Con interesse, ma sempre
più scuotendo la testa, ho letto l'intervista (qui) di
Paolo Polvani a Roberto Maggiani, poeta e curatore del sito La
Recherche. Riallacciandomi in parte a quanto scritto nel dialoghetto n.2
tra Samizdat e il Poeta Invisibile (qui),
pubblico questa lettera di commento critico, sollecitando una discussione a più
voci. [E.A.]
Gentile Roberto
Maggiani,
guardo con favore ogni
tentativo di scuotere i poeti dal sogno della poesia “pura”, autosufficiente,
sacralizzata e per lo più evanescente. Ma - anticipo la mia opinione - ho
trovato il suo modo di impostare il problema del rapporto tra
poesia e scienza poco attento agli sviluppi storici di entrambe e rischioso per
la piega “spiritualizzante” che vedo nel suo discorso.
Oggi abbiamo tanti modi
di fare poesia (semplificando: tante poesie) e tanti modi di fare scienza
(tante scienze). Questa pluralità da un lato può essere un vantaggio (più
voci mostrano spesso più di alcune, magari anche eccelse), ma dall’altro è un
problema in più, confonde certi tracciati sicuri; ed è segno comunque di una
crisi che, come tutte le crisi, può
avere esiti imprevedibili e persino disastrosi. (Nulla è scontato e gli esempi,
passati e attuali, non mancano).
In passato poesia e
scienza ebbero ciascuna una propria indiscussa e autorevole unità. Oggi non più.
Si pone allora un problema: i molti produttori
della enorme e caotica valanga di testi scritti o spesso anche di
espressioni orali, che classifichiamo ancora col termine 'poesia',
e i veri e propri eserciti di esperti in saperi formalizzati e
specializzati (o iperspecializzati), che, al servizio di istituzioni (macro e
micro) economiche e politiche e spesso soprattutto militari (aspetto, quest’ultimo,
niente affatto trascurabile), fanno quella ‘ricerca’, che ancora
indichiamo col nome di 'scienza' (o 'scienze'), possono davvero incontrarsi, ascoltarsi, dialogare?
E, di conseguenza, si
pone pure una serie di obiezioni angoscianti: ci sono, cioè, le condizioni
minime (e indispensabili) per permettere un dialogo, un ‘rapporto’ tra poesia e
scienza? E di che tipo? La convinzione (speranzosa) che, pur partendo da
presupposti e strumentazioni diversi, poesia e scienza siano due modi di
conoscenza che attingono allo stesso “reale”, o l’ipotesi che potrebbero attingervi, che fondamenta hanno?
Nell'intervista lei afferma:
«La poesia ha l’obbligo di espandersi
sui territori della scienza, fino ai suoi estremi confini». Bella meta,
ma in apparenza. A parte il fatto che, per come vedo il paesaggio (disastrato)
della poesia contemporanea (diciamo dagli anni Settanta in poi), trovo il
termine 'espansione' un po' immodesto e tracotante, c’è il rischio di proporre
operazioni frettolose, doveristiche («ha l’obbligo»!) e - suppongo, senza però
riferirmi a lei - ignare della conformazione storica dei territori
(scientifici) sui quali ci si dovrebbe addentrare.
E poi non mi pare affatto facile correggere una separazione dei saperi,
che si è consolidata e ha assunto una “pesantezza" materiale,
istituzionale, storica, sulla quale mi sembra che lei troppo ottimisticamente sorvoli.
Come e perché, infatti,
si è arrivati nel corso di secoli a questa separazione tra poesia e scienza? (O
si potrebbe dire, più in generale, tra saperi umanistici e saperi scientifici.
O, come si diceva, negli anni Cinquanta, ai tempi di C. P. Snow, tra le «due
culture»?). Può qualche poeta o scienziato bene intenzionato, magari con
una formazione ibrida e mediante un’azione da "contrabbandieri"
(per me simpatica e persino meritoria, se non si sottovalutassero gli ostacoli
reali e non dipendenti solo da cattiva volontà o pregiudizio), andare oltre un’impostazione
"alla garibaldina" del problema? E specie oggi che - ripeto - in
poesia la crisi si manifesta o con l'amministrazione scolastico-corporativa di
alcune rovine delle Tradizioni del
Novecento da una parte o con un fai
da te narcisistico della «poesia perfettina» (Lucini), sbuffante ad
ogni accenno residuo di pensiero critico dall’altra; mentre nelle scienze si ha
(perché contano davvero nel sistema sociale capitalistico) la totale (tranne
minime e irrilevanti eccezioni) sottomissione agli imperativi del profitto,
della finanza e di poteri politici ormai tra i più oligarchici (altro che
“democratici”) della storia umana.
Una o più rondini
(ancora oggi) non fanno primavera. Può esserci il caso del “poeta-scienziato”
(o interessato fortemente alle scienze; e nell’intervista si fanno, ad esempio,
i nomi di Pagliarani e Zanzotto). Questa rara
avis inserisce nella propria produzione poetica, senza
forzature, con una certa naturalezza (diciamo dantesca?), la propria
sensibilità scientifica o le nozioni scientifiche che ha acquisito per passione
o per contatti diretti (quelli che contano!) con ambienti scientifici. E,
sull’altra sponda, c'è senz'a dubbio, come lei dice, anche chi, già
scienziato o formatosi su saperi scientifici, «può espandersi nel
territorio della poesia» (o dei saperi umanistici).
Non si può però
trascurare che, su entrambe le sponde, tanti, troppi, non hanno né strumentazione
sufficiente o “aggiornata” né curiosità, tenacia e audacia per fare un po’ di
sano pendolarismo tra le due rive. Di fronte a tali casi (numerosissimi) - poeti
o scienziati che siano quanti dovrebbero in qualche modo partecipare a
questa "rivoluzione" o "svecchiamento" o
"sconfinamento" - non è possibile
improvvisare alcunché. Né ci si può affidare neppure all'exemplum individuale. Ci si trova (ed è meglio
che lo si sappia in partenza e bene) di fronte a resistenze (io parlerei
persino di "superstizioni") e -
soprattutto - all’assenza di condizioni favorevoli. (Ah, il tempo! Quello
che viene “rubato” ai disoccupati, ai precari; o quello che a tutti gli altri
viene tolto dalle mille incombenze e mode e coazioni …). E, vivendo qui in
Italia, tengo a precisare che si tratta di assenza di condizioni politiche capaci di produrre
innovazioni vere. Senza le quali non si va da nessuna parte.
Non voglio scoraggiare
nessuno. Si può continuare a pensare che gutta cavat lapidem. O che, partendo da sé o dal piccolo, col
tempo si arriverà a una diffusione virale di comportamenti virtuosi. Ma tanti ne ho visto arenarsi. E,
comunque, resto convinto che una “rivoluzione” di tale portata - quella
che scherzosamente ho chiamato sposalizio
di Poesia e Scienza - non avverrà nei modi ragionevoli e non
conflittuali che lei si prospetta. Tra l'altro e sempre nella logica
(leopardiana e brechtiana) dello sgomberare le piccole illusioni (per eventualmente rivedere quelle grandi), mi pare irrealistico e persino masochistico
che persone di formazione umanistica o di
formazione scientifica si sottopongano - e lo ribadisco: in assenza di condizioni politiche capaci di produrre innovazioni
vere, che, mancando
sarebbero - queste sì - da costruire o ricostruire al più presto per non
vaneggiare o delirare a vuoto - a un tardivo ed estemporaneo
apprendimento o aggiornamento “culturale” nel campo (poetico o scientifico a
seconda i casi) fino ad ora trascurato (e non per cecità soggettiva!). E oggi
poi che c’ingozzano solo di inviti a diventare sempre più “colti”! Ma se la
“cultura” in circolazione è quella (pessima) che è e vi accediamo solo se
possiamo pagarcela, se la scuola “per tutti” è ridotta a una catapecchia, se muri
invisibili e però solidissimi sono stati consolidati tra i veri colti e il ceto medio semicolto, dove viene gettato il seme di un imperativo astrattamemte
"giusto", come quello di coniugare poesia e scienza?
Non nego che singoli
poeti si interessino di scienze (come di politica o di altro) e che
singoli scienziati leggano poesia o ne scrivano, ma questo è sempre accaduto. Come
lei stesso scrive, ci sono scienziati che «già fanno così, anche se non lo
sanno»; e cioè sono genericamente “poeti” quel tanto che è possibile però
nel loro campo, comunque separato per le ragioni storiche cui ho accennato; come
molti poeti sono “scienziati” quel tanto che è loro possibile in poesia, dato
anche qui il percorso storico seguito dalla poesia.
Dubito però che si
tratti di trasferire «aria nuova» dalla scienza alla poesia o viceversa. Valuterei
prima quanta «aria nuova» oggi sia davvero presente sia in poesia che
nelle scienze. E mi pare più probabile che si dovrà semmai scavare a
lungo, come talpe cieche e con enormi difficoltà, nelle proprie gallerie, dove pur
i poeti e gli scienziati più insofferenti sono costretti, sperando chissà
quando di potersi rincontrare fuori dai miopi corporativismi e dalle scolastiche
normative in un’aria davvero «nuova». Siamo sotto le rovine del
Novecento. E forse più in poesia che nelle scienze (ma anche qui non mancano).
Concludendo, mi pare che
il problema del rapporto tra poesia e scienza, enorme e irrisolto, vada posto ai molti, al ceto medio semicolto, che
pratica in modi approssimativi i rispettivi e separati campi che ancora
chiamiamo della poesia e della scienza. Ma vedo i rischi nel porlo come lei
l'ha posto (e mi riferisco anche al suo ultimo libro Nella frequenza
del giallo).
Al fondo della sua
proposta sento un’ambigua nostalgia per una visione umanistica, che ritengo
irreversibilmente persa. Non ci potrà essere - lo dico brutalmente - un ritorno
al “modello Leonardo”. Poesia e scienza, come lei suggerisce, saranno
anche «fatti umani», ma fatti umani sono pure quelli, penosi e pericolosi,
della sottomissioni delle scienze agli interessi commerciali e militari. O
quelli della marginalità politica e sociale della poesia. Per non parlare di
quelli tragici (guerre, violenze, depredamenti) a cui assistiamo impotenti e
passivi, sia che siamo poeti che scienziati.
Quando poi lei scrive «
perché affermo e penso che la poesia sia più della scienza; la poesia, ma direi
l’arte in genere, è l’anima che ingloba la materialità del mondo, e quindi la
scienza», mi cadono le braccia. Torna il
radicato pregiudizio degli “umanisti” incalliti. Lei, in fondo, esalta
una gerarchia (plotiniana) dei saperi, oggi del tutto inesistente.
E si appoggia a un filosofo, Alberto Monasterolo, che ammetto di non
conoscere, ma che - da quel che di lui cita[1]
- spinge il discorso nelle secche di uno spiritualismo per me inaccettabile. Quando poi lei sostiene: «Penso che
sia un grave errore quello di rendere asettica la scienza, lontana dalla sua
anima che è l’uomo stesso nel suo aspetto direi più spirituale», mi chiedo
sconcertato: Come si fa a buttare a mare il metodo galileiano, definendolo
ingiustamente «asettico», quando esso fu fondato invece sull’astrazione
ed ebbe il merito storico di spezzare una visione arcaica e funzionale a poteri
da secoli autoritari e oppressivi? O tornare a parlare di «anima», che nel
suo discorso resta qualcosa di indeterminato? O riproporre («chi di noi
andrebbe a farsi curare da un poeta?») una visione piattamente
“terapeutica” della scienza, che oltre all’obbligo della “terapeuticità”
dovrebbe semmai liberarsi anche dei condizionamenti militari e politici che la
frenano?
Concedere insomma alla
poesia, in quanto «libera dal metodo
scientifico », un «acutissimo senso indagatore e rivelatore di
un più profondo livello di vita/esistenza del cosmo» o comunque una superiorità[2]
mi pare solo un pregiudizio "da poeti", un atto di fede
ideologico. Sono posizioni acritiche del tutto immemori del valore che il
sapere scientifico si è conquistato almeno
fino al «compromesso» con la religione di cui parlava Lukács (e che recentemente ho avuto modo di
ricordare qui in
un dialoghetto su questo blog). E, anche se lei è così onesto da distinguere
religione e scienza,[3]
da difendere il metodo scientifico[4]
e da prendere le distanze dai minestroni oggi di moda,[5]
le ritrovo anche nel suo discorso:
«Io sono un
credente, sono cristiano. Religione e scienza sono in relazione semplicemente
nel fatto che, insieme, ognuna nei propri ambiti di competenza, possono offrire
una visione unitaria e completa del mondo, proprio perché il mondo non è fatto di sola materia né di solo
spirito. Ognuno dia più importanza a ciò che vuole, ma il rispetto delle
discipline, e quindi degli uomini che le fanno e le vivono, è d’obbligo per la
credibilità di uno scienziato o di un religioso».
Ho finito. La
saluto, sperando di non aver esagerato o frainteso e disponibile a
continuare la riflessione e la eventuale discussione.
[1] «La
materia ha bisogno di tutto, proprio in quanto deficienza totale. L’anima le
fornisce questo tutto, ma la realtà sensibile, non riuscendo ad essere
indipendente, si appoggia all’anima, della cui presenza ha bisogno per
mantenersi nella sua pseudo-esistenza».
[2] «la
Poesia è, a mio avviso, uno stato della coscienza umana in cui è permessa
l’osservazione dell’esistenza da questa sorta di sfera superiore dell’anima e
dell’intelligenza, sfera che ingloba la realtà materiale sensibile»
[3] «penso
che la scienza e la religione non possano essere sovrapposte e confuse nelle
loro intenzioni».
[4] «La
Teoria del Tutto che la scienza sta cercando è soggetta a verifiche
sperimentali stringenti, ciò che non è sperimentabile non è pensabile
ascriverlo all’ambito scientifico».
[5] «Alcune analogie tra l’uno e l’altro
ambito, religioso e scientifico, sembrano poter creare una sorta di osmosi tra
loro, va bene, ciò è ammesso, ma ogni analogia ha dei limiti, dico questo
riferendomi a molte pubblicazioni pseudo scientifiche e pseudo religiose di
divulgazione che fanno gran minestroni senza sostanza, forzando le analogie».
23 commenti:
Una controversia interessante. Mi unisco, senza permesso, con alcune semplici osservazioni.
Da lettore di poesie, mi accorgo del mare magnum che si spalanca davanti e dove tutto e tutti sono raccolti (poeti e sedicenti tali).
Premetto. Dal mio punto di vista fare poesia equivale a fare ricerca (la ricerca anima la scienza). Una ricerca che si fonda su materiali e materie ben differenti. Infatti, solo un sapiente lavorio poetico porta a produrre risultati interessanti e degni di nota.
Un primo rilievo. La poesia dovrebbe aprire sul mondo reale nel tentativo di spiegarne il senso o, per lo meno, di contornarne i confini. Insomma: il poeta dovrebbe dire, indicare, mostrare. La scienza ha la prerogativa di spiegare i meccanismo, misurare le quantità, dare luce sul come e sul quando. Anche la poesia, certo, anche se la precisione dello strumentario impiegato è ben differente.
La poesia rincorre il perchè tentando di rintracciare il chi (spesso l'autore che si mette in ricerca per "trovare"). Certo, l'oggetto potrebbe apparire il medesimo, ma la metodologia dell'approccio cambia.
Secondo passaggio. La poesia come chimica (alchimia), di emozioni,sensazioni, sentimenti (quando possibile, dato la loro intrinseca instabilità). Cosa in comune con la chimica da laboratorio o applicata? L'accuratezza delle operazioni eseguite, malgrado il fatto che la poesia opera sullo spirito, ambito dove la scienza è impossibilitata ad addentrarsi per naturale limitazione (dato empirico in senso stretto).
Conclusione, per ora. Le vedute sul mondo reale (la vita nella sua oggettività in senso fenomenologico), possono essere alimentate da due (o più) metodologie di ricerca ed indagine. Sta alla sensibilità dell'autore armonizzare i termini che regolano il suo lavoro.
Non sono avvezzo a muovermi sulla griglia di un aut-aut granitico. L'armonia, scienza esatta (contrappunto etc...), lo indica nel concetto stesso. Insomma: est modus in rebus.
Buona domenica.
Gentile Ennio Abate,
il suo intervento è inaspettato quanto gradito, molto. Le sue, a mio avviso, intelligenti e azzeccate osservazioni mi aiutano a individuare la strada per una ulteriore riflessione per lo sviluppo del discorso sul rapporto poesia e scienza. Quando ho iniziato tale lavoro, mi sono trovato a fare i conti con molti pensieri che si accavallavano l'uno sull'altro, il mio saggio breve è l'inizio di un tentativo che, sono cosciente, va canalizzato, stavo giusto attendendo un rimando critico che potesse aiutarmi nella rilfessione, l'argomento non è facile, né tantomeno privo di insidie, come anche emerge dal suo scritto. Tuttavia non l'abbandono. Non è stato facile trovare un rimando critico pari al suo, la ringrazio; non è stato facile, non perché le persone che l'hanno letto non siano in grado di farlo, ma semplicemente perché ciò richiede tempo e lei ha deciso di dedicargliene è per questo soprattutto che le sono grato.
Non si lasci cadere le braccia, si trova infatti di fronte a uno scienziato che sa bene il valore della scienza. La sottolineatura, da parte sua, di alcuni miei passaggi, mi fa capire che devo assolutamente, da buon scienziato, dare delle definizioni, fissare analogie e paradigmi più chiari, al fine di sviluppare al meglio il "modello" che ho in testa. Ho proceduto senza eccessivo rigore, ma vedo che le mie parole, a tratti, possono essere fraintese. Cercherò di approfondire il discorso, e magari riuscirò a chiarire il mio pensiero sui vari punti che lei tocca. Mi ci vorrà tempo. Spero che qui arrivino altre riflessioni come quella interessante di Massimo Caccia.
Gentile Massimo Caccia,
non c’è davvero bisogno di alcun permesso per intervenire. E nuovi interlocutori sono benvenuti.
Nel merito delle sue osservazioni, mi pare che poeti e scienziati (o “ricercatori” di formazione umanistica e “ricercatori” di formazione scientifica) dovrebbero mantenere il più aperto possibile il discorso (ipotetico) sia sulle analogie e le differenze delle loro “cassette degli attrezzi” sia sull’”oggetto” a cui mirano.
Ci si deve interrogare seriamente se il termine “realtà” (anche opportunamente virgolettato dal poeta o dallo scienziato) corrisponda a una medesima “cosa” o “campo”. Eviterei anche però le tradizionali e nette partizioni dei campi: materia/spirito ad es.
Se diamo per scontato in partenza che «la poesia opera sullo spirito ambito dove la scienza è impossibilitata ad addentrarsi per naturale limitazione», mi pare che, con una scelta arbitraria, venga sottratto all’indagine scientifica un “qualcosa”, che finora abbiamo definito col termine ‘spirito’, ma sulla quale la scienza - chissà - potrebbe arrivare per altre vie e svelare aspetti mai rilevati dagli addetti tradizionali (teologi, filosofi, ecc.).
Ed è poi «naturale» la limitazione che la scienza incontrerebbe se dovesse occuparsi del “qualcosa” che chiamiamo “spirito”? Io non lo credo.
Non clonare (Comandamento)
Dissente il cromosoma dall'esperimento
vuol continuare ad essere una rondine
nel proprio cielo nucleare.
Gli fece dono delle sue parole
Calvino, astronomo di lettere e di stelle,
ed eccolo librarsi a contemplare
gli arredi dei periodi da lui scritti
e quel brunire silenzioso e inquieto
dell'infinito microcosmo cellulare.
Banditi siano dunque quei vetrini
i dubbi microscopi e le illusioni
e rispettata in vero sia
qualsiasi mitosi naturale.
Lasciato sia fluire
il nostro diventare
fosse mostro o malanno
bellezza o disinganno.
Antonio Fiori
da 'Almeno ogni tanto', L'Officina delle Lettere (a cura di Crocetti Editore), 1998
ora in MATHESIS,Dialoghi tra saperi,Dicembre 2011 (rubrica Poesia e Scienza), Delfino Editore, Sassari
Da praticante di ambedue i settori trovo interessante le suggestioni di Maggiani, benché l'impressione che mi lascia sia quella di un parlare volonteroso ma assai "teorico". In cosa, "praticamente", dovrebbe manifestarsi questo travaso di Poesia nella Scienza e viceversa? Come effettiavamente si manifesta, oggi?
Sono del tutto d'accordo con Abate quando sottolinea (con apprensione) l'aspetto "spiritualista" di questo approccio al problema del rapporto fra Poesia e Scienza. Oggi mi sembra anacronistico pensare al poeta (all'artista, più in generale) come ad un umanista a tutto tondo. La conoscenza scientifica è iper-frammentata. Il riduzionismo è arrivato alle sue estreme conseguenze: difficilmente uno scienziato dei giorni nostri può derivare dai propri studi una visione ad ampio respiro del mondo. La formazione degli scienziati non è più umanistica, ma piuttosto tecnologica. E d'altra parte l'effetto di una visione del mondo che parta da pregiudizi di vario ordine (anche culturali o religiosi) può avere conseguenze disastrose sulla raccolta e interpretazione dei dati scientifici (vedi, tanto per fare un esempio eclatante, l'effetto che le teorie razziali hanno avuto sul lavoro di più generazioni di scienziati dei due secoli passati). L'idea che spiritualità e scienza si uniscano in un "mix" incontrollato per lo più mi preoccupa, in quanto mi rimanda ad un'idea della Scienza quale fonte di giustificazione di visioni del mondo che di scientifico non hanno nulla, come potrebbe avvenire (ed è avvenuto) in una biocrazia.
Ovviamente un poeta che legga "Le Scienze" non può dirsi uno scienziato, ma piuttosto un uomo curioso. Allora mi viene da pensare che il travaso fra Arte e Scienza dovrebbe essere un atto, per così dire, "naturale": sarebbe inconcepibile che il "corpus" di conoscenze che costituiscono il sapere scientifico non entri nella visione che un poeta (ma anche un qualsiasi altro artista che non se ne stia a creare nel chiuso della sua cameretta) ha del proprio mondo. E viceversa, gli scienziati dovrebbero poter riconoscere che esistono ambiti in cui la Scienza e la tcnologia entrano con difficoltà, non ultimo quello che attiene al piacere che l'uomo prova di fronte alla bellezza.
Detto questo credo che i due ambiti possano usufruire l'uno dell'altro, ma se rimangono ben separati e distinti (come Stato e Chiesa) non mi sembra un dato negativo né qualcosa da rimpiangere.
Grazie e ciao
Flavio
da Rita Simonitto
Ho apprezzato l’intervista Polvani-Maggiani, che Ennio ha generosamente messo a disposizione dei lettori di Moltinpoesia, proprio per le riflessioni che quello scambio di idee aggiunge al dibattito sul senso della poesia ‘oggi’.
L’intervento di Ennio, aggiunge il ‘sale’ del versante ‘politico’ e ‘storico’, ‘sale’ oggi più che necessario – e di cui abbisogna la poesia stessa - anche per poter stabilire dei parametri di senso a fronte di una realtà sfatta e priva di identità.
Sono stata però particolarmente colpita dall’intervento di Massimo Caccia che sottoscrivo in pieno e del quale vorrei sottolineare due, almeno per me, importanti aspetti.
Il primo riguarda il concetto di ‘ricerca’ che, a parer mio, dovrebbe essere l’anima della poesia così come dovrebbe esserlo per la scienza nei loro singolari approcci verso il mondo della realtà esterna e di quella interiore. Pertanto poesia e scienza potrebbero trovare un importante punto di convergenza quanto al ‘modello’, anche se poi si troveranno davanti allo scoglio della verificabilità che porterà le loro strade a separarsi del tutto o solo parzialmente e/o temporaneamente.
Come sottolinea M. Caccia, il procedimento della verifica differisce quanto alla misura adoperata: quantitativa per la scienza e qualitativa per la poesia. Quando Roberto Maggiani parla della capacità/possibilità della poesia di *cogliere una novità nel normale flusso dell’esistenza*, questa ‘magica’ esperienza di *originalità* ha davvero il significato di dare origine ad un nuovo senso che prima apparteneva alla *nuvola di probabilità* e che, dopo quell’incontro, ha potuto inverarsi in qualche cosa di nuovo. E’ un po’ come concepire un bambino… possiamo conoscere il processo del concepimento fin nei più minuscoli dettagli… ma ad un certo punto dobbiamo arrenderci (temporaneamente, perché solo così la ricerca continua) di fronte ad un ‘click’ misterioso di cui si sa ancora poco. E, a volte, ai rari fortunati nella scrittura poetica accade così, di sperimentare quel ‘click’.
C’è anche una differenza quanto al linguaggio che viene utilizzato per ‘presentare al mondo’ il prodotto della ricerca. Il linguaggio della scienza deve essere preciso e privo di ambiguità mentre il linguaggio della poesia è proprio nell’ambiguità che trova il suo particolare nutrimento. Non a caso R. Maggiani dice *più la parola del poeta è determinata e di significato preciso, più il senso dell’intuizione si rende sfuggevole perdendosi nel tentativo di determinarlo nella parola, non tanto perché la parola lo disturba e lo allontana, ma perché la parola porta con sé, inevitabilmente, altri sensi, rimanendo così il significato iniziale in parte offuscato*. Ma quell’offuscamento, quella ‘velatura’ rappresenteranno una nuova sfida, la possibilità di un nuovo svelamento, di una nuova apertura di senso. E’ fuor di dubbio che questa ‘libertà’ può dare alla testa dando il via al soggettivismo più sfrenato (*tante poesie* come dice Ennio), al punto da sollecitare la poesia ad avere le sue regole e a rispettarle. Non può essere così ‘leggerina e dissipata’ da giacere con tutti senza un minimo di senno! Ed è lì che, forse, casca l’asino, perché se le regole sono gestite dai ‘pontefici’ della poesia – e sappiamo tutti a che cosa facciamo riferimento - quale via d’uscita si può prospettare se non quella di condurre la Poesia a nozze con la Scienza (come se questa, a sua volta, non dovesse rispondere ai suoi bravi ‘pontefici’!).
[continua]
[continua] da Rita Simonitto
L’altro aspetto importante riguarda ciò che M. Caccia segnala in queste parole: *la poesia rincorre il perché tentando di rintracciare il chi (spesso l'autore che si mette in ricerca per "trovare")*. Se ne deduce, e non è del tutto improbabile che ciò accada, che lo scienziato non si pone, non possa porsi, questa domanda relativa al ‘chi’. Il più delle volte – sto facendo delle generalizzazioni, sia chiaro – potrebbe tendere a soggettivarsi nel suo oggetto di studio e di ricerca. Il quale oggetto - proprio per le sue caratteristiche di essere misurabile, quantificabile, estrinsecabile - trasferirebbe al ‘chi’ lo tratta le stesse (o analoghe) garanzie di definito di contro ad un vissuto di precarietà del soggetto stesso.
Rimane così una domanda.
Perché, da dove scaturisce attualmente questo bisogno di “unitarietà”, di ‘dover essere’ da parte della poesia, * (che viene pensata *come più della scienza*, al pari dell’*arte in genere*) al punto da portarla ad espandersi *sui territori della scienza, fino ai suoi estremi confini*? Forse che la poesia viene percepita come portatrice di una funzione ‘mistica’ che ci può tirare fuori dalle secche di un sistema che si sta sgretolando? Senza dubbio, ‘in sé’ , può sembrare priva dei condizionamenti che, invece, la scienza porterebbe ‘per sé’ (ovvero, più sottomessa al regime del profitto). Ma anche la poesia fa parte di un sistema che la condiziona, al pari della scienza. Le loro differenze non si possono misurare in termini di più o meno (come dice R. Maggiani *affermo e penso che la poesia sia più della scienza*), bensì attengono a campi diversi governati da regole diverse.
Che cosa sta succedendo, oggi? Qual è la realtà che ci fa sentire così precari (senza passato, ormai ridotto a macerie, e quindi senza futuro)? Forse che la poesia, l’arte della poesia, ci può illuminare su questo esistente confuso? Può essere. Ma non è il suo ‘compito’. E’, almeno dal mio punto di vista, una possibilità. Altrimenti rischia di essere davvero investita di una funzione ‘salvifica’. Ed è così che rischia, invece, di perdere la sua peculiarità di strumento di espressione dell’esistente e di comunicazione.
Grazie per l’ospitalità.
R.S.
gent.mi interlocutori, in verità devo dirvi che non capisco di che cosa si stia parlando: scienza e poesia sono cose lontanissime l'una dall'altra che rispondono a categorie completametne diverse e distinte. Io sono un pagano e, in quanto tale, non vedo corrispondenza alcuna tra le due "cose", inoltre ho troppo rispetto per la libertà intellettuale della ricerca per volere ridurre il "tutto" ad un ordine e ad una armonia "prestabilite" o "unitaria". Se ricordo bene recentissimamente uno scienziato ha contato il numero di galassie esistenti nel nostro universo, esse assommerebbero a ben 70 sestilioni di anni luce, numero che potremmo tradurre in 70.000 milioni di milioni di milioni di galassie. Ecco qua, ritengo che questo dato, che ci dà l'indicazione della "grandezza" dell'universo sia sufficiente a farci comprendere la risibilità di tutti gli sforzi dei credenti a voler, per atto di fede, riportare il "tutto" ad un punto originario che essi chiamano "dio". non vedo, inoltre, a quale punto originario i credenti intenderebbero agganciare quella cosa chiamata "poesia", forse essi anelano a sottometterla a un "dio" che passeggia per i 70 sestionini di anni luce.
Io sono dell'avviso seguente: è già troppo difficile capire con quale categoria (ripeto una categoria) affrontare l'interpretazione del Presente della poesia, figurarsi andare a individuare le categorie del pensiero che governerebbero, all'unisono, la poesia e la scienza. Insomma, per farla breve, parliamo di cose concrete e non di chimere.
Un esempio. Recentemente un critico accademico mi ha scritto che non condivideva l'impiego della categoria del "Moderno" con la quale io avrei letto la "poesia contemporanea" nel mio libro "Dalla lirica al discorso poetico. Storia della poesia italiana 1945-2010). Orbene, come si vede c'è disaccordo perfino sull'impiego di una (dico una) categoria, figurarsi sull'impiego di categorie anfibie e ambigue.
In definitiva, ritengo che parlare di rapporto tra arte e scienza sia come parlare del volo delle farfalle... possiamo certo impiegare il nostro tempo come crediamo, il tempo è nostro ed è un nostro diritto impiegarlo come ci piace... ma non è, a mio modestissimo avviso, un discorso sensato.
Lo sforzo per capire ciò che non conosciamo è così grande, che se per caso poi lo capissimo, scriveremmo una poesia. Ciao Emy
Ho letto dei colori dell'arcobaleno
non sono bambina e neanche sto per morire
ma questo o quello son stata alla fine.
Emy
Forse a questo quesito potrebbe rispondere il Sonetto che Edgar Allan Poe scrisse nel 1829. Lo posto nella mia traduzione.
SONNET- TO SCIENCE
by Edgar Allan Poe
Science! true daughter of Old Time thou art!
Who alterest all things with thy peering eyes.
Why preyest thou thus upon the poet's heart,
Vulture, whose wings are dull realities?
How should he love thee? or how deem thee wise,
Who wouldst not leave him in his wandering
To seek for treasure in the jewelled skies,
Albeit he soared with an undaunted wing?
Hast thou not dragged Diana from her car?
And driven the Hamadryad from the wood
To seek a shelter in some happier star?
Hast thou not torn the Naiad from her flood,
The Elfin from the green grass, and from me
The summer dream beneath the tamarind tree?
SONETTO – ALLA SCIENZA
Scienza! Vera figlia del Passato tu sei!
Che ogni cosa alteri con occhi indagatori.
Perché così saccheggi il cuore del poeta,
Avvoltoio, dalle ali di tediosa realtà?
Come potrebbe amarti? O ritenerti saggia,
Tu che non lo lasci al suo vagabondare
A cercare tesori nei cieli ingioiellati,
Benché egli si levi con intrepida ala?
Non hai tu trascinato Diana giù dal suo carro?
E scacciato dai boschi le Amadriadi
Per cercare rifugio su stella più felice?
Non hai tu allontanato la Naiade dal fiume,
L’Elfo dall’erba verde e poi da me
Il sogno estivo sotto il tamarindo?
Traduzione di Francesca Diano
Io vorrei capire però a quale tipo di scienza ci si riferisce in questo articolo. Se per "scienza" si intende l'indagine della realtà come la si è posta a partire da Galileo, cioè quella che grossomodo chiamiamo "scienza moderna", imposta dall'Occidente al resto del mondo, o alla scienza in generale, che affonda le sue radici nell'India vedica e che comprende non solo le scienze matematiche, fisiche e naturali, ma la conoscenza in senso lato. Io per "scienza" intendo quest'ultima, assai meno limitata della prima e ben più efficace, perché non si chiude in recinti e limiti angusti. Soprattutto ci si dimentica di dire che la "scienza moderna" è solo uno dei tanti approcci all'indagine della realtà e non necessariamente il migliore.
Lucrezio era un poeta/scienziato/filosofo, lo stesso si può dire per Leopardi.
Non capisco l'imperativo categorico di Maggiani, se non in una lettura più nobile: l'abbattimento delle barriere tra i saperi, le arti, le forme di conoscenza, cosa che è propria del vero umanesimo, della vera cultura classica. Questo sì che è il percorso, il sentiero da battere.
Quando sarà il momento in cui scienza e poesia si incontreranno la scienza non riconoscerà la poesia e soprattutto il poeta,il poeta riconoscerà la scienza e la poesia ne trarrà un grande vantaggio solo se resterà poesia. Riconoscersi per apprezzare. Emy
Ennio Abate a Giorgio Linguaglossa:
Caro Giorgio,
concordo sul fatto che poesia e scienza siano cose lontanissime (oggi soprattutto), che (in teoria) nessuno dovrebbe mettere le braghe alla “ricerca” né in poesia né nella scienza e che le discussioni debbano svolgersi su cose “padroneggiabili” dagli iterlocutori. Tutta la mia lettera a Maggiani partiva da questi presupposti.
Dissento, invece, sulla tua svalutazione del tentativo di interrogarsi sul rapporto arduo ( ma non impossibile e auspicabile per me) tra poesia e scienza.
Non è un’interrogazione inutile da paragonare a quelle dei teologi di una volta sul sesso degli angeli. Lo può certo diventare se la discussione non quagliasse, se non morderà la “realtà”, se, come anch’io temo, prendesse una piega “fideistica” o “spiritualista” per trovare conferma “galattica” di un principio unitario e originario e sensato sul quale le religioni fondano la loro funzione.
Credo, dunque, che dobbiamo continuare a discutere sulle categorie circoscritte e specifiche (come quella del “Moderno” ad es.) ma anche su «categorie anfibie e ambigue» (come quelle di poesia e scienza o di arte e scienza).
Come ho detto all’inizio della mia lettera, vedo con favore gli “sconfinamenti” da un campo - quello della poesia - che a torto viene supposto omogeneo, mentre è “a macchie di leopardo” e vi si trova, a guardarci bene, “tutto”: storia, ideologia, religione, psicanalisi, e - perché no - anche “scienza”.
I “confini della poesia” vanno continuamente ridefiniti (come ricorda anche Rita Simonitto). Controlleremo a un certo punto se siamo riusciti a dire qualcosa di sensato o di nuovo o di stimolante. O se abbiamo perso del tempo. Non mi spaventerei del disaccordo: quello viene fuori, come tu stesso dici, anche se il campo fosse circoscritto.
Mi inserisco in questo interessantissimo dibattito citando il Nietzsche di "Umano troppo umano": "Una cultura superiore deve dare all'uomo un doppio cervello, qualcosa come due camere celebrali, una per sentirci la scienza, l'altra per sentirci la non scienza; che stiano una accanto all'altra senza confusione è questa un esigenza di salute. Nell'un campo si trova la fonte di forza nell'altro il regolatore, con illusioni e passioni da riscaldare: con l'aiuto della scienza cognitiva bisogna prevenire le cattive e pericolose conseguenze di un surriscaldamento". E mi permetto di suggerire la stimolante lettura de "La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale" di Husserl
Gentili amici, è ovvio che per avere un quadro più chiaro nel dibattito in corso, scaturito dal mio saggio "Poesia e scienza, una relazione necessaria?", CFR Edizioni, (http://www.edizionicfr.it/libri_2011/021_Maggiani/Poesiaescienza.htm) sarebbe opportuna la lettura del mio saggio, abbiate pazienza non è pubblicità; penso che altrimenti non possiate far altro che assumere il punto di vista di Ennio come privilegiato, per quanto, lo ripeto, lo reputi molto ben costruito e interessante. Sto leggendo con grande interesse i vari punti di vista.
Infine, non posso che prendere atto del fatto che quello di Giorgio è come al solito un intervento molto tagliente, nel senso che dà per scontato che il suo punto di vista è quello corretto ed è inutile dibattere su questo argomento, si tratta a mio avviso di una sorta di supponenza, per me inaccettabile in un contesto di ricerca... non siamo ragazzini a caccia di farfalle, caro Giorgio.
Ha ragione, Roberto, il suo saggio andrebbe letto per intero. Cercherò di farlo. Rimango tuttavia dell'idea (del tutto indipendentemente da ciò che ho letto nel post di Ennio...) che "spiritualismo" e Scienza non vadano troppo d'accordo. Credo che dalla loro unione possano nascere esseri mostruosi. Non so quindi se "la relazione sia (davvero) necessaria". Scienza (ma ha ragione Francesca Diano, quale Scienza?) e Poesia dovrebbero rapportarsi con reciproca stima, ma, penso, mantenendo una certa distanza di sicurezza.
Grazie e un saluto
Flavio
Ennio Abate a Francesca Diano
Cara Francesca,
vista la piega che sta assumendo uesta discussione, pur essendo di formazione umanista ( ma un po’ contrabbandiere, nel senso che delle incursioni saltuarie per orecchiare cosa pensano e dicono veramente gli scienziati le ho sempre fatte), farò ora il difensore del diavolo, cioè dello scienziato. Ripromettendomi in altro momento, se necessario, di fare il difensore dell’angelo, cioè dell’umanista o del poeta.
Dico perciò che, malgrado l’ammirazione sincera che ho per Poe, questa sua invettiva in versi (anche simpatici) contro la scienza mi pare indecorosa, un cumulo di pregiudizi.
Ci sento un piatto senso comune romantico, che può solo bloccare il discorso che qui si sta cercando di iniziare.
Ecco gli «occhi indagatori» (ovviamente dello scienziato perché lui indagatore non era!) che alterebbero «ogni cosa». Ecco il povero «cuore del poeta» saccheggiato come il fegato del ribelle Prometeo, in questo caso dall’avvoltoio della «tediosa realtà». Ecco la distruzione catastrofica degli antichi miti che tanto facevano sognare le aristocrazie di tutti tempi.
Poe contro Galilei? Scienza “moderna” col suo seguito di «scienze matematiche, fisiche e naturali» contro “scienza in generale” o “conoscenza in senso lato”?
Messa così la partita (amichevole o senza risparmio di colpi) tra poeti e scienziati viene chiusa prima ancora di cominciare.
Altro che “sposalizio”! Qui il don Rodrigo di turno variamente personificabile (e che pare parlare pure in ciascuno di noi come un tirannico Super-io) manda a dire: no, «questo matrimonio non s’ha da fare». Anzi, non essendo oggi fattibile - questa è la convinzione che ho espresso, ma per assenza delle condizioni economiche, politiche, culturali favorevoli, esso non dovrebbe neppure più essere pensato o immaginato. Sarebbe una perdita di tempo.
Il che mi fa pensare che, estremizzando i propri punti di partenza (che in ciascuno di noi, a seconda dall’educazione ricevuta e che non dovrebbe essere sacralizzata, possono essere più umanistici o più scientifici), si finisca per difendere solo il tipo di pensiero (e d’immaginazione) a cui ci siamo più assuefatti e che finiamo per trovare più congeniale o “naturale”: quello romantico alla Poe per gli umanisti; e quello che approssimativamente chiamerei “costruttivista” e “dinamico” degli scienziati.
Scrivi poi: «ci si dimentica di dire che la "scienza moderna" è solo uno dei tanti approcci all'indagine della realtà e non necessariamente il migliore».
Beh, bisogna pur dimostrarlo che non sia il migliore; o che se ne possa fare a meno a cuor leggero. Malgrado tutti i limiti che le scienze “reali” hanno dimostrato. E non è casuale che la denuncia più circostanziata di questi limiti venga dagli stessi scienziati. Io consiglierei a tutti ( e specie agli umanisti) di leggere o rileggersi «Un paradiso perduto» di Marcello Cini (Feltrinelli 1994), per non impantanarsi in denunce approssimative e generiche della scienza.
[continua]
Ennio Abate [continua]:
Mi pare poi che sia tutto da dimostrare - se vogliamo ragionare e non essere dei dogmatici - che la scienza come la intendi tu, cioè la “scienza in generale” o “conoscenza in senso lato”, sia « assai meno limitata della prima e ben più efficace, perché non si chiude in recinti e limiti angusti».
Io, abituato a sorbirmi tanti poeti fanfaroni, sono sempre rimasto ammirato dall’ammissione di modestia degli scienziati veri, che dicono all’incirca : «Questo conosciamo e aggiungiamo pure che col tempo può essere anche messo in forse da altri scienziati; e sul resto non ci pronunciamo».
E ho imparato a riflettere seriamente su questa frase di Max Weber, tratta da «La scienza come professione» e riportata alla mia attenzione dalla lettura degli scritti di Gianfranco La Grassa, uno dei pochi veri studiosi di Marx in questa Italia pseudo liberale e ancora filocrociana:
«Ognuno di noi sa che, nella scienza, il proprio lavoro dopo dieci, venti, cinquanta anni è invecchiato. E’ questo il destino, o meglio, è questo il significato del lavoro scientifico, il quale, rispetto a tutti gli altri elementi della cultura di cui si può dire la stessa cosa, è ad esso assoggettato e affidato in senso assolutamente specifico: ogni lavoro scientifico ‘compiuto’ comporta nuovi ‘problemi’ e vuol invecchiare ed essere ‘superato’. A ciò deve rassegnarsi chiunque voglia servire la scienza».
Ma anche negli ultimi decenni, quando nelle università italiane è cominciata a impazzare «La crisi della ragione» (qualcuno si ricorda questo libro di Aldo Gargani, che mi pare uscito nel 1978), non me la sono mai sentita di buttar via a cuor leggero il pensiero scientifico (e l’immaginazione “moderna”), che ogni buon scienziato, a meno che non sia un arido e noioso ragioniere, ha sempre dimostrato di avere. Sono, dunque, ostile alle crociate contro « il metodo scientifico sperimentale», proprio perché è quello degli scienziati “intelligenti”, cioè pieni di dubbi e che sanno di sapere una percentuale minima di quello che si dovrebbe/potrebbe sapere. I sicuri, i dogmatici, i fanatici, i superficiali sono poi in tutti i settori; e possono essere scienziati, umanisti, politici, gente comune.
[Fine]
Cari amici, segnalo in questa pagina altri commenti relativi allo stesso argomento:
http://www.larecherche.it/testo.asp?Id=278&Tabella=Proposta_Articolo
non c'è alcuna supponenza nelle mie parole, credimi Roberto, il mio pensiero è molto semplice: non c'è nessun dialogo tra "scienza" e "poesia" e, come critico di poesia, neanche voglio che ci sia alcuna commistione... del resto questo la Chiesa l'ha capito (dopo duemila anni!) e se ne frega della poesia (che non conta niente!): avete mai contato le recensioni dei libri di poesia che sono comparse su "L'Osservatore romano"? ve lo dico io: nessuna. Questo è il punto, ma di che cosa vogliamo parlare? la chiesa sa benissimo ciò che le interessa, le interessa "regolamentare" la ricerca scientifica ma non gliene frega niente di "regolamentare" la ricerca poetica perché la prima fa paura e la seconda fa un bel niente, non conta niente. Andare appresso alle chimere e alle farfalle può essere un'occupazione bella, un bel passatempo, io alla mia età non ho tempo da perdere dietro a cose che ritengo fumose.
E poi: chi mai vuole impedire il "dialogo tra scienza e poesia"? - personalmetne, ritengo che gli scienziati e quei 3 o 4 poeti che secondo Moravia nascono in un secolo debbano essere liberi da intralci e da interferenze. Personalmente, quando leggo una poesia di Gezim Hajdari non mi interrogo se nella sua poesia ci sia un rapporto tra la scienza e la poesia, la leggo perché la poesia di Hajdari mi dà delle sensazioni forti, mi scuote dalle mie certezze e dalle mie incertezze... ma quando leggo una poesia di Magrelli sento subito puzza di euro; quanti euro gli fruttano queste poesiole a Magrelli? Ecco, quando leggo le poesie di Hajdari non sento puzza di bruciato, tantomeno puzza di euro. Ecco, questo è il vero rapporto sopra il quale dobbiamo (credo) soffermarci: quanto puzzano le poesie di questo autore e di quest'altro? che sapore hanno? al servizio di quale zar sono queste composizioni? -
Lasciate che ve lo dica: il vero paradigma di tutti i rapporti è quello indicato da Mandel'stam in una sua famosa poesia: "io con il potere non ho avuto che vincoli puerili". Il vero problema dei problemi è il rapporto che lega la poesia al potere. E quella di Mandel'stam e di Hajdari non puzza, non si sente nessun afrore di euro.
Caro Ennio, è sempre un piacere scuotere un pochino il tronco di un albero per vederne cadere i frutti maturi delle tue reazioni appassionate :) E, come appunto mi aspettavo scrivendo il mio commento, le tue reazioni hanno infiammato il dialogo. Eheheh. Ma, seriamente ora, iniziando dal sonetto di Poe, vorrei dire alcune cose in proposito. Questo sonetto è del 1828, pubblicato nel 1830, proprio negli anni in cui in America nasceva quel movimento di vastissima portata, che inizia una sorta di rinascimento americano, che è il Trascendentalismo. Il pensiero di Emerson e Thoreau, che qui non è il caso di ricordare, si ricollega per molti versi a quello di Poe. In America si iniziavano a vedere con chiarezza gli effetti dell'industrializzazione e già c'era chi, come loro, anticipava i guasti del capitalismo e della "dull reality", la tediosa o opaca realtà che tutto questo avrebbe portato.
Il sonetto di Poe non va visto come una stolida critica alla scienza (a parte che in esso c'è una certa ironica ambiguità), ma va interpretato all'interno dell'intera opera di Poe e della sua poetica. Quando tu affermi che "l'occhio indagatore" (the peering eye) non è certo di Poe, forse dimentichi che Poe ha scritto un'opera incredibile qual è Eureka, un trattato sulla formazione dell'universo, in cui, documentandosi su tutti gli studi astronomici e fisici esistenti al suo tempo, da Galilei, a Newton a Tycho Brahe in giù, ha anticipato con una precisione impressionante la teoria del Big Bang e quella della relatività. Leggere per credere. MA, appone all'inizio del suo lavoro, questa frase: "Ciò che oggi è dimostrato, un tempo fu solo immaginato." La facoltà dell'immaginazione, era per Poe alla fonte stessa della scienza. Ma anche di ogni attività poietica. Immaginazione (imagination) cioè la capacità di intuire per immagini e NON fantasia. E non c'è scoperta scientifica che non nasca da un'intuizione. Poe, di cui mi pare, tu sottovaluti quella mostruosa capacità raziocinante che è la base stessa di tutta la sua opera, non è affatto nemico della scienza. La scienza analizza attraverso i suoi strumenti, un certo ambito o livello della realtà, la poesia un altro. La scienza, per Poe, è uno strumento per leggere la realtà, l'immaginazione, che non esclude affatto la scienza, è un diverso strumento per leggere una diversa realtà, non affatto in contrasto con quella della scienza, piuttosto la completa. Difatti, nelle prime frasi di Eureka, Poe scrive che questa sua opera deve essere letta non come un trattato scientifico (come in effetti è) ma "come una poesia" (like a Poem). Pensa te! Se poesia e scienza si sono mai incontrate, questo è avvenuto proprio in Poe e in modo del tutto consapevole.
Ribadisco che le separazioni tra campi del sapere non sono mai benefiche (scientia viene da scire = sapere, conoscere) e che questa ossessiva frammentazione e atomizzazione è assurda. Io rifiuto categoricamente l'idea di separare il ragionamento logico-razionale dall'attività immaginativa e creativa. Il rigore della logica non è affatto nemico della poièsis. Anzi, proprio l'opposto.
Cara Francesca,
in fondo credo che siamo d’accordo sulla sostanza "teorica": c’è un’immaginazione scientifica che non ha nulla da farsi perdonare da quella poetica.
E lo siamo anche sul fatto che Poe non sia “antiscientifico”, così come dà a credere una lettura della sua poesia decontestualizzata, come la mia. Anche se avevo sottolineato, ironicamente ma troppo velocemente, la contraddizione in cui mi pare cada Poe in QUESTA poesia: «Ecco gli «occhi indagatori» (ovviamente dello scienziato perché lui[Poe] indagatore non era!)».
Restano però irrisolti i problemi collaterali di questa discussione:
- un senso comune romantico e irrazionalista può alimentarsi anche di una poesia come questa per tirare acqua al suo mulino;
- il presentimento di quanto sarebbe stata sconvolgente non - mi permetto di precisare - l’"industrializzazione", ma L’INDUSTRIALIZZAZIONE CAPITALISTICA, che fu di tutti i romantici e anche del nostro Leopardi, non essendo riuscito a farsi progetto politico rivoluzionario (come pur tentò di farlo diventare Marx… e qui ci sarebbe da rispolverare tutto un pezzo di storia con la polemica tra il “socialismo scientifico” di Marx e i socialisti utopisti), ha prodotto i disastri sociali che i nostri antenati e noi subiamo e - guarda un po'! - grandiose opere di letteratura o poesia che paradossalmente restano come ambigue sfingi: dicono e tacciono al contempo la loro «promessa di felicità» (Adorno, Fortini) e sono tirate dai bravi intellettuali (ben pagati) per lo più dalla parte dei dominatori . E’ il dilemma della poesia e dell’arte che si separano dalla scienza o della scienza che si separa dalla poesia e dall’arte (o dalla «conoscenza in senso lato»)?
Non è certo un problema che risolveremo su questo blog, ma intravvederlo non mi pare cosa sconveniente.
Caro Giorgio, penso di non essere d'accordo con Moravia e penso che le motivazioni di Magrelli nella poesia siano semmai un suo problema personale; al di là delle motivazioni che lo spingono a scrivere poesie, penso che le sue siano poesie e ti dico che riescono a scuotermi come tu dici succederti con le poesie di Hajdari, come mai a me sì e a te no? Questo rientra nel discorso che faccio nel saggio quando parlo di indeterminazione del senso della poesia (che ora qui non approfondisco). In ogni caso in poesia non vige la democrazia, non penso cioè che una poesia sia poesia se l'80% la pensa tale e il 30% no oppure, viceversa, non lo sia nel caso contrario, la poesia è determinata tale da molti altri fattori, può essere che un poeta nel suo tempo non sia neppure ritenuto tale... 0% di consensi! In ogni caso non sono certo i critici a decidere se una poesia è tale oppure no...
Vorrei inoltre precisare, più in generale nella discussione, che la mia posizione è per una distinzione netta tra poesia e scienza, mi pare che io sia stato frainteso - ci tengo quindi a dichiararlo - ma ciò non vuol dire che non possano dialogare, nel senso che insieme possono donarci una più ampia visione sul reale. Faccio sempre l'esempio della mela tagliata a metà. La poesia, ad esempio, la guarda dal lato del taglio, dirà così che la mela è bianca, piatta e con noccioli, la scienza guarda invece la mela dal suo punto di vista, magari dal lato opposto, la vedrà allora rossa, tonda e senza noccioli. Davanti a tale discordante descrizione possono litigare per tutta la vita, pensando che i loro punti di vista sono così differenti da essere inconciliabili, litigano per chi ha ragione, oppure non si considerano pensando di avere due compiti diversi, oppure, ed è quello che io penso, mettendo insieme i loro punti di vista possono arrivare a una descrizione più completa dello stesso reale sul quale entrambe puntano lo sguardo.
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