Pubblico qui una poesia di Armando Tagliavento, che ho conosciuto come bidello-scrittore all'ITIS Molinari di Milano dove ho insegnato fino al 1998. Tutti i miei tentativi di farlo conoscere negli ambienti dei letterati o di trovare qualche laureando che mi affiancasse nella sistemazione dei suoi numerosi e fluviali scritti sono falliti. Ora che ha superato gli ottanta anni, a mo' di omaggio, tardivo e parziale, per farlo conoscere meglio almeno alla cerchia dei frequentatori di questo blog, aggiungo anche una mia riflessione del 2006 sulla sua scrittura, già pubblicata sul sito POLISCRITTURE. [E.A.]
La Notte di Natale (1982)
E' la notte di Natale.
Va un tale
ad accattare in un bare un cartoccio di sale
per la sua zucca astrale.
Egli s'insacca nella sua mantellina sbrindellata
e ingerisce di volata
i diciassette piani del palazzo in cima al quale
tana. Egli è povero, non ha un cavolo.
Inoltre è detentore di un lercio ceffo sul quale
affiorano rimarcabili caratteristiche da farlo
da tutti reputare un rospo cornuto.
Ebbene, questo figlio di cagna, tutto impettito,
tronfio d'ignoranza e arrotolato in un palltò crivellato
di mozzichi d'incinte mignatte, squarciando lo smog
entra nella fumigosa mescita summentovata.
Egli è avvolto nelle pene nere
del mondo le più megere.
Tiene gli occhi bruciati di pianto
e s'alluma un mozzone di sigarro raccattato
perterra fuori dal bare
ai piedi della soglia di pietra di Trani.
E' la notte di Natale
e sotto i suoi fracichi, sporadici denti,
da vetusto tempo costui non mascica un tubo.
Soltanto ogni tanto ei getta i suoi occhi abbottati
di debiti nel ventre della vetrina
di una tavola calda, mirando, traverso
la lastra vetrosa, gli altri le coscie dei polli
sbranare, bicchieri ricolmi di sangue di vite
trincare, e leccarsi le dita cosparse di vermiglia
vernice di caviale.
E' la notte di Natale.
L'individuo se ne va piangendo il male
che tiene all'addome, e d'allora
non mangia, e soffre dolori di fame.
Nel bare si stiracchia, appoggia le spalle
aggobbite al termosifone
e gode un po’ di calduccio ghisoso, e un languore
gli bazzuca nel cuore dardi scagliati
da un arco baleno d'amore.
Egli guarda, adesso, le facce sgualdrine
dei giocatori di tressette, e il mozzone toscano
gli brucicchia le labbra spaccate,
tinte di morte.
Lo rimira ognora nel bare la gente
e lui pensa: "E' la notte di Natale
e il tossicoso locale
mi guarda cogli occhi alcolini."
Egli se ne frega; si muove, si raggomitola
rannicchiosamente raggomitolato sul peccoso bancone
e col suo brutto muso di cane barbone
tracanna un ponce. .
Appresso si sbavacchia la bocca fetente di trinciato forte
colla manica lurcia del suo malnato cappotto .
e sfodera a sorte
dalla saccoccia delle sue brache stinte e rattoppate
cento lire ammaccate.
E ammicca al barmanne se dentro
quel bare ci fosse un juke-box da suonare.
"Bighellone abbuffato di pidocchi maledetti!
- gli sparacchiano a musincinti gli avventori
e la racchietta mogliettina del gestore -
Il suonatore a bottoni eccolo là!
Non ci vedi? Sei strabbicco, cieco o baccalà?"
La gente del bare l'attornia, lo vuole scannare.
Menomale!
E' la notte di Natale.
E il mandrillo mugola: ”Ma come, siete stati voi a dirmi
che quel coso là non è affatto un juke-box, bensì una cucina
a gas, allora cos’aspettate?
Su, datemi un pentolino e un ovo, ho fame!
Io colle mie cento lire volevo suonare delle canzoni!
Magari! - pensava il gringo fra sé e sé - un ovo di struzzo
scapolo al tegamino, sarebbe buono, oppure una braciola
di maiale."
E’ la notte di Natale.
Gli avventori del bare, scocciati del parlo del tale,
se ne stanno andando, quando
egli mormora: “Ma si può sapere checcazzo di mescita
è questa, che non possiede neppure un tegamino nel quale
poter cucinare quel gatto soriano
che viene adesso di qua, o qualche microsolco suonare?"
Gli scagnozzi giocosi, snudandosi fuori dal bare,
se ne vanno, quando uno chiama un altro: "Andiamocene, Peppe!
Non lo vedi? E' stato sempre così scemo e ignorante quellolà! "
E la folla, noncurante, se ne va.
E' festa.
Il tipo accatta il sale per la sua testa.
Sbocca dal locale
e, gridando, se ne va appazzato nell'interno del viale.
E' la notte di Natale.
Ei corre col cuore schiacciato nel focolaio dell'ariaccia
smogosa. Si porta dal giornalaio
e chiede un panino imbottito.
"Signore, ma lei forse è ammattito?
- gli spara l'edicoloso - E' la notte di Natale,
non posso darle, barbone, che un giornale."
Eppoi all'illuso lo vede un bambino,
che gli fa una pernacchia e gli dice: "Cretino!"
E' umiliato il tale.
"Ma questo zozzo mandrillo è proprio un deficente?"
pensa un mercenario della Polizia Stradale.
E' la notte di Natale.
Egli si diparte colle spalle gelate
e chiappa un tassì provinciale.
Mentre l'illuso non fa altro che granfare il tram
che va alla Previdenza Sociale.
E' la notte di Natale.
Il criminale azzecca ansimante i diciassette
piani del palazzo sul quale tana.
Ma non piglia l'ascensore.
Forse ha perduto la chiave,
o che non paga la pigione quell'essere astrale?
E' la notte di Natale.
Ha le labbra screpolate di voraggini di fame,
quel brutto muso di cane.
Questo tale
lo si chiappa sempre nelmentre si stende
come una maledetta scolopendra
o un porcello di Santantonio sotto il ponte
ove egli effettivamente cova il suo odio
come un serpente velenato,
il fetentone, il megalomane nato.
Cionondimanco si trova adesso sul grattacielo
e guarda dabbasso la rapa dell'animale
e le cappotte di metallo addebbitate
che scorazzano sopra la cambiale.
E' la notte di Natale.
Ridacchia come un Belzebù questo figlio di varana.
Si fabbrica una cerbottana,
colla quale,
dopo aver abbussolettate le bollette non saldate,
le bazzuca sul peccato ch'è dabbasso
e ridacchia come un Drakula.
Soffoca, sventra l'apertura della gelosìa,
ammocca la testa matta dalla bocca della casa
e scorge sulla strada il mercatante che viene a scannarlo
e a sequestrarlo corre il mobiliere
e l'altro usciere azzecca a bazzucarlo,
solo perché il tale
non pagava la cambiale.
E' la notte di Natale.
Si catenaccia nella sala capita1ista di polvere
e ragnatele
e sullo storpio tavolino traccia un (O) con un bicchiere
di vino e scribacchia sciocche poesie.
Adesso a1luca, grida ei come un disgraziatone
e violentemente molla tutto quanto giù dal finestrone
sino a riempire di elettrodomestici e di mobilio
tutto il mondo,
questo tale,
questo idiota, questo cane vagabondo.
Il tipo ha uccisi tutti,
dimodoché persona più protesta,
e solamente lui al mondo resta
a gettare gli occhi sul viale
alla notte di Natale.
Egli sta nel bare a piangere tristezza e miseria
vicino al juke-box, e ode il disco (Lo Straniero).
Finalmente muore il tale
cadendo col capo sul davanzale
e accattando il sale
per la notte di Natale.
Dentro l’immigratorio italiano.
Introduzione alle scritture di Armando Tagliavento (Hermann) con intervista.
di Ennio Abate
Ieri sono andato a far visita ad Armando Tagliavento. Per me è rimasto il bidello-scrittore, anche se ora è in pensione e nella vita (Armando è nato nel 1930) prima di “ficcarsi nella scuola” ha fatto il manovale, il fattorino, il disoccupato, il capomastro. Stava per diventare persino capufficio di una ditta di materiali edili ed ha sfiorato una carriera di scrittore di professione. Infatti, quando negli anni Settanta la cultura italiana ebbe un ritorno di fiamma populista-neorealista (ricordo la letteratura “operaia”: Brugnaro, Guerrazzi, la rivista Abiti-lavoro...), Tagliavento ottenne un effimero successo come narratore: nel 1973 Feltrinelli gli pubblicò nella collana dei Franchi narratori (patron Goffredo Fofi, che firmò la prefazione) un romanzo, Tra fascisti e germanesi. Vi narrava - con brio, spudoratezza e crudezze macabre quasi malapartiane - le sue avventure per sopravvivere durante gli scontri che insanguinarono l'Italia fra il '43 e la liberazione.
Io l'ho conosciuto più tardi, negli anni Ottanta, all’istituto tecnico Molinari di Milano, dove appunto era bidello. L’ondata del ’68-’69, che aveva sollevato la sua esistenza assieme a quella di tanti fino alla ribalta massmediale, era da tempo esaurita e tutte quelle speranze rivoluzionarie, studentesche e operaie, affondavano nel mondo dei vinti metropolitani.
Tagliavento passava la giornata al suo tavolino, in fondo a uno dei corridoi a lui assegnato. Leggeva o scriveva appena possibile, intrattenendosi a chiacchierare ogni tanto con gli studenti, per i quali era ancora un mito, e con qualcuno dei pochi insegnanti che lo coccolavano, l'occhio marpione pronto a scattare su studentesse e insegnanti bellocce.
Era malvisto da molti perché, chissà da quando, aveva preso a bere di brutto, creando malumori e allarme. Qualcuno si mosse per farlo licenziare. Feci un cartello, interessai quel che restava del sindacato nella scuola e un'amica dottoressa, che lo spalleggiò nella visita di controllo all'ospedale militare di Baggio a cui l'avevano costretto. Rimase in servizio e arrivò alla pensione forse grazie a quella mobilitazione o forse per un sussulto di tolleranza della preside. Non senza passare però per Villa Turro, dove a suon di psichiatria - non credo basagliana - lo tirarono fuori dal suo alcoolismo cronicizzato.
Suo confidente “letterario” in quegli anni, lessi e gli commentai parte della sua incessante, fluviale e torbida produzione di scritture, convincendomi sia del suo valore sia della difficoltà di trovare lettori che non si arrestassero di fronte alla sua foga espressionistica, barocca, persino kitsch, alla monotonia dei temi (in prevalenza porno-erotici), alle ripetitive e capricciose architetture narrative, alle trasgressioni ortografiche.
Per far risaltare il buono di quelle pagine, gli avevo suggerito (e ancora oggi lo faccio) di potarle da ridondanze ed eccessi, ma Tagliavento non mi ha dato mai ascolto: rivendica gelosamente il “suo” linguaggio, il “suo” stile e continua a giudicare un oltraggio qualsiasi aggiustamento o ripensamento. Preferisce pescare liberamente, anche arbitrariamente, sia nei bassifondi linguistici sia nelle limpide acque dei classici. Non crede al confronto, ma all’ispirazione, alla genialità o - detto senza moralismo e sprezzo -, alla follia inventiva. Don Chisciotte è davvero il suo modello: aristocratico, d’altri tempi o fuori dal tempo.
Ma come sono queste sue strabordanti scritture? Esse presentano un lato onirico, visionario, sublimante e un lato ossessivamente vitalistico. Nascono da un immaginario fortemente maschile (e maschilista). Poggiando su una base autobiografica alla quale mai ha rinunciato e che anzi continua a coltivare nella memoria, Tagliavento porta alla luce immagini arcaiche ed elementari fortemente mitizzate, senza preoccuparsi della successione logico-temporale. E si è costruito un gusto letterario delimitato ma sicuro attraverso letture di opere della tradizione colta, popolare e di massa. Da autodidatta, in modo disordinato ma quasi eroico, specie se si pensi alle condizioni di partenza e agli ambienti in cui è vissuto quasi sempre impermeabili al richiamo dei libri.
Nelle sue pagine ha macinato dati delle sue esperienze con echi soprattutto di Gadda (a livello linguistico), Pasolini (per la tematica “sottoproletaria” e cruda), dei grandi romanzi (soprattutto Cervantes, Hugo e Manzoni per gli aspetti più visionari e tragici) e con altre influenze grottesco-populiste, realistiche, fantapolitiche o allegoriche, riferibili alla vasta gamma che va dai romanzi d’appendice ottocenteschi fino ai fumetti e al cinema di Totò. Ha succhiato cioè cultura dove poteva e l’ha rielaborata in quello che lui stesso, in questa intervista, chiama un «pot-pourri» (postmoderno potremmo aggiungere).
Sarebbe interessante, da un punto di vista storico-antropologico-sociale e non solo letterario, capire come forme culturali così eterogenee siano filtrate in uno che ha scritto da outsider e alle prese con problemi materiali elementari di sopravvivenza e in contatto diretto con le fasce sociali più escluse. Le sue testimonianze di vita avrebbero potuto ben figurare tra le voci che Danilo Montaldi e Franco Alasia raccolsero attorno al 1960 in Milano, Corea fra gli immigrati presi nel vortice delle trasformazioni dell’Italia dal dopoguerra al boom economico.
Da quel coro di “subalterni” però Tagliavento in parte si distacca, proprio perché accanito scrittore in proprio più che testimone orale. Nei fondali delle sue poesie e dei suoi romanzi s’incontrano, sì, squarci di vita di famiglie contadine e sottoproletarie, di caserma o di ambienti malavitosi, cioè di un tessuto sociale messo in subbuglio dal grande esodo verso l’industrializzazione. Però, lontano da ogni rappresentazione realistica, egli accentua nei personaggi estratti dai suoi incontri “dal vero” aspetti grotteschi, orrorifici o stregoneschi. Fino a spingersi nel fiabesco, presentandoci eroi litigiosi e spacconi, animali parlanti e protettivi, terribili mostri e draghi, principesse bellissime e sfuggenti oppure battaglie ripetute fino all’esaurimento da poema ariostesco o paesi utopici calcati su Eldoradi alla Voltaire.
Tagliavento ci mostra i sussulti dell’immaginario di un migrante d’origini povere e contadine alle prese con il miraggio metropolitano. E soprattutto quello erotico-sessuale dei migranti maschi, di cui ha parlato Tahar Ben Jelloun[1] in Le pareti della solitudine, ricordando come in fondo ai loro deliri ci sia «quella donna sognata che, anche se è soltanto un’immagine sulla carta patinata di una rivista», parla e tiene compagnia, alleviando e tenendo aperta una «ferita».
Quest’immagine di donna – reale e immaginaria – è onnipresente nei romanzi e nelle poesie di Tagliavento. I bei corpi femminili suscitano nel protagonista maschile una voglia ossessiva di possederli e peripezie tragicomiche. E in genere tutte le figure maschili, per lo più tratteggiate approssimativamente sotto l’aspetto fisico e morale, hanno per così dire una vita in pubblico ridotta, perché sempre intente a prepararsi al rituale della seduzione e del coito.
Il narratore, quando arriva a descriverlo, molto liricizzando il goloso godimento dei corpi, fa esplodere tutta una sensualità orgiastica, sadica, maschilista, ricorrendo ad una batteria inesauribile di aggettivi, iperboli, neologismi, termini bassi popolareschi o dialettali. Sia per le immagini che per il lessico Tagliavento qui oscilla (ecco l’elemento novecentesco) fra dannunzianesimo e pasolinismo da una parte e fiabesco e sublimante dall’altra (ecco l’elemento arcaico, popolare). E in più si presenta come un Gadda plebeo soprattutto per la scelta di termini sbilenchi o strapazzati, arcaismi o chicche che, non potendo essere dotte, sono involontaria parodia del linguaggio letterario aulico.
Il piacere non è però paganamente goduto dai suoi maschili cacciatori. L’atto sessuale pur così ambito è giudicato una «porcheria» peccaminosa, una pericolosa ruberia da ladri e viene animalizzato o spiegato come oscura azione demonica che sottomette tutti: vecchi e giovani, preti e laici.
A fare le spese dell’oscuro conflitto che accompagna questa ricerca del piacere però sono soprattutto le figure femminili, ricondotte tranne qualche eccezione allo stereotipo popolaresco della femmina-vacca. Il protagonista maschile paga invece il suo pedaggio diventando preda di sensi di colpa, che lo portano alla fuga, a ravvedimenti improvvisi, moralistici e improbabili, alla morte.
Malgrado parecchie scene sembrino boccaccesche (lo sono secondo me solo a livello della descrizione dei comportamenti esteriori) manca l’indifferenza di Boccaccio verso la morale ufficiale o la comicità e la schiettezza di un Rabelais verso i bisogni materiali e sessuali dei corpi. Tagliavento si dibatte tra un erotismo sognante (a livello del profondo tutto iscritto nell’orbita del materno e del bisogno di protezione o accoglienza) e moralismo ideologico di marca cattolica.
In quel che gli resta di vita pubblica, il protagonista delle scritture di Tagliavento è invariabilmente eroe picaro, astuto e un po’ furfante. Va contro tutti ed è sottoposto a continue prove per uscire dal suo isolamento. Quando gli capita poi d’ottenere l’agognato riconoscimento del suo valore, finisce però per rifiutarlo, per ricominciare il suo vagabondaggio fino all’annullamento-punizione finale.
A differenza infatti degli eroi delle fiabe, che sono unitari e vincitori, quello dei romanzi di Tagliavento è scisso: ora inerme e vittima, ora spaccatutto e giustiziere; ma comunque soccombente ai suoi innumerevoli nemici, che però sono controfigure o emanazioni diaboliche di qualcosa di oscuro e ostile: il Destino.
Le peripezie che questo impone vengono raccontate attraverso passaggi bruschi e poco motivati o troppo convenzionalmente giustificati. Il narratore inserisce così nel tessuto fiabesco più tradizionale, in apparenza ingenuo e sotto sotto orrido - stravolgendolo dunque - tremori e angosce esistenziali novecentesche. E così la storicità contraddittoria ritorna in evidenza: Tagliavento partecipa a suo modo delle acquisizioni raffinate della letteratura alta e nel contempo non ha mai abbandonato la tradizione popolare e fiabesca del C’era una volta.
Egli ha tentato altre volte, dopo il primo insperato successo, di pubblicare. Ma, trovate chiuse, anche per il clima culturale mutato, le porte dell'editoria che conta, l’ha fatto qualche volta a sue spese, vendendo («come uno straccivendolo», dice sua moglie, una proletaria casalinga che gli bada da una vita lavorando da sarta) fra amici e conoscenti qualche copia dei suoi romanzi. Forse anche per una orgogliosa e autodifensiva autosufficienza, romanzi e poesie da lui scritti sono in gran parte inediti. Ed egli ora ha quasi rinunciato a farli leggere, impegnandosi testardamente a continuare a scrivere, senza neppure più aspettarsi un qualche risarcimento.
Potrebbe essere scambiato per un semplice grafomane. Non lo è. A me le sue scritture sembrano notevoli soprattutto per il gusto immediato e bizzarro nella scelta delle parole, nelle rincorse etimologiche e analogiche, nell’attenzione alle assonanze. Sono poi un esempio di letteratura prodotta in quelle condizioni di vita marginalizzate in cui si trova tuttora una buona parte dell'ex-proletariato da cui è venuta fuori l’odierna figura dei lavoratori più istruiti e dei precari laureati.
Quanti tra loro (e penso in particolare ai nuovi immigrati) vanno oggi producendo i loro racconti e fossero in grado di sentirsi vicini ad esponenti di quelle classi sconfitte che li hanno preceduti potrebbero trovare nelle scritture "selvagge" di Tagliavento un loro antenato.
Intervista ad Armando Tagliavento di E.A.
Quand’è che hai cominciato a scrivere?
Il discorso di scrivere è una cosa che nella mia vita salta, zompa, balugina. Non è una cosa che mi sono prefisso. Comunque cominciò a Fondi nella zona della Ciociaria, dove sono nato, con la figlia del maestro Spirito. Avevo sei anni circa e doveva venire Mussolini o un federale, che si chiamava Amato (mi pare), a inaugurare una colonia. Mi disse: Armà, scrivi una poesia. E allora io scrissi: Viva viva il nostro duce / che con sé porta la luce / e viva il federale Amato / che di gioia ci ha colmato. Poi a una diecina d’anni cominciai a andare appresso alle cugine e allora scrissi una poesia che cominciava così: Saltano macchie, siepi e rupi / per sfamare i loro lupi /quando è notte e tutto tace / coi begli occhi di fornace / vanno in cerca del lungo bruco / eccetera. Non ricordo più bene.
Tu che scuola hai fatto?
A Fondi avevo fatto la seconda e la terza elementare. Andavamo da un certo frate che c’insegnava a leggere e scrivere. Si chiamava padre Giacomo. Poi non ci andammo più perché dovevamo pagarlo. Poi è venuta la guerra. E quand’è finita il paese è tutto un mucchio di polvere. Tutto bruciato, polverizzato. Non s’è trovato più un documento. Niente. Fondi è stata incenerita proprio. Ci rifugiammo nella chiesa di S. Francesco vicina al monastero. Ciascuno si arrangiava alla meglio. Poi è morta mamma. Mio padre è un essere umano che meriterebbe di essere ucciso mille volte. Prima di tutto ha caricato mamma di figli: mia madre a 33 anni ha fatto 12-13 figli. Ne sono sopravvissuti 8. Appena arrivati gli americani, noi per due o tre giorni andavamo per il paese rovistando per trovare qualcosa da mangiare. Un giorno zia Santina, la moglie di un fratello di mamma buon’anima, ci ha detto: Guarda Armà, noi usciamo. Mi raccomando Antoniuccio. Qui c’è una bottiglietta col biberon. Ogni tanto ci date da bere. Il fratellino, di cui non abbiamo neppure una foto, dormiva dentro un tiretto del comò. Quello era il lettino suo. Noi ragazzi per andare in giro - mangiucchia di qua, rubacchia di là - l’abbiamo dimenticato. Quando siamo tornati, stava morendo.
La guerra tu l’hai vissuta da vicino, vero?
Cavolo. Da una fessura tra le rocce ho visto i marocchini violentare le donne. Uno di loro portava dei campanelli. Faceva un gesto così e si riunivano. Quando siamo sfollati, ci siamo andati a rfugiare per quasi un anno in cima al Cocoruzzo e abbiamo abitato dentro la capanna, dove c’erano prima i somari di Angellella Franco, la padrona di quel pezzo di montagna, questa ciociara. Più sopra ancora c’era la Crocetta di Campo di Mele, un altro paesetto. Si chiamava così perché era un incrocio. Lì c’era Elvira, che veniva sempre a vendere i fichi a Fondi. Era tutto un incrocio di montagne, di vallate. Noi ragazzi ci mettevamo sulle soglie delle capanne, che erano fatte di pietre con il tetto di paglia. Ci mettevamo a vedere gli aerei che sfrecciavano nella vallata di Fondi e quasi rasentavano le nostre capanne. Per noi era un divertimento. Sotto, dove c’erano sette sorgive d’acqua, non potevamo scendere. Qualche volta gli aerei per venire a bombardare si schiantavano vicino alle rocce. Avranno scaricato più di mille bombe. Noi le chiamavamo fasuleglie, cioè fagiolini. Se uno volesse.. Io potrei scrivere ancora un altro libro intero sulla guerra.
Hai notato un cambiamento tra il periodo di prima e quello di dopo la guerra? Tu, la tua famiglia avevate simpatia per i fascisti o no ?
Uno non ci pensava neanche. Eravamo tutti fascisti allora. Dicevamo: Churchille, Churcillone/ se ci esce l’America/ ci pensa il Giappone. Dei comunisti niente, noi ragazzi non sapevamo niente. Io so solo che il primo partito che hanno fatto a Fondi era la Lista Castello, perché c’è il Maschio come a Napoli, più piccolo però. Erano fascisti e democristiani insieme. Io a Latina ho fatto due nottate dentro perché, per avere un pezzo di pane, insieme ad altri ragazzi vendevo senz’autorizzazione L’Unità, Rinascita, Noi donne. Da piccolo uno che capisce? Tu sei povero, hai bisogno di un posto di lavoro, di un letto caldo. Hai bisogno di una mamma. Noi non avevamo più niente.
Poi ti sei avvicinato ai comunisti fino a prendere la tessera? Perché?
Sì, io presi la prima tessera, quella della Fgci. Me l’ha firmata Berlinguer. Lo feci per avere un’esistenza, un’identità. Io non potevo mai essere democristiano, perché ero figlio di poveri. E vedevo i comunisti vicini ai poveri. Io non avevo casa, non avevo niente. Papà aveva una casa che aveva pagato 75 lire. Ci hanno buttato tre bombe sopra. C’era disoccupazione. Tutti erano disperati. A Fondi ci abbiamo la scalinata Santa Maria. E lì si mettevano i disoccupati. Allora tu sei esasperato contro qualsiasi forma di ricchezza. Vedessi l’arroganza di certi padroni bastardi. Cominciai a andare ai comizi, ai cortei. Dai comunisti più che un aiuto mi aspettavo una giustizia. Il lavoro per tutti, ad esempio. E poi l’amicizia.
Ma la tua famiglia era fascista o no?
Mio padre era analfabeta. Anche lui era un opportunista. Mi diceva: nella vostra vita non fatevi mai le tessere. Era fascista, ma la tessera io non ce l’ho mai vista. Aveva un’idea e basta. Papà era crudele. Gli uomini di prima erano tutti come lui: un bicchiere di vino, la zappa. Però è stato in Germania. C’era andato col sindacato fascista. Ha lavorato sulla Bahn’hof, sulla ferrovia tedesca. Non poteva più tornarsene e se ne scappò. Lì ha imparato la lingua. Lui a cinema non c’è mai stato. E s’arrabbiava con chi ci andava. Diceva: vai a cinema a vedere le stesse cose che fai tu? Sono soldi sprecati. La mia era una famiglia di poveracci. Mamma sempre un po’ malaticcia. E ‘sto lazzarone e disgraziato di mio padre. Far fare a una donna tutti quei figli!
Dopo la guerra che cosa hai fatto?
Ho vissuto 8 anni a Roma. Vi scappai con mio fratello Enio, un mezzo delinquente, uno scapestrato. Prima si è messo coi partigiani, poi coi tedeschi, poi per soldi si era messo con gli americani per andare a cercare i tedeschi. A Roma è andato ad attaccare i manifesti al Vaticano e lo hanno sbattuto dentro a Regina Coeli per un paio di mesi. Era amico del Gobbo del Quarticciolo, che era contro la legge. Non uccideva. Rubava per mangiare. Era un giustiziere. Aiutava i poveri e perciò alcuni lo chiamavano Zorro. Quando uno non aveva il lavoro, lui andava e diceva: se non dai il lavoro a questo, io ti faccio fuori. Nella banda c’era lui, poi c’era Pezzancule, Pisciasotte, che l’avevano operato male e si pisciava sempre addosso. Ci faceva parte anche mio fratello Enio. Un regista francese ci ha fatto anche un film su tutta questa storia. In quel periodo lì io ero guaglione. C’avevamo una fame. Noi stavamo con zio Michele, figlio del patrigno di mio padre, che era impiegato all’assistenza postbellica. Lui ogni tanto prendeva in casa un nipote. Lo svezzava lì. E così ha fatto con Enio. Poi con me e man mano con altri. Poi io ho preso a leggere di tutto. Salgari, ad esempio. Poi ho letto Atte, la liberta di Nerone e mi sono innamorato follemente del latino. Sono sempre stato innamorato della roba antica.
Come ti procuravi i libri?
Chiedevo ai vecchi. A quei tempi là si andava in giro a raccogliere le cicche e poi le davamo ai vecchietti di Piazza del Popolo. Roma io la conosco a millimetri perché l’ho girata per tanti anni. I libri li chiedevo a chiunque. Ci avevo una faccia tosta. Facevo amicizia con uno, con un altro. Andavo a portare la varechina nelle case. Parlavo. Guagliò, di dove sei? Ero già piazzato. Avevo 14 anni ed ero molto bello e sempre a caccia di donne.
Quali libri hai letto? Quali ti hanno appassionato?
A me piace soprattutto il Don Chisciotte. Lo leggerei due volte l’anno. Tutto ho letto.
Beh, dimmi di cos’è fatto ‘sto ‘tutto’…
I promessi sposi li ho letti quattro volte. Don Chisciotte della Mancia l’ho letto in italiano e in spagnolo. Il tuo ex collega del Molinari, Merisio, lui mi ha portato il Don Chisciotte in spagnolo. Ho letto quasi tutto. Ad esempio I fratelli Karamazov di Dostoewskij. Poi il Dictionnaire philosophique di Voltaire in francese, che adesso sto leggendo un’altra volta. Poi ho letto per 4 anni la Bibbia. Lì è un macello, un marasma. Ci sono tanti personaggi. È meravigliosa per questo. A me piace molto l’immagine dei contadini che stanno tirando l’acqua dal pozzo, quando arriva Mosè. Va letta tutta la vita. E anche se la leggessi per mille anni, la leggerei sempre come un ameno libro di lettura. Non come un libro sacro. Ho letto tanto in francese. A me piaceva Notre Dame di Hugo, cose toste. Poi Madame Bovary di Flaubert, Balzac, Zola, Baudelaire.In italiano di Dante so dei canti a memoria. Ho letto pure I Malavoglia, Mastro don Gesualdo, il Decamerone. Poi ho studiato inglese e anche qualche po’ di russo. Le lingue mi sono sempre piaciute, perché mio padre è stato in Germania più di vent’anni e quando veniva, gli chiedevo di portarmi una grammatica. Sono stato sempre un po’ esaltato dalla lingua tedesca. Stern l’ho letta per tantissimi anni. Il tedesco l’ho portato avanti fino adesso. E in Germania ci sono andato d’estate per vacanze. Mi stavano quasi prendendo al porto a fare l’interprete di tre lingue e mi davano 6 milioni al mese. Però c’erano i bambini [figli], dovevo lasciare tutto. Ho letto pure Umberto Eco. M’ha scandalizzato. Dice più Fontamara. Cristo si è fermato ad Eboli mi dice mille volte più di Eco. E poi più leggevi e più approfondivi. Qualsiasi cosa. Cominci una frase e subito viene una rima. È come se ci fosse un dialogo. Poi come giornali leggo Settimana enigmistica, sempre quella. Sono settant’anni. Prima si chiamava NET, Nuova Enigmistica Tascabile. Io quando prendo le parole crociate, guarda qua… Io tutta la vita avrei dovuto farlo questo, ogni settimana: ritaglio le foto degli attori e l’appiccico qui, faccio un archivio.
Le preferite tra queste letture?
Don Chisciotte. Perché sono io. Pensa a Dulcinea. Quella era una contadina che sceglieva i ceci in mezzo all’aia e lui si esaltava. Secondo me, lui si sarebbe accontenato anche di una strega pur di avere vicino una donna. Aveva un animo grande. Era pazzo, no? Con la sua immaginazione rendeva bella anche una donna brutta. Don Chisciotte era secondo me malato. Non esiste poeta contento. Come fa uno felice ad essere poeta? Se non soffri, non puoi scrivere. Il poeta è uno che vive ammollato nella sofferenza. La sofferenza mi piace. Quando non c’è sofferenza, non c’è niente.
E ne parlavi con qualcuno delle tue letture?
Con i ragazzi del Molinari. Ho fatto il bidello lì per 35 anni. In mezzo a tutta quella gente lì parlavamo di letteratura, di lingue. Ne parlavo anche con qualche professoressa. Poi ho fatto il liceo classico al serale. Quando c’era il greco e qualche materia che c’interessava, stavamo in classe. Se no, con una scusa, ce n’andavamo. Ci davamo l’appuntamento al cinema di piazza Argentina con sei, sette studentesse. Ubriacature, sigarette… Ero esaltato. Sono stato sempre un po’ femminaro, diciamo. Ma adesso son vecchio, brutto, non ce la faccio più.
Da Roma a Milano, come e quando sei arrivato qui?
Dopo la guerra ho fatto diciotto mesi il soldato a Como e Varese. Poi sono tornato a Fondi. Poi sono stato da una zia di Monterotondo. E lì questa qui voleva appiopparmi la figlia Adele. Si arrivò al punto che mi fecero ubriacare e mi misero la figlia a fianco nel letto. Stavano preparando persino la dote. Io non dico niente a nessuno e di notte me la filai a Monterondo città, in una pensione di due vecchie, una più cattiva dell’altra. Lì conobbi Peppino, che faceva il camionista e che per poco non mi metteva sotto, mentre io con altri stavo giocando con una palla di pezza per strada. Io dovevo pagare 8 mesi a questa pensionante, ma non avevo una lira ed ero disoccupato. E quell’anno fece otto volte la neve e a Monterotondo vennero i lupi. Peppino mi porta a casa sua. Qui una volta ad un battesimo di una vicina venne invitata una ragazza, Ersilia. Ci siamo conosciuti e con lei sono andato in Abruzzi, a Lanciano, nei pressi di Pescara. Lì mi sono sposato con lei. Poi Peppino e la sua famiglia, che mi avevano ospitato, si trasferirono vicino Vergiate, nella zona di Varese. Siccome ci scrivevamo, andai anch’io da loro e feci venire Ersilia e i due bambini che intanto erano nati. Poi il fratello di questo Peppino, che faceva l’autista di un miliardario, ottenne una casa in via Brembo. E noi avemmo un locale al quarto piano di questa casa. Dopo qualche anno sono usciti due locali al piano di sotto. Ma eravamo senza lavoro e non abbiamo potuto pagare l’affitto. È venuto l’ufficiale giudiziario, ci ha fatto il sequestro e siamo andati a finire in Via Oglio, nelle case degli sfrattati. Abbiamo fatto tre anni lì e poi abbiamo fatto la domanda per le case popolari. E così abbiamo avuto questa dove abitiamo adesso, in Via Chiari.
Te la sei vista brutta a Milano?
Quando stavo in via Brembo - era il 1960 - andavo raccogliendo le bottiglie vecchie con un amico di Ersilia. Poi ho fatto il muratore. L’avevo fatto da sempre. Anche a Fondi bambino zappavo l’orto. Poi mi sono iscritto all’IstitutoTecnico Svizzero, una scuola per corrispondenza, e mi hanno dato il diploma di capomastro edile. Ho lavorato in piazza Frattini, dove abbiamo fatto un quartiere. Poi mi sono ammalato. Sono stato operato d’ulcera. E nel 1966 entrai al Molinari come bidello, dove sono restato fino alla pensione. Ma prima per quattro anni ho fatto l’impiegato amministrativo alle Macchine Edili, che allora era in viale Ortles. Mi avevano preso come telefonista. Poi era morto il capo e volevano fare me capo di questa ditta di due, tremila persone. Ma un ruffiano andò a dire che avevo la tessera della CGIL e mi cacciarono via. Così, non trovando niente, un amico di mia moglie mi suggerì: ficcati nella scuola. Feci ‘sta domanda. Io ero invalido civile per le operazioni che avevo subito. Ero diventato proprio un fuscello. Ebbi il primo posto e arrivai al Molinari.
E in mezzo a tutti questi movimenti, quand’è che hai cominciato veramente a scrivere?
Le poesie da sempre. A scrivere di più ho cominciato sotto le armi. Ma in effetti ho scrivere molto nelle case degli sfrattati di via Oglio. Lì ci avevo del materiale accumulato, tutto un malloppo di carte scritte a macchina, un pot-pourri. Lì scrissi il primo libro intitolato L’uomo sbagliato.
Ma Tra fascisti e germanesi, il libro che ti pubblicò Feltrinelli nel 1973?
Feltrinelli ha messo questo titolo a un pezzo tratto da L’uomo sbagliato. La storia è andata così. Ti ricordi Pozzolini, quel professore d’italiano toscano che era venuto anche in televisione con Enzo Tortora ed insegnava al Settimo Itis? Lesse ‘sto malloppone di 7-800 pagine. Lui curava una rivista lì da Rizzoli. E disse: portalo a Rizzoli. Rizzoli stava quasi per pubblicarlo, ma lo trovarono troppo comunista, troppo rosso. E allora Pozzolini dice: mandalo a Feltrinelli che hanno una collana Franchi narratori. Mi chiamano alla Feltrinelli e questo dottor Tagliaferri ha preso praticamente solo un pezzo di questo libro mio e gli ha dato lui il titolo. Goffredo Fofi ci ha fatto un’introduzione. Quello è un libro che a farci un film…Poi lì alla Feltrinelli mi dissero loro stessi: fai un libro sulla scuola vista da un bidello; e io ho scritto Scuola serrata, ma non me l’hanno preso. Al Molinari c’era un certo Willy, che lavorava con questo editore Ghisoni e nel 1975 mi hanno pubblicato Scuola serrata. Poi a mie spese ho pubblicato a Lanciano nel 1993 Frau Magda. L’ultima donna. Adesso non m’interessa più pubblicare. L’altro inedito che ho scritto Il gran deluso l’ho sta leggendo anche il prete di qui che mi ha detto: Tu sei furbetto. Si è accorto che sono un po’ doppiogiochista in politica.
Facciamo l’elenco preciso dei tuoi inediti…
È un bel problema, perché io comincio, poi lascio lì. Non ho mai dato un ordine. Non ho pensato neppure a scrivere la data sui libri che ho fatto rilegare.
Però un po’ d’ordine bisogna farlo. Vediamo…Dopo L’uomo sbagliato scritto tra il ‘65 e il ‘70 hai terminato Lo sbandato attorno al ’72. Poi dal 1975 all’’80 hai fatto Il gran deluso. L’ultimo comunista, mentre Dissacrazione e verità raccoglie i racconti di tutta la vita e Una vita a pezzi (circa 260 pagine) tutte le tue poesie. Hai poi da parte – qui ben rilegati nella tua libreria – una estrosa guida turistica, Hamburg zu fuss [Amburgo a piedi], nata dalle tue visite a quella città, e i due libri sui dialetti: un Vocaromanzo, cioè romanzo-vocabolario, dove analizzi le parole del dialetto di Fondi collegandole alle vicende della tua biografia [romanzata] e un Vocabolario del dialetto abruzzese che hai depositato nella biblioteca civica a L’Aquila. Infine stai lavorando adesso a Gente senza faccia, che definisci un poema. Se dovessi riassumere la trama di quest’ultimo libro?
Tutti i falliti si riuniscono dentro questa capanna di paglia (mi rifaccio al tempo della guerra…) e ognuno racconta le sue beghe e i suoi guai di una vita da barboni. Per me è un capolavoro, una specie di decamerone che potrei intitolare anche I ragazzi del capanno.
Ma questi libri li hai fatti leggere ad altri?
Adesso non sto bene. Non ci penso neppure a farli leggere, però chi legge le mie robe le trova buone e io vado avanti a scrivere. Adesso mi sono infervorato e sto lavorando. È tutta una trama a flash-back. Parlo di tre donne però che alle fine è una sola ed è mia sorella Elisabetta. E io m’invento che il marito la spara. E vado avanti…
Parlami un po’ del lavoro che fai quando scrivi…
Qui è un macello. Io invento tante cose. Non mi servo delle parole che hanno scritto gli altri. Ho il mio linguaggio. Sono capriccioso, scapigliato diciamo. Scrivo come voglio. Delle date proprio non me ne curo.
I temi che mettono in moto la tua fantasia quali sono?
La guerra è fondamentale. La donna ovviamente per tutti gli uomini è il perno attorno al quale girano tutte le fantasie, perché la donna fa i figli. Poi l’amore, l’affetto. La religione niente, per me non esiste. Gli altri? Mi occorrono. Ho bisogno di tutti. I parenti? Io li sparerei. Non m’interessano, ci dò poco peso. E poi i luoghi: Fondi, Napoli. Roma no. Più i luoghi sono disastrosi più [accendono la mia fantasia].
Tu hai continuato per tutti questi anni a scrivere da solo, senza incoraggiamenti. Perché lo fai?
Questa è una domanda a cui non è facile rispondere…
Ti accontenti di scrivere per te?
Purtroppo che fai? Mica ti puoi imporre. È come la morte. Io certe volte ho paura della morte, di rimanere solo. Però mi dico: se gli altri muoiono, tu perché non vuoi morire? Nasciamo e muoriamo. Se uno non nasce, non muore. Tu una volta mi hai chiamato ‘scrittore clandestino’. Non mi va.
Volevo intendere irregolare, non riconosciuto…
‘Clandestino’ non mi piace, perché tiene qualcosa di delinquente. Uno che fa qualcosa contro la legge. Tu non mi fai essere famoso e io te lo faccio apposta. Io non direi ‘clandestino’. Io mi sento un innamorato della saggezza.
Hai mai pensato di ripulire, aggiustare, sintetizzare, tagliare questa tua vasta produzione scritta?
Se dovessi fare una cosa del genere, farei crollare questo castello. Meglio lasciarlo così. È uscito così dall’anima, dal cuore, dalla tua volontà. Tu desideri una cosa e la ottieni. Io quando scrivo una cosa e mi piace…. È inutile stare a cambiare.
Il lavoro dello scrittore non è anche quello di ripulire, aggiustare?
Non mi piace, non mi piacerebbe. Tu mi consigli di ripulire, rendere meno rozzo questo linguaggio? Io voglio mantenerlo così. Non può venire meglio. Non accetto i limiti. Al circolo dell’Arci qui sotto casa hanno messo una targhetta: ingresso riservato agli iscritti. Io non ci vado più.
5 commenti:
Bella intervista! Personaggio magico quasi irreale, eppure esiste come sono esistiti i suoi tempi e la sua fame di pane e di sapere. Grazie Ennio! La sua poesia è splendidamente vera e piena di vita e di morte senza nessun sogno o meglio certo non ti fa sognare. Mi piacerebbe tanto sentirla recitare da chi sa farlo. Un grande esempio di libertà a tutti i costi. Emilia
Stelvio Di Spigno:
Grazie Ennio: la poesia è stupenda.. Ci sarebbe molto da parlare su come funzionino gli ambienti letterari ma per adesso, fermiamoci a leggere
Questa di Ennio mi sembra un’operazione di grande spessore culturale un salvataggio in extremis di un grande esempio di poesia libera. Un’operazione che va al di la degli stereotipi che accettano solo recensioni patinate e poesia che rispetti regole imposte legate strettamente a piccoli poteri. Operazione coerente con le “pratiche virtuose” di cui parlava Giovanetti. Ciao, enzo giarmoleo
Per Pasqua una gran bella Notte di Natale!
L'operazione antiletteraria di Tagliavento mi ha ricordato quella di Bruno Brancher , che i milanesi conoscono bene . Anarchia linguistica che affascina per corrività ed espressività , in un impeto che vuole obbedire soltanto al cuore della lingua e alla sua profondità , lontana da sudditanze filiazioni e canti di sirena .
leopoldo attolico
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