinti di quel compito affettuoso: parevano svogliati nell’ occuparsi di un uomo che stava concludendo i suoi giorni, e che pur essi, mai evocati, non volevano, adesso, essere disturbati.
Cercavo, ma non riuscivo a trovare nulla, che potesse lasciare di quell’uomo, una traccia. Egli era completamente solo. Eppure il suo sorriso e i suoi occhi azzurri, lasciavano trasparire una nobiltà, che, passata inosservata agli altri per un’intera esistenza, si mostrava ai miei occhi, come un tesoro che, nonostante il poco tempo rimasto, andava dissepolto.
Conoscevo Mario solo da pochi giorni e di lui sapevo pochissimo, quasi nulla.
Mi chiedevo com’era possibile andarsene per sempre, lasciando inascoltati i sogni, le aspirazioni, i suoni del pianto e quelli dell’allegria.
Se però, in quel momento mi trovavo in quella casa, avrei potuto osservarne la luce, sentire i rumori che distanziavano lui da me, distanze che forse potevo colmare, condividendole.
Allora cominciai a guardare i luoghi in cui aveva vissuto, aspettando che fossero gli stessi luoghi a suggerirmi il loro passato. Osservai la luce nebbiosa del mattino: un raggio luminoso trafiggeva le persiane e propagava il suo calore sino a quelle pareti fredde e dimenticate. Immaginai, quali sensazioni avesse provato Mario, quando da bambino, in uno stesso giorno nebbioso e altrettanto luminoso, avesse aperto le persiane e si fosse lasciato inondare dal sole.
Cercai di appropriarmi delle sue cose, per poter, silenziosamente, farlo sentire meno solo.
Mario stava male: faticava a camminare, il rantolo del respiro era sempre più opprimente e il torpore che lo coglieva non appena si sdraiava, non lasciavano spazio a soluzioni domiciliari. Ero incerto se lasciarlo nella sua casa, (perché forse questa sarebbe stata la sua scelta) oppure se consigliargli il ricovero in ospedale.
Considerai, però che a casa, non avrebbe avuto nessuno che gli rivolgesse una parola, gli stringesse una mano o gli desse da bere.
Inoltre,il freddo pungente dell’alloggio, aggravava la sua solitudine.
Mario scelse il ricovero. Non chiamai nessuno: non mi piacciono né i curiosi che si accalcano attorno al dolore umano, e che lo usano per esorcizzare il loro, né i soccorritori che con le loro tute, sembrano appartenere più a un set cinematografico che non alla realtà.
Accompagnai Mario in ospedale. Sebbene appena giunti, c’imbattemmo in un operatore dell’ accoglienza che aveva la grazia di un mastino, mi accorsi che Mario era più tranquillo.
Nel congedarci gli dissi che sarei tornato il giorno dopo a trovarlo. Ma non ce l’ho fatta.
Voglio ora credere che qualcuno si sia avvicinato al suo letto e gli abbia parlato. E se anche non fosse andata così, mi conforta l’idea che durante quelle ore, egli fosse avvolto, non dal freddo della sua casa, ma almeno dal calore di una stanza riscaldata.
Luciano Roghi
Marzo 2011
4 commenti:
Caro Luciano, credo che la tua sia una grande metanarrazione nel senso che richiama a molti altri temi importanti quali l'appartenenza, l'interesse per gli altri, specie in una fase in cui domina il pensiero unico.Inoltre il racconto permeato di poesia, è scritto con il giusto distacco senza scadere quindi nel buonismo. Ho provato a togliere le ultime tre righe per sperimentare un altro effetto. Ciao e buon lavoro. Enzo Giarmoleo
Anche qui la vita detta le sue parole. senza buonismo, commossa non mi esprimo e ammiro la grande capacità di Luciano. Ciao Emy
"Allora cominciai a guardare i luoghi in cui aveva vissuto...Cercai di appropriarmi delle sue cose..."
Si tratta dell'espressione più consona del sentimento umano più nobile,l'amore inteso come solidarietà,condivisione.Ma questo è "contenutismo",il tema proposto sarebbe stato quello leggermente più accademico di stabilire la linea di confine tra poesia e non poesia.Mi sa che questa nobilissima classificazione abbia perso un po' di smalto,significativo resta il fatto che una bella prosa si consideri "poetica" e che una brutta poesia spesso la si possa giudicare prosastica.
Alberto Accorsi
Ringrazio Enzo, Emilia e Alberto per i loro commenti.
Luciano
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